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02 Hold Me. Qui

Page 20

by Kathinka Engel


  Rimango in silenzio.

  «Gliel’avevo detto di non farlo!»

  «Lo sapevi?» chiedo, e sento di nuovo montare la rabbia.

  «Quando ho conosciuto Zelda mi hanno fatto un sacco di domande, ma io ho detto solo cose carine su di lei, credimi!»

  «Certo che ti credo.» Se c’è una persona al mondo di cui posso fidarmi al cento per cento, è Jasmine.

  «Sappi che io non la penso così, Malik. Sono dalla vostra parte. Vi ho visti insieme e sono contenta che tu l’abbia incontrata.»

  Non ho il cuore di dirle che abbiamo appena deciso di prenderci una pausa.

  «Anche mamma e papà se ne accorgeranno, devi solo dargli tempo. Vedrai. Ti ricordi quando Theo ha portato a casa Whinnie?» Whinnie era un porcellino d’India. «Mamma ha dato di matto, non voleva avere altri impicci in casa, ma alla fine è quella che ha pianto di più quando abbiamo dovuto darlo via, perché Ebony era allergica. Devono solo abituarsi. Te lo prometto. Non aver paura, Malik.»

  Deglutisco a fatica. Sentire Jasmine così convinta mi commuove profondamente.

  «E allora potremo stare tutti insieme», prosegue, «tu, Zelda e noi. Sarà bellissimo. Devi solo avere un po’ di pazienza. Vi aiuterò io, parlerò con loro. Lo sai che ottengo sempre quello che voglio», conclude ridacchiando.

  Quasi tutto, mi viene da pensare. Sono così grato a mia sorella in questo momento. Ha un po’ alleviato il senso di solitudine che provo.

  «Puoi farmi un favore?» le chiedo.

  «Tutto quello che vuoi!»

  «Chiedigli scusa da parte mia e digli che per un po’ non ho molta voglia di venire a pranzo e a cena. Credo di aver bisogno di prendere un po’ le distanze da tutta questa faccenda.» Non è esattamente la verità, ma Jasmine non deve sapere altro.

  «Glielo dico subito.»

  «Grazie, Jas.»

  Chiacchieriamo un altro po’, è bello sentire la sua voce. Mi racconta di come vuole cambiare l’arredamento di camera sua e di Ebony, e poi della scuola, della sua migliore amica che si è innamorata di un cretino, o almeno così lo definisce lei. Io l’ascolto e basta. Mi fa sentire un paio di canzoni che trovo orrende, e lei sicuramente lo sa. Dopo un po’ sento la voce di Ebony in sottofondo, ma Jasmine le dice di lasciarla in pace. Riesco a immaginare benissimo Ebony che se ne va delusa, perché sua sorella non vuole giocare con lei. È un pensiero un po’ triste, ma d’altro canto sono felice che Jasmine resti al telefono con me.

  «Sai una cosa? Oggi Zelda è stata pazzesca», dice Jasmine dopo una lunga tirata sul fatto che trova ingiusto dover tornare a casa alle dieci di sera nel fine settimana. «Intendo il modo in cui si è comportata con i piccoli, e anche con mamma e papà. È stata forte. Il primo approccio con la nostra famiglia non dev’essere facile.»

  Non riesco a trattenere una risata. Ha ragione, Zelda è stata davvero incredibile. Quasi mi pento di aver proposto questa stupida pausa, ma sono sicuro che sia stata una decisione giusta. Eppure, ricordarla con le gemelle mi fa serrare la gola.

  «Adesso devo andare, Jas», concludo. Non voglio che se ne accorga.

  «Okay, Malik. Chiamami se ti va di parlare. Anche se non vieni a trovarci per un po’, non vuole mica dire che non possiamo vederci io e te?»

  «No, potremo vederci sempre!» dico.

  «Ti voglio bene.»

  «Anche io.»

  Poi riattacca, e io mi incammino verso casa.

  Quando arrivo mi accascio sfinito sul letto. Che giornata! Prima i miei genitori che mi dicono di essere contrari alla mia relazione con la ragazza che mi ha reso l’uomo più felice del mondo. Poi scopro che la ragazza che mi ha reso l’uomo più felice del mondo mi ha tenuta nascosta una parte importante della sua vita. Non è la prima volta che provo questa sensazione, la sensazione che il mondo stia cospirando contro di me. Ma, a differenza di prima, cerco di reagire razionalmente. Niente è ancora perduto, so di potermi fidare di Zelda. Quello che c’è tra noi è reale. Ed è meraviglioso. Dobbiamo solo trovare il modo di conciliare la nostra relazione con la vita di entrambi, ma ce la faremo, una volta che ci saremo dimostrati l’un l’altro di volerlo davvero. E, santo cielo, io lo voglio con ogni fibra del mio corpo.

  Dopo un po’ sento Rhys rientrare a casa.

  «Ciao», saluta, e comincia ad armeggiare in cucina. «Malik, ci sei?»

  Sono esausto, ma mi tiro su. L’amicizia con Rhys è una costante della mia vita, un punto fermo. Ricordo ancora quanto mi sono sentito impotente quando lui si è chiuso in se stesso e ha provato a escludermi dalla sua vita. Non ho intenzione di fargli niente del genere.

  «Ciao», dico, e mi siedo con lui in cucina.

  «Ho portato dei panini dal bar. Ti vanno?» mi chiede.

  «Non ho fame.»

  «Ah già, oggi avevi il pranzo dai tuoi. Com’è andata?»

  «Non benissimo. I miei genitori sono preoccupati per via della mia relazione con Zelda.»

  «E perché?» mi chiede lui con la bocca piena.

  «Dicono che veniamo da mondi troppo diversi.»

  «Vale anche per Tamsin e me, ma non è mai stato un problema», risponde lui con un’alzata spalle.

  «La pensavo così anche io, ma a quanto pare ho sottovalutato quanto siano effettivamente diversi.»

  «Che intendi?»

  «I genitori di Zelda non sanno nulla di me.» Deglutisco. Ammetterlo ad alta voce fa più male di quanto pensassi. «Lei non gli ha detto niente. Quindi ho proposto di prenderci una pausa, finché lei non avrà più chiaro cosa vuole.»

  «Cazzo», dice Rhys. «Quindi non vi vedrete per un po’.»

  «Per un mese», rispondo.

  Rhys annuisce. «Non sarà facile.»

  «No, ma è la cosa giusta da fare.»

  27

  Zelda

  APPENA entrata individuo subito Tamsin e Sam, seduti a uno dei tavoli in fondo. Siamo al Vertigo, un locale per studenti nel quartiere della movida di Pearley. Le strade, qui, sono piene di bar e negozietti vintage, le cui insegne luminose colorano il marciapiede a tinte vivaci. Il locale è arredato con un gradevole misto di mobili tradizionali e materiale di recupero. Le pareti sono coperte di targhe di metallo, i tavolini di legno verniciato scintillano nella penombra e dagli altoparlanti esce musica rock.

  Tamsin mi vede e mi fa un cenno, io faccio una piccola deviazione al bancone per ordinarmi una birra. La cosa migliore del Vertigo è che nessuno si sogna quasi mai di chiedere un documento, e io spero davvero che un goccetto mi aiuti a far tacere le voci che urlano nella mia testa.

  «Scusate se mi imbuco così nella vostra serata.» In realtà speravo di poter parlare da sola con Tamsin, ma quando l’ho chiamata era già fuori con Sam.

  «Non c’è problema», risponde lei. «Al telefono mi è sembrato che avessi una certa urgenza.»

  Bevo un sorso dalla bottiglia e percepisco il suo sguardo su di me, ma rimango a fissare l’etichetta della birra come se fosse una lettura interessantissima.

  «Allora», continua, «ne vuoi parlare?»

  Lancio un’occhiata incerta a Sam. «Ehm…»

  «Vi lascio un momento da sole?» dice lui con un sorriso comprensivo, facendo per alzarsi. Ma io lo fermo.

  «No, ti prego. Va tutto bene, è solo che a volte è un po’ strano parlare con te, perché sei il migliore amico di Tamsin, ma anche un nostro professore.»

  Sam sorride di nuovo. «Forse fareste meglio a non frequentare più i miei corsi, così potremo essere dei normali amici.»

  «Ma chi animerebbe i dibattiti se non ci fossimo noi?» chiede Tamsin ridendo.

  «Okay, potete continuare a venire. Però devo in ogni caso lasciarvi un momento da sole.» Si alza e si incammina in direzione del bagno.

  «Sono felice che abbiate deciso di ricominciare ad avere un rapporto normale», affermo. «È tutto risolto?»

  «Spero di sì. In ogni caso, le cose sembrano sempre più facili ogni volta che ci vediamo. Adesso però raccontami cosa è successo!»

  Le faccio un riassunto della mia giornata: il pranzo da Malik, le preoccupazioni dei suoi genitori, la nostra
discussione e la mia confessione.

  «E adesso abbiamo deciso di prenderci una pausa, in modo che io possa capire bene cosa voglio. Come se non lo sapessi!» aggiungo. Mi passo un dito sotto gli occhi per frenare le lacrime che sento bruciare sotto le palpebre.

  «Ehi.» Tamsin mi prende la mano. È un gesto premuroso, lo so, ma mi rende ancora più triste. Non è la sua la mano che vorrei sentire. Malik mi manca già.

  «Sono proprio una stupida.» Tento di fare un sorriso, ma ci riesco solo a metà. «In qualche modo pensavo di poter avere entrambe le cose: essere felice e salvare le apparenze. Tipico dei Redstone-Laurie. Dev’essere una roba genetica.»

  Sono furiosa con me stessa, non sopporto di essere l’unica responsabile del casino in cui ho infilato me e Malik. Non ci sono scuse per il mio comportamento, anzi, dovrei essergli grata per aver reagito in maniera così ragionevole e matura.

  Quando Sam ritorna cambiamo argomento. Lui e Tamsin mi raccontano aneddoti del loro paesino, Rosedale. A quanto pare Sam non ha mai potuto sopportare l’ex ragazzo di Tamsin.

  «La letteratura è solo una sciocchezza, Sam», lo imita con voce nasale. «Ti consiglierei di investire quanto prima nel settore immobiliare.»

  Tamsin ridacchia e gli punzecchia un fianco. «Sei impossibile! E va bene, Dominic forse non è stata una delle mie scelte migliori. Ma il fatto che tu non ti sia mai dato la pena di conoscerlo veramente non ha aiutato.»

  «Ehi, non è vero», ribatte Sam. «Eccome se mi sono impegnato! Le prime due volte, almeno. Poi ho cominciato a colpirlo con le sue stesse armi.»

  «E cioè?» chiedo.

  «Portavo sempre tutto all’estremo. Una volta lui ha detto che non permetteva a Tamsin di guidare la sua BMW, perché lei non la trattava bene come meritava, e allora io ho detto che a volte accarezzavo la mia auto per farla addormentare.» Sam ridacchia e anche Tamsin sta per scoppiare di nuovo a ridere, sebbene cerchi di resistere.

  «Una volta Dominic mi ha confessato che ammirava molto mio padre perché si occupava personalmente delle piccole riparazioni di casa. Ha detto che era un vero uomo», racconta poi alzando gli occhi al cielo.

  Sam quasi non riesce a smettere di ridere. «E io allora una volta gli ho detto che il padre di Tamsin aveva ucciso un cervo a mani nude.»

  «L’hai confezionata così bene che lui ci ha creduto!»

  «Credo sia stata la balla più grande che gli abbia mai rifilato. Uccidere un cervo a mani nude, ma si è mai sentita una storia del genere?»

  Beviamo un’altra birra e poi ci salutiamo. Tamsin ha qualcosa da finire per l’università e Sam ha altri piani. Probabilmente esce con qualcuna, come ormai fa quasi tutte le sere.

  «Tu te la cavi?» mi chiede la mia amica quando ci salutiamo davanti al locale.

  «Devo», rispondo. Ci abbracciamo. Tamsin mi tiene stretta un po’ più del solito, io mi appoggio a lei e penso a Malik.

  «Chiamami se ti serve qualcosa, altrimenti a lunedì.» Mi saluta con la mano e si avvia verso il suo appartamento.

  «Vai anche tu di qua?» chiede Sam, indicando la strada.

  Annuisco.

  «Allora facciamo un pezzo insieme.»

  Il marciapiede è pieno di gruppi di ragazzi che entrano o escono dai locali, sono tutti di buonumore, chiacchierano ad alta voce, si danno il cinque, si scambiano pacche sulle spalle e si abbracciano. Tutta questa spensieratezza mi ferisce come un pugnale.

  «Che fai adesso?» chiedo a Sam, tanto per fare conversazione.

  «Vado al cinema.»

  «Con chi?» Non dovrei essere così curiosa, nel peggiore dei casi potrebbe trattarsi di qualche universitaria che conosco.

  «Da solo.»

  «Da solo?» chiedo sorpresa.

  «Lo faccio spesso», dice lui alzando le spalle.

  «Vai spesso al cinema da solo? E non ti senti… solo?»

  «No, a dir la verità no. Mi piace non dover per forza parlare subito del film. È una cosa strana da spiegare. Dopo aver visto un bel film mi sento sempre un po’ vulnerabile, come se avessi vissuto un’esperienza molto intima. Mi serve tempo per riflettere sulle mie emozioni, prima di condividerle con qualcuno.»

  Non so se ho capito bene cosa intende, ma tutti hanno qualche strana abitudine. Continuiamo a camminare in silenzio.

  «Ti va di accompagnarmi?» chiede infine Sam.

  «Non hai detto che ti piace andare da solo?»

  «Ma questo film l’ho già visto. Il mistero del falco, con Humphrey Bogart. È un classico.»

  «In questo caso vengo volentieri.» Per me, invece, è fondamentale non restare da sola, perché al contrario di Sam non sono molto brava a stare con me stessa.

  Il cinema è in una stradina secondaria dove non sono ancora mai stata. Sam si ferma davanti a un edificio anni Trenta dipinto di bianco. Sull’insegna luminosa, che va dal primo piano fino al tetto, si legge il nome del cinema: Electric. Sotto c’è un cartellone vecchio stile a caratteri mobili.

  Sam apre una delle doppie porte e io entro, accolta da una luce calda e soffusa. La moquette rossa e verde sa un po’ di muffa, ma non in modo sgradevole. Alle pareti sono appese le locandine dei film, ma quando passo in rassegna meglio il foyer mi accorgo che non si tratta delle ultime uscite. Alcuni dei titoli mi dicono qualcosa, ma gli unici che ho visto sono Il silenzio degli innocenti, Casablanca e Fight Club. Forse dovrei prendere più sul serio le serate film con i miei coinquilini.

  «Ciao, Norman», dice Sam rivolto a un signore anziano seduto dietro una lastra di vetro. «Oggi due biglietti.»

  L’uomo spalanca gli occhi, poi distende le labbra in un sorriso, mostrando i pochi denti che gli sono rimasti. Sono un po’ stupita dalla sua reazione, sia perché pensa che io sia la ragazza di Sam, sia perché evidentemente lui non ha mai portato nessuna delle sue innumerevoli conquiste in questo minuscolo vecchio cinema.

  «Popcorn?» mi chiede Sam.

  Annuisco entusiasta; Norman si alza faticosamente e con una lentezza estrema si sposta dietro al bancone, accanto al botteghino.

  «Dolci o salati?» mi chiede.

  «Dolci!» rispondo subito. Poi guardo Sam. «Per te va bene?»

  «Certo.»

  Norman riempie al rallentatore una busta di carta a strisce rosse e gialle con i popcorn presi dalla macchina, poi me li porge con un altro sorriso sdentato.

  «Questi li offre la casa», dice facendo l’occhiolino a Sam.

  Ringraziamo ed entriamo in sala. Le pareti sono dipinte di rosso e illuminate da lampade a forma di ventaglio. A parte noi non c’è nessun altro. Sam mi guida verso una delle file centrali e ci sediamo.

  «Ci vieni spesso qui, vero?» chiedo.

  «Ogni volta che posso.»

  «Perché?»

  «Perché lo trovo un posto fantastico. Non ci sono più molti cinema così, prima o poi resteranno solo i multisala dei centri commerciali. L’Electric è un posto fuori dal tempo, qui puoi davvero capire come doveva essere andare al cinema una volta.»

  Annuisco. Mi piace lo sguardo di Sam sul mondo.

  «Tu stai bene?» mi chiede.

  «Mmm, dipende da cosa intendi. Fisicamente sono a posto, e questa distrazione mi fa piacere. Grazie per avermi invitata.»

  «Non c’è di che», risponde Sam, mettendosi gli occhiali.

  «E tu come te la passi? Tutto bene?» domando mentre le luci si spengono e parte il jingle della Warner Bros.

  «Tutto bene», dice lui con un sorriso illuminato dalla luce dello schermo.

  28

  Malik

  OGNI mattina, appena mi sveglio, il mio primo pensiero è per Zelda. Cosa fa? Sta pensando a me? Le manco? Le manca stare con me? Lei mi manca così tanto da provocarmi quasi un dolore fisico. Ma sarò forte. Non voglio metterle pressione, perciò devo distrarmi. Trovare una nuova dimensione per me stesso, indipendente da tutto il resto. Ecco come ho deciso di impiegare il mio tempo, nelle prossime settimane devo tornare a concentrarmi su chi sono, su quali sono i miei obiettivi, e su dove voglio arrivare. Jasmine, Theo, Ebony, Ellie, Esther. Pensare a loro, in prigione, non riusciva a distrarmi,
ma ora mi dà la forza che mi serve per ricominciare con nuova energia.

  Accumulo sempre più determinazione, che mi serve per fissare gli occhi sull’obiettivo: il lavoro, il tirocinio, il sogno di diventare chef. Conta solo questo. Devo dimostrare alle mie sorelle e a mio fratello che ce la posso fare. Jasmine, Theo, Ebony, Ellie, Esther. Devono sapere che le loro origini non hanno determinato per sempre il loro futuro. Pensare a loro mi dà lo stimolo giusto. Voglio dimostrare loro che lavorando sodo possono essere artefici del loro destino.

  Il primo passo di questa nuova determinazione mi porta da Clément.

  «Posso parlarle un momento?» gli chiedo poco prima che inizi il turno. So che prima di mettersi al lavoro si fuma sempre una sigaretta, quattro tiri esatti, e poi comincia la giornata. Perciò, quando tira fuori una sigaretta dal pacchetto, mi faccio trovare già pronto con un accendino.

  «Non hai nessun altro da infastidire?» mi chiede scocciato.

  «No, a dir la verità lei è l’unico che può aiutarmi.»

  Clément guarda l’orologio e sbuffa con fare teatrale. «Due minuti.»

  Trattengo il fiato. «Senta, Clément, sono molto grato per l’opportunità che mi ha dato. So bene che è un privilegio avere un impiego in un posto come il Fairmont.» Faccio una breve pausa calcolata. Clément ha inarcato le sopracciglia e ora mi guarda con una certa curiosità. «Ma io sono qui anche per imparare qualcosa», aggiungo con decisione, «ed è ciò che intendo fare.» Mi fermo di nuovo e cerco di valutare la sua reazione. Poi riprendo: «So di avere talento. Potrei essere un valore aggiunto per la sua cucina, se solo lei me lo permettesse».

  Clément ridacchia e sbuffa fuori il fumo. «Talento, eh? E hai un talento anche per la modestia?»

  «Ogni cosa a suo tempo», rispondo con una convinzione che in realtà non ho. Ma qui conta solo lasciare la giusta impressione. «E proprio per questo non voglio sprecare il mio tempo qui al Fairmont.»

  Clément spegne la sigaretta e rimane in silenzio, il che mi inquieta un po’. Finora è andata meglio di quanto mi aspettassi, perché non ha ancora detto di no, né mi ha riso in faccia. Ma mi ha preso sul serio oppure no?

 

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