Blackout
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Claudia scuote la testa, ridacchia da sola. «Se perfino un McDrive mi ricorda Bea» pensa, «oddio, se perfino un McDrive mi ricorda Bea, vuol proprio dire che Bea mi manca da morire. »
L’autobus si aggira tra viuzze con i nomi dei vecchi presidenti della Repubblica, svolta davanti a un piccolo centro commerciale chiuso, poi svolta di nuovo in vista di un cantiere, là dove la città espande i suoi confini annettendo la campagna, a macchia d’inchiostro. Si allarga per evitare un Transit blu con due ruote sul marciapiede e due in strada, si ferma al capolinea, proprio davanti a casa di Claudia.
Casa finalmente, pensa, stanca, nervosa, accaldata. Per poco non saluta d’istinto l’autista, che dei quattro esseri umani incontrati nelle ultime ore, tra il Porco, il pazzo col carrello e l’uomo dei finestrini, è stato l’unico a non averla trattata male.
Casa, per Claudia, è un mostro bianco di venti piani dalle linee curiosamente arrotondate. Che sorge di fronte a un identico mostro bianco arrotondato, dalla parte opposta del piccolo centro commerciale. Le torri gemelle, le chiamavano un tempo gli abitanti della zona. Dopo quella storia degli aerei contro quelle altre torri gemelle avevano smesso, che attirarsi delle sfighe gratuitamente, insomma, non pareva proprio il caso.
Cerca le chiavi nello zainetto peruviano, ma non ce n’è bisogno. C’è un ragazzo sui sedici anni che è entrato subito prima di lei, si è richiuso il portone alle spalle, poi l’ha vista arrivare, è tornato indietro, ha aperto il portone per farla entrare e lo ha anche tenuto spalancato per lei, da vero cavaliere. Lei lo ringrazia con un sorriso, che su cinque esseri umani incontrati in un giorno, uno gentile, uno neutro, la media quantomeno si sta alzando.
Si sono incrociati qualche volta nell’atrio del palazzo, Claudia e il ragazzo con la maglietta di Bruce Springsteen. Lei lo ha sempre salutato con un ciao bisbigliato, e a quel ciao bisbigliato lui rispondeva con un doloroso buongiorno. La faceva sentire vecchia, quel buongiorno.
Poi, pochi giorni dopo essersi tinta i capelli di verde, Claudia l’aveva incrociato di nuovo sulle scale. Aveva sussurrato il solito ciao, e lui aveva risposto con un ciao analogo. Forse erano i capelli alla Bart Simpson che la facevano sembrare una ragazzina, insomma, mica si sentiva vecchia, Claudia, a ventiquattro anni. Però, non sentirsi salutare col buongiorno da un sedicenne, ecco, le faceva piacere.
Claudia e il ragazzo si fermano davanti all’ascensore funzionante, che quello di destra ha in bella vista il cartello Fuori servizio. «Fino a due giorni fa ci sono stati dei lavori di manutenzione all’ascensore di sinistra, si sono dati il cambio» pensa Claudia. «Se ne riparlerà dopo ferragosto, per averli entrambi in efficienza. Vabbè.»
Il ragazzo preme il pulsante. Attendono senza dirsi una parola.
Claudia non ama stare in ascensore con gli estranei, ma l’idea di farsi diciannove piani a piedi nel caldo devastante di inizio agosto, dio, ansima solo a pensarci. Qualche secondo di forzata convivenza, tutto sommato, non ha ucciso mai nessuno.
Poi il portone si apre di nuovo alle loro spalle. Nell’atrio compare uno dei tanti abitanti mai visti di quella mostruosità edilizia ai confini della città.
Claudia soffoca un sorrisetto. Il nuovo arrivato sembra Elvis Presley, gli enormi basettoni che gli coprono mezza faccia, gli stivali di serpente, la camicia con gli intarsi country, due enormi chiazze di sudore sotto le ascelle. «Un’aberrazione statistica», pensa. «Non c’è nessuno a Bologna, proprio nessuno, e nell’atrio di questo palazzo alle colonne d’Ercole del mondo abitato, siamo in tre ad aspettare l’ascensore.»
Il sosia di Elvis smozzica un seccato «Buongiorno». Attende la discesa della cabina con Claudia e il ragazzino dal piercing nel sopracciglio.
Quando le porte di metallo si aprono, il sedicenne lascia passare Claudia per prima.
Il ragazzo entra per secondo. Il sosia di Elvis per ultimo.
Le porte si chiudono. L’ascensore comincia a salire.
TOMAS
Tomas sfreccia come un lento fulmine fuori dalla cerchia delle mura, in sella alla sua mitica vespa arancione chiaro. Arranca ferraglioso tra le rotonde e gli stradoni della periferia, sotto i palazzoni a cubo, sul ponte sopra il fiume Reno, verso casa.
«La mia vita sta per cambiare», pensa. Sta per cambiare in un modo talmente incredibile che Tomas deve sforzarsi di tener calmo il cuore, il cuore che pompa come un martello sotto la maglietta di Bruce Springsteen.
In tasca, ha un biglietto ferroviario per Amsterdam.
L’ha pagato vendendo vecchi dischi, vecchi fumetti, frugando sul fondo dei cassetti dei suoi genitori. Soprattutto, frugando sul fondo dei cassetti.
«È incredibile» pensa Tomas superando un autobus che arranca semivuoto, «oggi sono in una pietraia deserta che ha le sembianze di Bologna, domattina sarò con Francesca tra i canali di Amsterdam, destinazione scontata, va bene, ma il dove non importa, basta sia lontano da qua e con Francesca, nient’altro conta.» Gli si annacqua la vista all’idea di tenere per mano Francesca tra i canali di Amsterdam, gli si forma un sorrisone automatico sul viso, un piacevole torpore sulla nuca e sotto la lingua e dietro gli occhi, e nella sua mente accarezzata dall’idea lei è guance arrossate e cattolici tremori, mentre lui è una canzone chiamata Thunder Road.
Che già da qualche mese, se gli chiedono chi è il suo cantante preferito, Tomas non risponde più Ligabue ma Bruce Springsteen. Anche se di Bruce Springsteen possiede un solo disco. E di quel disco ascolta sempre e soltanto due canzoni su otto, sempre e solo quelle due, quelle che lo fanno pensare a Francesca, ad Amsterdam, al biglietto del treno che ha in tasca.
È stato il cugino grande, a fargli conoscere quel disco e quelle due canzoni.
Il cugino grande che vive immerso in un’ordinatissima collezione di cd e vinili, e agli entusiasmi sedicenni di Tomas replica sempre con un sorrisetto superiore, uno sguardo annoiato, un rimando al rock del passato.
«I Placebo hanno spaccato le chitarre sul palco!» si entusiasmava Tomas, e il cugino, con sorrisetto superiore e sguardo annoiato: «Anche gli Who, quarant’anni fa».
Tomas non si arrendeva: «Marylin Manson ha annunciato che si ucciderà sul palco!» E il cugino: «Anche David Bowie, quand’era Ziggy Stardust».
E poi Tomas gli aveva fatto ascoltare un pezzo vecchio di Ligabue, uno che gli piaceva da morire, e il testo di quel pezzo parlava di un ragazzo e una ragazza che scappano dal posto in cui sono nati per non diventare come i loro genitori e i loro amici, lei chiede: «verso che cosa andiamo?» e lui risponde «questo non si sa, però sappiamo bene cosa non c’era qua». A Tomas, quella canzone, piaceva da morire.
Il cugino l’aveva ascoltata, aveva commentato «non male, bel testo, ma senti da chi ha preso ispirazione».
E aveva sfilato dallo scaffale un vecchio vinile di Bruce Springsteen, l’aveva messo sul piatto, gli aveva sbattuto davanti agli occhi la busta con i testi di Thunder Road e Born to Run.
La botta, per Tomas, era stata violenta e irresistibile.
La frase finale di Thunder Road, quella storica frase finale, era stata una delle prime citazioni che aveva scritto in calce a una mail a Francesca.
Francesca era ormai talmente tanto parte di lui, presente e naturale come il respirare, che era incredibile ripensare al tempo in cui non la conosceva. E, più brevemente, al tempo in cui erano stati solo due pseudonimi su uno schermo.
Era stato all’inizio dell’inverno, quando Tomas si era messo a frequentare un sito non ufficiale dei Pearl Jam. Non uno dei migliori, in realtà, un sito emotivo e scalcinato, affollato di innamorate di Eddie Vedder che dibattevano sul look con barba, senza barba, con la cresta punk, o di metallari minorenni che rimpiangevano le durezze dei dischi degli anni Novanta e accusavano la band di flaccida mollezza sopraggiunta. Tomas si divertiva a fomentare la rissa, a postare messaggi saccenti con lo pseudonimo di Leatherman, ad accendere le discussioni, ad attirarsi le invettive delle innamorate di Eddie Vedder e dei metallari minorenni, a litigare con tutti per i più stupidi motivi. Quando le discussioni languivano inventava altri pseudonimi con cui attaccare Leatherm
an, trovandosi a volte a litigare con se stesso. Si divertiva molto, Tomas, a creare disordine in quel sito emotivo e scalcinato di ragazze innamorate e metallari minorenni.
Poi, tra tanti interventi, aveva letto quello di Bee Girl. Quello intitolato Non riesco a credere che le ombre alla fine siano svanite.
Gli era saltato all’occhio come un rivolo di sangue su una foto in bianco e nero, quel commento bellissimo al testo di Rearviewmirror, quelle riflessioni sugli incubi lasciati alle spalle, sul vedere i mostri sparire nello specchietto e non riuscire quasi a credere di essere liberi, sul non avere più paura.
«Cazzo» aveva detto Tomas ad alta voce, davanti allo schermo.
Aveva subito scritto una risposta a quel messaggio, una risposta serissima e ammirata, con un’ombra appena di inevitabile sarcasmo. Stava per inviarlo al sito, in pasto a tutti, ragazzine innamorate e metallari minorenni, poi aveva esitato. Aveva cliccato sulla bustina sotto il nome di Bee Girl, e le aveva spedito la risposta in privato.
Poi aveva atteso.
Aveva dovuto aspettare fino a sera. Quando Bee Girl gli aveva risposto. «Ah, proprio te volevo, il famoso Leatherman si degna di scendere tra noi comuni mortali, come mai non indossi la tua consueta veste da sarcastico sputasentenze, signorino? »
Tomas aveva tamburellato sul tavolino accanto alla tastiera.
La Ragazza Ape vuole la guerra, si era detto. Aveva risposto con una delle sue sferzate strappapelle, pentito dell’eccessiva seriosità del suo primo messaggio.
Erano andati avanti una settimana a beccarsi via posta elettronica, Leatherman e Bee Girl. Poi, le cose si erano evolute come in una commedia di Meg Ryan.
Avevano iniziato a non poter più fare a meno l’uno dell’altra già alla seconda settimana di messaggi. Si erano svelati come Tomas da Bologna e Francesca da Parma all’inizio della terza, ormai in una dipendenza comunicativa totale e assoluta.
Tomas si era sorpreso ad attendere i messaggi di Francesca con un’intensità e un’ansia da star male. Il momento più bello della giornata era quello in cui scaricava la posta e c’era un messaggio della ragazza di Parma. Il più brutto, quando scaricava la posta e non c’era niente.
Avevano deciso di non mandarsi foto, anche se non vedevano l’ora di vedersi in faccia, in realtà. Le foto appiattiscono, si erano detti, niente foto, niente. Un paio di volte Tomas era stato sul punto di proporle un incontro a Parma. Cosı̀. Per conoscersi. Non lo aveva mai fatto.
Scoprirsi cosı̀, di punto in bianco, poteva spaventarla. Allontanarla, farla irrigidire. E lui non voleva spaventarla, allontanarla, o farla irrigidire. Non lo voleva assolutamente.
Ci voleva un pretesto, un pretesto fintamente casuale e innocente. E il pretesto finto casuale e innocente era arrivato.
I Red Mosquito, una cover band dei Pearl Jam molto stimata in quel sito scalcinato ed emotivo, i Red Mosquito suonavano in un pub di Parma.
Ed eccolo, il pretesto casuale e fintamente innocente.
«Ci vieni a vedere i Red Mosquito?» aveva domandato Francesca, lui aveva risposto «Ci vengo sı̀, cosı̀ vedo che faccia hai.» E poi, dopo un breve indugiare sulla tastiera: «Come ti riconosco, hai una maglietta dei Pearl Jam?»
Lei aveva risposto: «Avranno tutti la maglietta dei Pearl Jam, scemo» con una faccina sorridente accanto a quello scemo che si capisse che la presa in giro era affettuosa. «Metto la maglietta del mio film preferito, Matrix» aveva concluso, «cosı̀ lo vedo anch’io, che faccia hai.»
Tomas era arrivato a Parma in treno, emozionato come mai era stato prima.
Quand’era entrato nel pub, l’aveva riconosciuta subito.
Senza averla mai vista.
Senza ombra di dubbio.
Come se non ci fosse stato nessun altro, in quel pub pieno di fans dei Pearl Jam ammassati sotto il palco dei Red Mosquito.
Lei era dietro al bancone del bar, la maglietta di Matrix semicoperta, ma a Tomas non era servita nessuna maglietta identificativa. Le era andato incontro dicendo con voce un po’ tremante: «Ciao Bee Girl».
Da quel momento, Tomas aveva creduto nella reincarnazione.
Vedere Francesca dietro il bancone era stato come scorgere il viso di una vecchia conoscenza. Come quando aveva ritrovato Lisa Limone in una discoteca della domenica pomeriggio, il suo vecchio amore delle elementari, seduta su un divanetto. Le era andato incontro, aveva notato con piacere che si era fatta ancor più carina in quei cinque anni dalla fine della scuola, le aveva detto con naturalezza: «Ehi, ciao, dove sei stata per tutto questo tempo?»
Con la stessa naturalezza con cui aveva detto ciao Bee Girl a una ragazza mai vista in vita sua.
In quella vita, quantomeno.
Francesca aveva un viso leggermente asimmetrico, gli occhi appena strabici, cosa che Tomas trovava irresistibilmente affascinante. Lui odiava la noiosa perfezione.
Avevano ignorato i Red Mosquito, avevano parlato e parlato, senza interruzione. Alla fine erano usciti, stanchi di urlare più forte del cantante della band, si erano seduti su una panchina, incuranti del freddo, si erano scambiati confidenze sulle rispettive famiglie. Come chi si conosce da anni e anni e non da pochi minuti, col vapore che si condensava al suono delle loro parole.
Molti anni prima, il padre di Francesca era stato un comico famoso. Era ospite fisso di Fastfùd, un programma che tutti, ma proprio tutti guardavano a metà anni Ottanta.
Aveva debuttato proponendo qualche caratterizzazione di discreto successo, il camionista narcolettico, il vigile urbano cleptomane, ma era esploso solo a metà della prima stagione di Fastfùd. Quando era apparso in video con una calzamaglia arancione e viola, le mutande indossate sopra, presentandosi come il difensore dei deboli, il protettore delle vecchiette, l’unico, il solo Giampi Supermaxieroe. Il supereroe pasticcione, parodia di un telefilm degli anni Ottanta. Con tanto di supermaxicane, supermaximobile e supermaxicottero.
Tomas aveva chiesto informazioni su Giampi Supermaxieroe al cugino grande, e quello aveva urlato: «Giampi Supermaxieroe! » con gli occhi nostalgici del bambino. Aveva recitato in automatico il tormentone più celebre, quello del supereroe che correva a salvare una vecchietta urlando: «Presto, alla supermaximobile!» ma scopriva che la supermaximobile era stata rimossa per divieto di sosta e, senza perdersi d’animo, proclamava: «La giustizia non si ferma per cosı̀ poco, supermaxitaxiii!» Aveva ripetuto tutta la gag parola per parola, in un riflesso naturale, suo cugino grande.
Gli adolescenti, il pubblico naturale di Fastfùd, Giampi Supermaxieroe lo adoravano. Sugli autobus, nei corridoi delle scuole, nelle sale giochi, riecheggiavano in continuazione i tormentoni del supermaxicane, del supermaxicottero, del supermaxitaxi. Era stato cosı̀ per tutti i tre anni di Fastfùd.
Poi, dopo un lento ma implacabile calo degli ascolti, il programma aveva chiuso.
Per un po’ il padre di Francesca aveva vissuto di rendita. Aveva riciclato Giampi Supermaxieroe nelle trasmissioni per famiglie della domenica pomeriggio, aveva provato a rilanciare il camionista narcolettico, il vigile urbano cleptomane, qualche nuovo personaggio.
Ma poi, poco a poco, le comparsate in TV si erano diradate. Le serate nei locali, i suoi spettacolini in costume viola e arancione basati sulle battute di Fastfùd, ridotte a zero.
Il supermaxieroe aveva cominciato a diventare nervoso e insofferente, a lamentarsi. «Come faccio a scrivere dei testi divertenti con la bambina sempre intorno» urlava in faccia alla moglie, «io sono qua che cerco di scrivere cose che facciano ridere, cazzo, come faccio a scrivere cose che facciano ridere con la bambina sempre in mezzo ai coglioni, papà di qua e papà di là, cazzo, lo vuoi capire che io devo lavorare, che un altro anno di magra come questo e la mia carriera è rovinata per sempre e sono cazzi acidissimi per me, per te, per la bambina, per la nostra bella casa, cazzo, me la vuoi portare fuori dalle palle, la bambina, me la vuoi portare fuori dalle palle, per favore, PER FAVORE, CAZZO?»
E poi c’erano stati il bere, il bere e il poker. Spesso, drammaticamente, le due cose insieme.
Fino a quella volta terribile, la fine di tutt
o. Al pokerino con quei tre noti comici, quelli abbonati ai film natalizi da risata grassa e senza pretese. Amici ancor prima che colleghi, li definiva il supermaxieroe.
Era tornato a casa nel cuore della notte, bianco in faccia, ubriaco. Piagnucolando «Tutto, tutto, ho perso tutto».
E i tre volti noti del cinema natalizio, a quel punto, si erano trasformati in riscossori da criminalità organizzata. Avevano iniziato a pressare il supermaxieroe, a pretendere i loro soldi, a tempestarlo di chiamate minacciose. Lui si era appellato all’antica amicizia, al momento difficile, aveva cercato di far accettare una dilazione, un pagamento a rate, ma quelli volevano i soldi, subito, tutti.
Francesca e la sua famiglia avevano dovuto trasferirsi in un condominio nel quartiere più popolare della città. E avevano dovuto trasferirsi, semplicemente, perché la loro bella casa se l’erano spartita i tre attori in parti uguali.
Francesca aveva visto un film in cassetta, una sera, in una festicciola di compleanno alla fine delle medie. I suoi compagni di scuola avevano riso a crepapelle su quel film campione d’incassi, di fronte al campionario di doppi sensi, cadute, smorfie, tormentoni dei tre noti attori.
Lei li aveva guardati, quei tre, aveva ricordato certe telefonate senza pietà, certe frasi ringhiate, «Ti facciamo spezzare i pollici», «Facciamo la festa a tua figlia». Cose cosı̀.
E i suoi amici che ridevano rossi in faccia, piegati in due, con le mani sulla pancia.
Francesca aveva raccontato che come conseguenza di quel trasloco forzato sua madre aveva avuto un esaurimento nervoso. Il primo.