Blackout
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Ferro aveva cercato di convincerlo con le buone e con le cattive a cambiare zona, a spostarsi di qualche centinaio di metri, solo qualche centinaio di metri. Aveva anche assunto dei vigilantes, ma tutto era stato inutile; lo Spacciatore aveva continuato con i suoi traffici e con quel suo atteggiamento arrogante, strafottente, odioso.
«Allora» aveva detto un giorno il Dentista, «se non ci pensa la legge ad aiutarti, ci penso io.»
E lo Spacciatore stava lı̀ davanti a loro, nella baracca, incatenato e perfettamente lucido. Stava ripetendo: «Non voglio guai, ragazzi, non voglio guai».
Aveva capito di trovarsi in una situazione senza uscita, sı̀, ma non aveva capito quanto senza uscita. Le pozioni magiche del Dentista stavano facendo il loro effetto, lo Spacciatore era lucido ma insensibile dal collo in giù. Quel povero idiota credeva ancora di poter trattare, di potersela in qualche modo cavare. Aveva promesso di spostarsi, di non dar più fastidio a nessuno, anzi, aveva aggiunto, avrebbe potuto lavorare per loro, tener pulita la loro zona. Grazie a lui, diceva, nessuno avrebbe più spacciato davanti al Graceland.
Ferro ascoltava la sua voce incredulo, gli occhi sbarrati e lo stomaco aggrovigliato. «Ma non si rende conto?» si ripeteva sconvolto. «Non si è accorto di niente? Possibile?»
In quelle situazioni, il Dentista si divertiva un mondo. Sogghignando, aveva detto: «Allora sei disposto a trattare, non sei più tanto arrogante, eh? Potremmo quasi pensare a lasciarti libero... Che ne dici, socio?»
Ferro aveva annuito meccanicamente, intanto che lo Spacciatore ripeteva: «Sı̀, sı̀, non voglio guai, ragazzi, lasciatemi andare, metterò una buona parola per voi, lo giuro sul mio onore» e poi parlava, parlava, continuava a parlare, e Ferro non riusciva a distogliere lo sguardo dal secchio sul pavimento di legno, accanto alla sedia.
Il secchio che conteneva le braccia dello Spacciatore.
I suoi piedi, segati fino alle caviglie.
E buona parte dei suoi intestini.
Lo Spacciatore, insensibile dal collo in giù, ripeteva lucidissimo «Non voglio guai, ragazzi, non voglio guai».
«Vuoi uscire di qui» aveva concluso trionfalmente il Dentista. «Va bene, se ne può parlare, siamo persone ragionevoli.» Un’ombra surreale di speranza si era dipinta sul viso dello Spacciatore.
«Però» aveva continuato il Dentista, «prima di uscire di qua dovresti renderti quantomeno presentabile.»
Poi si era rivolto a Ferro, aveva detto: «Portagli lo specchio ». E aveva aggiunto: «Quello grande».
Ferro aveva portato lo specchio, quello grande, proprio davanti alla sedia dello Spacciatore.
Molti anni dopo, Ferro assapora di nuovo il sapore del metallo sotto la lingua.
Sente la maschera rossa premere sotto la sua faccia, premere per uscire.
Rivive la botta di adrenalina.
Gli occhi dello Spacciatore.
Quando aveva visto la sua immagine riflessa.
«Rivivere la botta di adrenalina» dice la Maschera Rossa.
«Presto.»
«Molto presto.»
OTTAVA ORA
00:10
La paura degli spazi chiusi.
La paura degli sconosciuti.
La paura di non respirare.
E poi, in conclusione, l’ultima paura.
Il buio.
Dieci minuti dopo la mezzanotte, i fili tirati fino all’anima inevitabilmente si spezzano. Con uno schiocco violento e fragoroso.
«Non ce la faccio» urla isterica Claudia, schizzando in piedi all’improvviso. «Non ce la faccio. Non ce la faccio. Non c’è aria. Soffoco. Soffoco.»
Barcolla. Guarda Tomas gettato di lato, un relitto che gioca con le chiavi di casa in un angolo della cabina. «Dammi una mano» lo implora, con gli occhi da pazza. «Apriamo le porte. Apriamo le porte. Non ho più forza, da sola non riesco. Non è umana, una cosa cosı̀. Non è sopportabile, una cosa cosı̀.»
(La bambina graffiava i mattoni in ginocchio, grattava con le sue piccole unghie.)
(Io non ho paura di niente, ma questo è un po’ troppo.)
Tomas si alza, muto. L’aiuta ad aprire le porte, sempre senza dire una parola. Poi torna a sedersi.
Ferro li segue dal fondo della cabina. Li guarda con i suoi occhi gialli, acquosi. Sta ruminando in un modo strano, contorce il labbro inferiore in maniera disgustosa, come per trarre acqua e nutrimento dalle proprie ghiandole salivari.
Claudia si siede tra le porte, sul binario di scorrimento. Fa forza all’indietro con la schiena e in avanti con le ginocchia, sporge la testa otto centimetri fuori dalla cabina, respira l’aria da cripta che stagna nel vano, quel poco d’aria che significa la differenza tra spegnersi e rimanere vivi. Vale la pena di sopportare la prepotenza dell’acciaio sulle ossa, l’acciaio sulla carne, ne vale la pena, per respirare quel poco d’aria morta e fiacca.
Ferro non dice niente, non fa niente. La osserva soltanto, la osserva mentre si divincola tra le porte, gli occhi gialli nella luce verde.
Poi smette di ruminare e apre la bocca. La sua voce rimbomba in tutta la cabina come quella di un demente.
«Sei brava a renderti utile» articola a fatica, muovendo la lingua come una vecchissima macchina da cucire. «Sei proprio brava a renderti utile. Secondo me, potresti renderti ancora più utile.»
«Ascolti» ruggisce Claudia, rianimata dall’aria nuova. «Se sta per dire qualche stupidaggine sconfortante. Se deve sprecare fiato e consumare ossigeno. Ci faccia un favore. Lasci perdere.»
Ferro ridacchia catarroso, tossisce due volte. «Ma come parli bene, come sei brava, stupidaggine sconfortante, consumare ossigeno, ma come sei forbita, come parli bene, no, davvero, sai come potresti renderti utile, secondo me?» Tossisce di nuovo. «Potresti muovere quella manina delicata su e giù sul miserabile pisellino del ragazzo col piercing, su e giù, presente? E contemporaneamente, potresti posare quella forbita boccuccia rosa proprio qua in mezzo alle mie gambe. Facendo attenzione a non piantare un ginocchio sulla mia povera caviglia, se possibile. Che ne dici, signorina? Interessa la proposta?»
Tomas non dà segno di aver sentito. Continua a giocare assente con le sue chiavi. Claudia fissa negli occhi Ferro con tutto il disprezzo di cui è capace, lucida e ricaricata da quel poco d’aria nei polmoni. «Senti» sibila, superando le ultime, inutili barriere formali, «proprio questo intendevo, quando parlavo di non sprecare il fiato. Se devi dire delle stronzate del genere, imbecille, su e giù di mano vacci da solo che magari ti calmi. E vedi di spruzzare contro la parete, per favore.» Poi torna a girarsi.
Ferro sghignazza come un cattivo da film di serie B. Si gratta il mento ruvido. «Oh, brava, brava signorina» cantilena «brava, brava signorina, perché non ti sciacqui la bocca col sapone, brava signorina? Perché non ti sciacqui la bocca col sapone e poi sputi tutto quanto, brava signorina? Eh? Perché?»
Claudia lo guarda allarmata.
Sta perdendo la testa. Sta completamente perdendo la testa.
Poi Ferro si alza in piedi, il peso del corpo tutto sul piede sinistro. Si slaccia i pantaloni.
«Che cazzo sta facendo?» trasale Claudia. «Che cazzo vuole fare?»
Ferro vede la sua espressione allarmata, ridacchia.
«Rilassati, signorina. Sto urinando. Sto vuotando la canna. Sto pisciando. A volte mi capita. Rilassati.»
E scarica un getto violento di urina contro il pannello d’acciaio, che s’infrange sul metallo con un suono simile al temporale che batte alla finestra.
Ah, perfetto, già non si respirava per l’odore tremendo. Anche questa ci mancava, ma bene, stupendo.
Cerca di nuovo conforto in Tomas, ma Tomas è ipnotizzato dalla danza delle chiavi tra le dita. Cerca gli occhi di Tomas e invece trova quelli di Ferro, che si è riallacciato i pantaloni.
E si è voltato verso di lei.
«Stai guardando?» ringhia a voce bassa.
«No che non stavo guardando.»
«Stavi guardando. Ti piaceva.»
«No che non...»
Prima che Claudia completi la frase, le luci si spengo
no.
«Il buio!» urla la bambina che graffiava i mattoni. «Il buio! Si sono spente le luci! Ho paura! Io non ho paura di niente, ma questo è un po’ troppo!»
Poi Claudia riacquista il controllo, gli occhi che cercano di abituarsi al buio.
Calma! Le luci si sono spente anche quando si è fermato l’ascensore. Forse stiamo per ripartire. Sì! Forse le luci si sono spente perché stiamo per ripartire!
E allora togliti dalle porte, ragazza! Se stiamo per ripartire, si chiuderanno come una tenaglia!
Togliti da qui, prima che quei cosi d’acciaio ti stritolino come una noce!
Claudia sta per sfilarsi dai pannelli scorrevoli e rotolare a lato.
Ma prima che possa farlo, si trova addosso ottanta chili di carne sudata.
Quando le luci si sono spente, nella mente di Aldo Ferro è scattato un interruttore. E l’ultima membrana tra lui e la Maschera Rossa, semplicemente, si è sciolta come zucchero.
Ha fatto un passo avanti nel buio, puntellandosi sul piede buono.
E si è gettato alla cieca sulla ragazza dai capelli verdi.
«Tomas!» urla Claudia, quando Ferro la schiaccia con tutto il peso del suo corpo. «Tomas! Aiuto!»
Poi le manca il fiato per urlare ancora.
Ha ottanta chili di peso sui polmoni.
Non c’è spazio per scappare.
Non c’è spazio per muovere le braccia.
Non c’è spazio per muovere le gambe.
Le porte ancora premono sulle sue spalle e sulle sue ginocchia.
Dietro la sua testa, un muro di cemento.
Nel buio ci sono mani che si muovono frenetiche. Mani che si difendono. Che toccano. Che bloccano le porte.
«Era inevitabile» urla la bambina tra le sue tempie. «Era inevitabile, inevitabile, inevitabile, inevitabile.»
«Perché hai detto che l’ascensore si era mosso?» sputacchia Ferro, a un centimetro dal suo viso. «Perché, eh, troia schifosa? Perché mi hai illuso? Eh? Perché hai detto che l’ascensore si era mosso? Perché? Perché?»
Ferro non ha più niente del buffo sosia di Elvis che era stato al momento di entrare in ascensore, alle cinque di quel pomeriggio. Nascosta dal buio, la sua faccia non è più nemmeno la sua faccia. È una maschera dal ghigno innaturale, dagli occhi fondi e neri come pozzi per l’inferno.
Claudia respira puzza di sudore, di rancida paura, l’alito di un morto che le sferza il viso. Nelle sue orecchie batte ritmico un convulso ansimare da bue.
Poi, la mano destra di Ferro si insinua come un artiglio sotto l’uniforme da barista.
No!
La mano afferra un lembo di stoffa, la strappa come fosse carta velina.
No!
Poi striscia su, per la coscia sinistra di Claudia.
Le ginocchia di Ferro le allargano brutalmente le gambe.
Non è giusto! Non posso difendermi! Non ho spazio per difendermi! Sono bloccata da ogni lato! Non è giusto! Non è giusto!
Sono impotente. Completamente impotente.
Non ha punti di appoggio.
Non può far forza, non può far presa.
La pressione delle porte e il peso di Ferro stanno schiacciando le sue povere ossa come stuzzicadenti. La sua bava schifosa sta colando sul suo collo.
«Tomas!» rantola, con l’ultimo grammo di fiato. «Aiutami! Aiutami!»
Poi, improvvisamente, è libera.
Da quando ha sentito lo squillo del telefono, Tomas si è ritirato dalla realtà. È diventato un ospite nel suo stesso corpo, col pensiero di Francesca, sola e delusa alla stazione, troppo doloroso da sopportare.
E allora si è fatto mesmerizzare dal movimento lento e ipnotico delle chiavi. Si è rinchiuso come un uovo al centro del suo essere, al riparo dal caldo, dalla sete, dalla sensazione di benzina nei polmoni. Ha lasciato che il suo corpo esistesse, meccanicamente. Quando si sono spente le luci nella cabina, quasi non se n’è accorto.
L’urlo di aiuto di Claudia, solo quello, lo riporta finalmente alla realtà.
Capisce subito cosa sta succedendo, improvvisamente cosciente. Era certo che sarebbe successo, in realtà. Lo sapeva fin da quando era entrato nell’ascensore. Da quando aveva incrociato gli occhi da predatore di Aldo Ferro.
Agisce d’istinto. Si alza in piedi nella cabina nera come inchiostro, segue il fragore della voce di Ferro che urla qualcosa contro Claudia.
Fa un passo nel buio, lui che in vita sua non ha mai neppure fatto a pugni.
Stringe tra le dita la chiave della cantina, quella grossa e pesante.
E colpisce alla cieca, in direzione della voce.
Ferro sta assaporando il suo trionfo.
Sente la stoffa che si strappa come carta. La carne calda della ragazza sotto le sue dita. L’odore della paura nelle narici.
Non fai più tanto la dura, eh, puttana? Non fai più tanto la dura, adesso che stai al posto che ti spetta.
Le allarga le gambe con le ginocchia, senza sforzo. Sta per dimostrare chi comanda, sta per dimostrarglielo, a quella troia.
Poi, improvviso, gli scoppia il mondo in testa.
Qualcosa di inatteso e rapidissimo lo ha colpito, lo ha colpito sull’orecchio sinistro. Lo ha colpito cosı̀ forte che qualcosa destinato a stare fuori ora sembra invece stare dentro . Là dove non dovrebbe stare, mai.
Gorgogliando per il dolore, rotola all’indietro con le mani sull’orecchio. Una burrasca sta infuriando nel suo cranio, urla e soffia come il vento delle scogliere in una conchiglia.
Il ragazzo.
È stato il ragazzo.
Con cosa mi ha colpito?
Mi ha rotto un timpano, quel frocetto del cazzo.
Colpa degli spazi stretti.
Il predatore non è fatto per muoversi negli spazi stretti.
Non importa.
Io lo ammazzo.
Lo squarto come un capretto.
Tomas sente la chiave di ferro colpire qualcosa, forse un osso, forse il cranio, non lo sa. Poi Ferro si proietta all’indietro, sfiorandolo col suo corpo sudato. Gloglottando come un tacchino a mezzo metro da lui.
Tomas rimane immobile.
Cosa faccio adesso?
Lo colpisco di nuovo?
Non lo vedo neppure.
Cosa faccio adesso?
Un suono nell’oscurità, a pochi centimetri di distanza.
Come lo scatto di un coltello a serramanico.
Claudia è sotto shock.
Il buio improvviso, il peso di Ferro su di lei
(voleva violentarmi! mi avrebbe violentata qua, in mezzo alle porte! è pazzo!)
hanno assottigliato qualche barriera nel suo cervello. L’unica cosa che riesce a pensare è: «Le porte, le porte, devo tenere aperte le porte, non posso rientrare nella cabina, devo respirare, solo respirare, devo tenere aperte le porte. No, no, ma quali porte, devo aiutare Tomas, sgusciare via da queste porte del cazzo, dobbiamo attaccarlo in due, aggredirlo, adesso sguscio fuori dalle porte, adesso sguscio fuori dalle porte».
Poi c’è un suono, nell’oscurità.
Quand’è stata l’ultima volta che ha sentito quel suono?
Quando era piccola e andava a pesca con suo padre? Possibile?
Di colpo capisce.
Un coltello, un coltello, un coltello.
Ferro ha un coltello, un coltello, un coltello.
Ferro sferra il primo colpo alla cieca, nel buio, la burrasca che ulula feroce nel suo orecchio. Manca il bersaglio. La lama colpisce l’acciaio della cabina, sollevando scintille in un suono sfrigolante di metallo su metallo.
Ferro digrigna i denti.
Il secondo colpo sarà quello buono.
Tomas sente qualcosa sfiorargli la testa, un sibilo nell’aria. D’istinto lascia cadere le chiavi, protende le braccia in avanti, trova alla cieca i polsi di Ferro. Stringe più che può.
Sente Ferro che grufola e bestemmia a dieci centimetri dalla sua faccia.
Oddio.
Sto lottando con lui.
È molto più forte di me.
È molto più grosso di me.
N
on lo vedo ma è qua, proprio qua, davanti a me.
Ferro potrebbe liberarsi dalla debole stretta di Tomas in mille modi, anche con tutto il peso del corpo spostato su una caviglia sola e l’uragano che soffia nel timpano rotto. Sceglie il suo preferito.
Localizza il respiro del ragazzo nel buio. Tende i muscoli del collo, gli spacca il naso con una testata. Aggiungendo dolore su dolore, per le vibrazioni dell’impatto sul timpano ferito.
Meglio.
Il dolore porta rabbia.
La rabbia porta odio.
E l’odio è il combustibile che brucia, nel cuore oscuro della Maschera Rossa.
Quando sente l’osso che si frantuma al centro del suo viso, Tomas caccia un urlo spaventoso. Le sue dita lasciano la presa sui polsi di Ferro, le sue mani si congiungono a proteggere il naso spezzato.
Barcolla all’indietro, nel buio.
Ora è indifeso.
Un colpo solo, pregusta la Maschera Rossa, un colpo solo alla giugulare, secco, preciso. Da un orecchio all’altro orecchio.
Carica il corpo per colpire, non c’è spazio per muoversi, cazzo, non c’è spazio in quello stupido ascensore. D’istinto, sposta il peso del corpo sul piede destro.
Una fitta di dolore.
Dal piede.
Dal piede destro.
Lancinante. Dolore su dolore.
«Aaaaaargh!» mugola la cosa che era entrata in quell’ascensore come Aldo Ferro. Sferra un fendente alla cieca, sbilanciato.
Troppo vicino, comunque, per mancare il bersaglio.
Tomas urla nel buio.