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Blackout

Page 18

by Gianluca Morozzi


  Dopo le solite due telefonate di Colui che tutto può, la rete aveva offerto un supporto logistico e tecnico totale. La finta squadra di manutenzione aveva installato nell’ascensore le microcamere nascoste, i comandi a distanza, l’allarme disinserito, il dispositivo schermante per neutralizzare i cellulari. Più certe trovate per vivacizzare il gioco, come le porte modificate.

  Quando tutto era stato pronto, la palla era passata nelle mani di Walter e Wilmo.

  Avevano appeso il cartello Fuori servizio davanti al secondo ascensore, per convogliare gli inconsapevoli concorrenti nella location predisposta. Poi si erano accampati nella cabina di regia approntata dentro il Transit.

  E avevano aspettato che due persone entrassero insieme in ascensore. Due persone di sesso opposto, magari. Che qualche svolta piccante sarebbe stata di sicuro molto apprezzata, in chiave audience.

  Avevano scelto la domenica di ferragosto per avere il minor movimento possibile nel palazzo e poter lavorare con tranquillità. Anche se, ovviamente, ad aspettare due persone in un deserto, si rischiava che le due persone non arrivassero mai. Nelle prime ore del pomeriggio, le telecamere dell’atrio avevano inquadrato solo una vecchia che usciva dal garage asciugandosi il sudore con un fazzoletto, saliva in ascensore da sola e scompariva. Nessun altro.

  C’era il rischio che le cose andassero parecchio per le lunghe. Nel caso, comunque, Wilmo e Walter erano disposti a vivere accampati nel Transit.

  Ci fosse stato bisogno di una settimana o di un mese, non si sarebbero fatti sfuggire quell’ultima opportunità. Avrebbero fatto qualunque cosa.

  Poi, verso le cinque del pomeriggio, la telecamera dell’atrio aveva inquadrato il ragazzo col piercing.

  Che apriva il portone alla ragazza dai capelli verdi.

  Per la prima volta in vita sua, Wilmo si era sorpreso a pregare. Con dita incrociate e denti stretti aveva implorato: «Dai, dai, entrate in ascensore insieme, non siate timidi. È troppo caldo per fare le scale, entrate in ascensore insieme, non siate timidi, dai, cazzo, DAI».

  Quand’era spuntato il terzo uomo, be’, Wilmo non aveva potuto credere ai suoi occhi. Un incredibile scherzo del caso. Un colpo di fortuna meritato, finalmente, dopo il disastro di Constatazione amichevole.

  Nel vederli entrare in ascensore tutti e tre, Wilmo e Walter si erano abbracciati urlando per la gioia.

  L’idea era di portare avanti il gioco per qualche ora, girare il tutto, montare il materiale, e ricavarne una decina di puntate. Sperando che nel frattempo capitasse qualcosa in quell’ascensore, qualcosa d’interessante, di sorprendente. Servivano dei numeri inattaccabili, per quel programma. Inattaccabili.

  Se qualche abitante del palazzo faceva per rientrare a casa, Wilmo usciva di corsa dal Transit e lo intercettava sul portone. Si presentava come autore televisivo, lo pregava di non usare l’ascensore perché - qui calcava sui toni, indicando la cabina di regia - nel palazzo si stava girando una candid camera. Poi regalava a quegli anonimi vicini di casa il quarto d’ora di celebrità, intervistandoli. Conoscevano la ragazza dai capelli verdi? O il ragazzino col piercing? O il sosia di Elvis dalle enormi basette?

  Che quei tre ancora non lo sapevano, ma stavano per diventare i divi di un nuovo reality show dal titolo provvisorio di Blackout.

  Per tutto il tempo, Wilmo aveva giocato con i suoi inconsapevoli protagonisti. Usando le porte modificate, le luci spente a distanza, i piccoli, illusori movimenti dell’ascensore. Proprio come faceva da bambino, quando chiudeva le lucertole nel vasetto della maionese e poi si divertiva a metterlo nel congelatore, a lanciarlo in aria, ad appoggiarlo sulla lavatrice, sperando che le lucertole impazzissero per il rumore e le vibrazioni.

  Una volta girato materiale a sufficienza, Wilmo e Walter avrebbero liberato le tre lucertole prigioniere e placato una probabile reazione isterica con il sostanziosissimo assegno offerto dalla rete. Oltre, chiaramente, alla possibilità di diventare volti noti della TV.

  Ma quei piani accuratamente cesellati si erano liquefatti come un ghiacchiolo nel sole, poco dopo mezzanotte.

  Sull’orrendo crac! di un cranio che si spaccava in mezzo alle porte d’acciaio.

  Quando Ferro era morto in mezzo alle porte, Walter era impazzito. «Fermiamo tutto!» aveva iniziato a urlare. «Fermiamo tutto! Tiriamoli fuori! Tiriamoli fuori da lı̀!»

  Aspetta, l’aveva fermato Wilmo, incapace di staccare gli occhi dai monitor. Stava guardando una scena orribile, un uomo con la testa tra le porte, un ragazzo ferito e sanguinante, qualcosa di orrendo.

  Ma stava anche vedendo i numeri di un’audience stellare.

  Numeri inattaccabili.

  Il successo.

  Cosı̀ aveva placato Walter.

  E il gioco era andato avanti.

  «In galera, finiamo» ripete Walter con gli occhi acquosi, tormentandosi le mani. «Io l’avevo detto, finiamola qua, l’avevo detto, tiriamoli fuori, è stato un incidente, non è colpa nostra, non potevamo saperlo, non potevamo immaginare che quello avesse un coltello. Potevamo cavarcela, a finirla subito. Potevamo uscirne in qualche modo, prima.»

  Wilmo non lo ascolta, non lo ha mai fatto. Sta guardando la brace della sigaretta. Pensando al modo per uscire trionfalmente da quella situazione.

  Al bluff estremo. L’ultima mano.

  «Ragioniamo» dice con voce grave, parlando a se stesso più che al suo teorico socio. «Perché quello teneva in tasca un coltello? Perché si comportava come un maniaco omicida, verso la fine? È possibile che ci sia qualche retroscena potenzialmente interessante?»

  «Non lo so, Wilmo, non lo so, non me ne frega niente se quello era un tipo normale o se inculava i gattini, non m’interessa. Noi l’abbiamo guardato morire senza far niente, abbiamo lasciato che il ragazzo sanguinasse per ore e non abbiamo fatto niente, oddio, Wilmo, stavolta non ne usciamo, non ne usciamo, stavolta.»

  Wilmo spegne la sigaretta, si alza in piedi. Fissa negli occhi Walter.

  «Sı̀ che ne usciamo» dice. «Ascolta. Ascoltami bene.»

  Walter si passa le mani tra i capelli. Trema. «Ti ascolto.»

  «Bene. Se noi diciamo la verità. Se confessiamo che ce ne stavamo qui in cabina di regia, con i nostri monitor, a guardare l’imbecille che moriva e il ragazzo che sanguinava. Che abbiamo visto tutto questo, e abbiamo comunque deciso di lasciarli dentro, di continuare a girare. Be’, se confessiamo tutto questo, siamo fregati. Non ne usciamo in nessun modo. Potremmo anche sfangarcela per la morte del tipo col coltello, è successo tutto molto in fretta, non siamo riusciti a intervenire, okay. Ma per il ragazzo, bene che ci vada, è omissione di soccorso. Non ce la caviamo.» Abbassa la voce. «Se diciamo proprio l’esatta verità. Naturalmente.»

  Walter pende dalle sue labbra. Lo guarda speranzoso come un annegato. «Dimmi che hai un piano per uscire da questo casino, Wilmo. Ti prego. Dimmelo. Ti prego.»

  «Certo che ho un piano.» Gli posa una mano sulla spalla, quasi paterno. «Ascoltami bene. Ecco cosa diremo.»

  E parla per un quarto d’ora, mentre l’ombra del palazzo si fa più netta e più scura intorno al Transit.

  ULTIMA ORA

  Finalmente è tutto chiaro, tutto perfettamente chiaro. Non è mai successo niente, è stato un incubo, uno strano e lungo incubo.

  Ripercorre tutto dall’inizio, andando a ritroso e ripartendo da un punto ben preciso.

  Scende dall’autobus.

  Cerca le chiavi.

  Un ragazzo le tiene aperto il portone.

  Lei lo ringrazia con un lieve sorriso.

  Aspettano l’ascensore.

  Arriva un uomo dalle enormi basette.

  Bofonchia un saluto di circostanza.

  L’ascensore arriva.

  Claudia entra per prima, seguita dal ragazzo, poi dall’uomo con le grandi basette.

  L’ascensore sale tranquillamente, come ogni giorno. Ognuno scende al proprio piano, il ragazzo, il sosia di Elvis. Ognuno ritorna alla propria vita, senza più incrociare quella degli altri.

  Claudia apre la porta. Si toglie l’uniforme. Entra nella cabina della doccia.

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p; Lascia scorrere l’acqua. Assapora il contatto sulla pelle. Apre la bocca. Beve. Cerca il sapone. Trova la testa schiacciata di Ferro.

  Grida. Cerca di uscire dalla cabina ma fuori dalla cabina c’è un muro di solida pietra. L’acqua è diventata bollente. Brucia come il fiato di un drago.

  «Devi toglierti l’armatura» suggerisce la testa di Ferro, «devi toglierti l’armatura. Non riuscirai mai a uscire, se non ti togli l’armatura.»

  Claudia obbedisce.

  (il trillo di un cellulare, da un altro mondo)

  Si strappa la pelle corrosa dall’acqua rovente, centimetro dopo centimetro. Quando avrà finito, lo sa, sarà magra abbastanza per strisciare fuori.

  (si sta muovendo verso il basso)

  Quando non è che uno scheletro, sorride e scivola fuori. È accolta da un uragano di applausi, dalla luce dei riflettori, da urla isteriche.

  (si sta fermando)

  Ferro ha il costume di scena di Elvis. Le porge il microfono, dice: «Ti vedo in forma splendida, Claudia, cosa ci vuoi dire di questa esperienza?»

  Le luci dei riflettori sono fortissime, violente.

  (voci oltre la porta)

  Il pubblico urla troppo forte, Ferro chiede sorridendo un po’ di silenzio.

  «Be’» risponde Claudia, stringendo mani di entusiasti ammiratori, «cosa posso dire? Non entrate mai in un tunnel in armatura, e portatevi sempre dietro due, o anche tre bottiglie d’acqua.»

  «Brava e spiritosa la nostra Claudia» trilla Ferro. Pubblicità.

  Claudia s’inchina al pubblico.

  SI ALZA IL SIPARIO

  La porta dell’ascensore si apre. Wilmo si affaccia nella cabina. Sussulta, fa una smorfia nauseata.

  Claudia sorride sulla soglia, sporca di sangue.

  «Devo firmare la liberatoria, vero?» rantola stridula. «Sapete già quando andrò in onda? Voglio avvisare i miei genitori. »

  I suoi denti brillano bianchissimi, accecanti nella luce del mattino.

  SEI MESI DOPO

  Claudia e Tomas sono fianco a fianco al centro dello studio, stretti tra i comici, il mangiatore di spade, i cantanti dei tempi che furono, gli addestratori di vermi, l’intero cast della soap italiana Aspettando un giorno di sole, tutti sotto i riflettori.

  Il programma per famiglie della domenica pomeriggio ha appena ceduto il posto alla fascia pubblicitaria. Colui che tutto può ne approfitta per farsi aggiustare il trucco, un cantante col parrucchino per approcciare una bella attrice della soap.

  Claudia indossa ancora il costume di Lara Croft; ha dovuto prestarsi a un penoso sketch con i comici, solo venti minuti prima. Tomas ha la maglietta con il logo di Blackout, il cappellino di Blackout, la felpa col cappuccio di Blackout. Nel pubblico ci sono venti o trenta adolescenti vestiti esattamente come lui, ragazzine che strillano, che mostrano cartelli col suo nome circondato di cuoricini. Dietro le quinte, Wilmo e Walter stanno mangiando la faccia per qualche motivo al direttore di produzione. Importanti come sono diventati, potrebbero mangiare la faccia anche a Dio e agli arcangeli in persona.

  Il lancio mediatico di Blackout era stato perfetto e dirompente.

  A inizio settembre, al rientro in massa degli italiani dalle ferie, tg e giornali si erano rimpallati l’incredibile notizia: nella notte di ferragosto, due poveri ragazzi erano rimasti chiusi in ascensore con un maniaco omicida. Per un’inopinata coincidenza, una telecamera aveva ripreso tutto l’accaduto. Il filmato integrale era in fase di montaggio, e sarebbe stato presto mandato in onda in quanto documento eccezionale. A puntate, data la lunghezza.

  La carriera del maniaco era stata data in pasto al pubblico nei minimi dettagli.

  I video trovati nell’appartamento al ventesimo piano avevano fatto luce su tutta una serie di misteriose sparizioni, sulle orrende imprese di Aldo Ferro e del suo complice Gianfabio Brandauer, un noto dentista morto qualche tempo prima. Le indagini avevano condotto a una capanna nel bosco, a un relitto senza mente legato a una sedia, a un congelatore pieno di orribili resti. Agli spettatori, ovviamente, nulla era stato risparmiato.

  Il suocero di Ferro aveva reagito indossando l’alta uniforme e impiccandosi per la vergogna. La moglie del maniaco era svanita chissà dove col figlio, per sottrarsi all’assedio dei giornalisti.

  Grazie a quell’astuta campagna mediatica, alle poche e contradditorie notizie fatte trapelare, la prima puntata di Blackout era stata preceduta da un clima di spasmodica attesa. Wilmo e Walter non avevano anticipato nulla di ciò che sarebbe andato in onda, ma erano stati assolutamente prodighi di particolari quando avevano dovuto illustrare la genesi di quel documento crudo ma straordinario.

  Tutto era nato da un’innocua candid camera sul comportamento degli italiani in ascensore, avevano detto, su come si fingono di cercare le chiavi, sulle conversazioni meteorologiche tra un piano e l’altro, un programma con blande pretese sociologiche. L’inizio delle riprese era previsto per settembre, ma le telecamere erano state montate già da ferragosto per approfittare dell’esodo estivo, lavorare con tranquillità.

  Poi, a telecamere montate, c’era stato il blackout.

  Uno scherzo del caso.

  Il caso aveva voluto che l’ascensore si fosse guastato con tre persone a bordo. E lo stesso caso aveva fatto sı̀ che le telecamere, dall’alimentazione indipendente, si fossero attivate automaticamente a causa del cortocircuito. E che avessero ripreso a immagine fissa, del tutto fortuitamente, quello che era accaduto in cabina.

  Al mattino Wilmo e Walter avevano rilevato un inspiegabile consumo di energia. Accorsi a controllare, avevano scoperto l’accaduto e liberato Claudia e Tomas. Sul come la spiegazione era stata abbastanza lacunosa, ma, del resto, le immagini non mostravano Wilmo entrare per primo in cabina? Wilmo che soccorreva Claudia e Tomas?

  In questa ricostruzione, a essere sinceri, si potevano trovare tanti di quei buchi da farci precipitare dentro un’autocisterna. Ma del resto, gli italiani non erano il popolo che aveva reso miliardari i maghi delle TV private? Gli italiani non si erano forse bevuti cinquant’anni di balle colossali, di aerei spontaneamente esplosi in volo, di proiettili deviati da calcinacci magici, cose del genere?

  Se si erano bevuti tutto questo, sempre convinti di essere furbi, furbissimi, i più furbi di tutti, be’, non potevano bersi anche la storiella delle telecamere senzienti? E poi, suvvia, la perizia dei tecnici aveva confermato la ricostruzione di Wilmo e Walter.

  Anche se la perizia, ovviamente, era stata fintissima. Orchestrata, come sempre, dalle canoniche telefonate di Colui che tutto può.

  Ma tutto questo, il popolo italiano non lo sapeva.

  Aveva bevuto tutto, apprezzandone pure il sapore.

  Cosı̀, preparato il terreno e alimentata l’attesa, l’Italia intera si era schierata compatta davanti alla prima puntata di Blackout. Finalmente.

  Il giorno dopo, negli uffici, sull’autobus, a scuola, non si parlava d’altro.

  Tomas, il tenero sedicenne adorato da mamme, nonne e ragazzine!

  Claudia, all’apparenza fragile, ma dura e di ferro come un ninja!

  Ferro, all’apparenza rispettabile ed eccentrico, in realtà un terribile maniaco omicida!

  Cosa sarebbe successo a quei due poveri ragazzi chiusi in ascensore? Per quanto tempo Aldo Ferro sarebbe riuscito a controllare il suo istinto predatorio?

  Tutta la penisola era stata contagiata dalla febbre di Blackout, in un delirio collettivo a ogni livello.

  I rilievi di pochi, isolati scettici - sullo strano funzionamento delle porte, per esempio, o sulla curiosa coincidenza dei tre cellulari fuori uso - erano stati degradati allo stadio di paranoie complottiste, vaneggiamenti snob da intellettuali ansiosi di elevarsi sulla massa.

  Il cliffhanger finale della quinta puntata - Aldo Ferro che accoltellava Tomas e si girava minaccioso verso Claudia, un attimo prima dei titoli di coda! - aveva raggelato una nazione intera.

  Quando Wilmo e Walter avevano avuto in mano i dati di ascolto della sesta puntata, la puntata della morte di Aldo Ferro, non erano riusciti a dire una parola. Si erano guardati con gli o
cchi luccicanti, tremanti, commossi.

  Colui che tutto può, in carne e ossa, si era congratulato col figlio e col suo geniale socio. Portando, teatralmente, una bottiglia di Crystal e tre bicchieri.

  E allora, Wilmo e Walter avevano capito di avercela fatta.

  Mentre il programma ipnotizzava la nazione intera, Tomas e Claudia venivano curati a spese della rete in una clinica privata. Isolati, anonimi e protetti: fino all’ultima puntata di Blackout, nessuno doveva conoscere il destino finale dei due ragazzi nell’ascensore. Era stata fatta un’eccezione solo per Francesca e Bea, che erano state ammesse nella clinica dopo aver firmato una valanga di clausole di riservatezza.

  Francesca era entrata in clinica con un braccio rotto e un occhio nero.

  Una caduta dalle scale.

  Aveva detto.

  La rete aveva ingaggiato uno squadrone di avvocati pronti a difendere Claudia dalle accuse di omicidio, nel caso qualcuno avesse messo in dubbio l’ipotesi di legittima difesa. Poi aveva fatto distruggere i nastri con le interviste ai vicini di casa, e messo a tacere i vicini stessi con qualche altro sostanzioso assegno.

  Subito dopo l’ultima, trionfale puntata di Blackout, l’isolamento era finito. Nella trasmissione per famiglie della domenica pomeriggio, gli eroi dell’ascensore erano stati finalmente esposti al mondo.

  Tomas e Claudia erano apparsi sotto i riflettori in un autentico delirio popolare. Gente impazzita, urla, ragazze con enormi cartelli. Flash dei fotografi, musiche roboanti, i loro nomi urlati all’infinito. Si erano guardati, spaventati, spaesati.

  La rete aveva anche orchestrato un finto incontro in diretta: Tomas e Francesca avevano finto di riabbracciarsi per la prima volta dopo la storia dell’ascensore, mamme e nonne avevano intriso i fazzoletti di lacrime, davanti a quella messa in scena studiata nei minimi dettagli. Colui che tutto può, sornione, aveva sfoderato il suo miglior tono paterno. Aveva imposto le mani sulle spalle di Tomas e Francesca, aveva detto: «Ragazzi, lo so che prima di quella storiaccia brutta dell’ascensore progettavate di sposarvi, ma date retta a me, non abbiate fretta, siete giovani, pensate prima a finire la scuola e poi fate quello che volete, va bene?»

 

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