by Dante
gent’ è avara, invidiosa e superba:
69
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
72
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
75
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
78
fu fatto il nido di malizia tanta.”
“Se fosse tutto pieno il mio dimando,”
rispuos’ io lui, “voi non sareste ancora
81
de l’umana natura posto in bando;
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna →
84
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
87
convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che narrate di mio corso scrivo, →
e serbolo a chiosar con altro testo
90
a donna che saprà, s’a lei arrivo.
Tanto vogl’ io che vi sia manifesto, →
pur che mia coscïenza non mi garra,
93
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota →
96
come le piace, e ’l villan la sua marra.”
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
99
poi disse: “Bene ascolta chi la nota.” →
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
102
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
105
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci →
e litterati grandi e di gran fama,
108
d’un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
111
s’avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
114
dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
117
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio. →
Sieti raccomandato il mio Tesoro, →
120
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.”
Poi si rivolse e parve di coloro →
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
124
quelli che vince, non colui che perde.
INFERNO XVI
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo →
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
3
simile a quel che l’arnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
6
sotto la pioggia de l’aspro martiro.
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
“Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
9
essere alcun di nostra terra prava.”
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
12
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta,”
15
disse, “a costor si vuole esser cortese. →
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
18
che meglio stesse a te che a lor la fretta.”
Ricominciar, come noi restammo, ei →
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
21
fenno una rota di sé tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
24
prima che sien tra lor battuti e punti,
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
27
faceva ai piè continüo vïaggio.
E “Se miseria d’esto loco sollo →
rende in dispetto noi e nostri prieghi,”
30
cominciò l’uno, “e ’l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
33
così sicuro per lo ’nferno freghi.
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
36
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
39
fece col senno assai e con la spada.
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
42
nel mondo sù dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
45
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce.”
S’i’ fossi stato dal foco coperto, →
gittato mi sarei tra lor di sotto,
48
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;
ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
51
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: “Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
54
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
57
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai →
l’ovra di voi e li onorati nomi
60
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
63
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi.”
“Se lungamente l’anima conduca →
le membra tue,” rispuose quelli ancora,
66
“e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
69
o se del tutto se n’è gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
72
assai ne cruccia con le sue parole.”
“La gente nuova e i sùbiti guadagni →
orgoglio e dismisura han generata,
75
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.”
Così gridai con la faccia levata; →
e i tre, che ciò inteser per risposta,
78
guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.
“Se l’altre volte sì poco t
i costa,”
rispuoser tutti, “il satisfare altrui,
81
felice te se sì parli a tua posta!
Però, se campi d’esti luoghi bui →
e torni a riveder le belle stelle,
84
quando ti gioverà dicere ‘I’ fui,’
fa che di noi a la gente favelle.”
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
87
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi →
tosto così com’ e’ fuoro spariti;
90
per ch’al maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti, →
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
93
che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume c’ha proprio cammino →
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
96
da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
99
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
102
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
105
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta, →
e con essa pensai alcuna volta
108
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta, →
sì come ’l duca m’avea comandato,
111
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
114
la gittò giuso in quell’ alto burrato.
“E’ pur convien che novità risponda,” →
dicea fra me medesmo, “al novo cenno
117
che ’l maestro con l’occhio sì seconda.”
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
120
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
123
tosto convien ch’al tuo viso si scovra.”
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna →
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
126
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
129
s’elle non sien di lunga grazia vòte,
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
132
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso →
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
136
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
INFERNO XVII
“Ecco la fiera con la coda aguzza, →
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
3
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!”
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
6
vicino al fin d’i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
9
ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto, →
tanto benigna avea di fuor la pelle,
12
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste →
15
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
18
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi, →
che parte sono in acqua e parte in terra,
21
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
24
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
27
ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: “Or convien che si torca →
la nostra via un poco insino a quella
30
bestia malvagia che colà si corca.”
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
33
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
36
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi ’l maestro “Acciò che tutta piena →
esperïenza d’esto giron porti,”
39
mi disse, “va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
42
che ne conceda i suoi omeri forti.”
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
45
andai, dove sedea la gente mesta. →
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
48
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
51
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
54
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca →
ch’avea certo colore e certo segno,
57
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro →
60
che d’un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa, →
63
mostrando un’oca bianca più che burro.
E un che d’una scrofa azzurra e grossa →
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
66
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco, →
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
69
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
72
gridando: ‘Vegna ’l cavalier sovrano, →
che recherà la tasca con tre becchi!’ ”
Qui distorse la bocca e di fuor trasse →
75
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.
E io, temendo no’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
78
torna’mi in dietro da l’anime lasse.
Tr
ova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
81
e disse a me: “Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale; →
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
84
sì che la coda non possa far male.”
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
87
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
tal divenn’ io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
90
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
93
com’ io credetti: “Fa che tu m’abbracce.”
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
96
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
e disse: “Gerïon, moviti omai: →
le rote larghe, e lo scender sia poco;
99
pensa la nova soma che tu hai.”
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
102
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
105
e con le branche l’aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse →
quando Fetonte abbandonò li freni,
108
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;