The Inferno
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che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
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ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta; →
rota e discende, ma non me n’accorgo
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se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
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per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
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ond’ io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
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che s’appressavan da diversi canti.
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, →
che sanza veder logoro o uccello
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fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
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dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
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si dileguò come da corda cocca.
INFERNO XVIII
Luogo è in inferno detto Malebolge, →
tutto di pietra di color ferrigno,
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come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
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di cui suo loco dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
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e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
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la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
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a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
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infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, de la schiena scossi →
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
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tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pieta, →
novo tormento e novi frustatori,
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di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
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di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’essercito molto, →
l’anno del giubileo, su per lo ponte
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hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
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da l’altra sponda vanno verso ’l monte.
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze, →
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che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
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le seconde aspettava né le terze.
Mentr’ io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
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“Già di veder costui non son digiuno.”
Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
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e assentio ch’alquanto in dietro gissi.
E quel frustato celar si credette
bassando ’l viso; ma poco li valse,
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ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette,
se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico. →
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Ma che ti mena a sì pungenti salse?”
Ed elli a me: “Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
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che mi fa sovvenir del mondo antico.
I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
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come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese; →
anzi n’è questo loco tanto pieno,
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che tante lingue non son ora apprese
a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
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rècati a mente il nostro avaro seno.”
Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: “Via,
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ruffian! qui non son femmine da conio.” →
I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
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là ’v’ uno scoglio de la ripa uscia.
Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
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da quelle cerchie etterne ci partimmo. →
Quando noi fummo là dov’ el vaneggia →
di sotto per dar passo a li sferzati,
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lo duca disse: “Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di quest’ altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
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però che son con noi insieme andati.”
Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
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e che la ferza similmente scaccia.
E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: “Guarda quel grande che vene, →
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e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno →
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li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
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tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
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che prima avea tutte l’altre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
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e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
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sapere e di color che ’n sé assanna.”
Già eravam là ’ve lo stretto calle →
con l’argine secondo s’incrocicchia,
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e fa di quello ad un altr’ arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
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e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
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che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
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de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno s
terco
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che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
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che non parëa s’era laico o cherco.
Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?”
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E io a lui: “Perché, se ben ricordo,
già t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca: →
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però t’adocchio più che li altri tutti.”
Ed elli allor, battendosi la zucca:
“Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
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ond’ io non ebbi mai la lingua stucca.”
Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe,”
mi disse, “il viso un poco più avante,
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sì che la faccia ben con l’occhio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
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e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose →
al drudo suo quando disse ‘Ho io grazie
grandi apo te?’: ‘Anzi maravigliose!’
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E quinci sian le nostre viste sazie.”
INFERNO XIX
O Simon mago, o miseri seguaci →
che le cose di Dio, che di bontate
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deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
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però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
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ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
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e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
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d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori →
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
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fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
rupp’ io per un che dentro v’annegava:
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e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava →
d’un peccator li piedi e de le gambe
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infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe; →
per che sì forte guizzavan le giunte,
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che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte →
muoversi pur su per la strema buccia,
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tal era lì dai calcagni a le punte.
“Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti,”
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diss’ io, “e cui più roggia fiamma succia?”
Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace, →
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da lui saprai di sé e de’ suoi torti.”
E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace: →
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
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dal tuo volere, e sai quel che si tace.”
Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
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là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
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di quel che si piangeva con la zanca.
“O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, →
anima trista come pal commessa,”
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comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto.”
Io stava come ’l frate che confessa →
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
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richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, →
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
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Di parecchi anni mi mentì lo scritto. →
Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
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la bella donna, e poi di farne strazio?” →
Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
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quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:
‘Non son colui, non son colui che credi’ ”
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e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
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mi disse: “Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
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sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; →
e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
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che sù l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
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per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
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allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi →
e ch’i’ son stato così sottosopra,
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ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
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tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
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suo re, così fia lui chi Francia regge.”
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, →
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
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“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle →
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
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Certo non chiese se non ‘Viemmi retro.’
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
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al loco che perdé l’anima ria.
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
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ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
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che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
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calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
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puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
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&n
bsp; fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
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se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, →
non la tua conversion, ma quella dote
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che da te prese il primo ricco patre!”
E mentr’ io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
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forte spingava con ambo le piote.
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
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lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese; →
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
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rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco →
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che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
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Indi un altro vallon mi fu scoperto.
INFERNO XX
Di nova pena mi conven far versi →
e dar matera al ventesimo canto
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de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.
Io era già disposto tutto quanto →
a riguardar ne lo scoperto fondo,
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che si bagnava d’angoscioso pianto;