by Dante
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate →
ombre che vanno intorno dicon vero;
81
ma che mi val, c’ho le membra legate?
S’io fossi pur di tanto ancor leggero →
ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
84
io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
87
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia; →
e’ m’indussero a batter li fiorini
90
ch’avevan tre carati di mondiglia.”
E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
93
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”
“Qui li trovai—e poi volta non dierno—,”
rispuose, “quando piovvi in questo greppo,
96
e non credo che dieno in sempiterno.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo; →
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
99
per febbre aguta gittan tanto leppo.”
E l’un di lor, che si recò a noia →
forse d’esser nomato sì oscuro,
102
col pugno li percosse l’epa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
105
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
108
ho io il braccio a tal mestiere sciolto.”
Ond’ ei rispuose: “Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
111
ma sì e più l’avei quando coniavi.”
E l’idropico: “Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
114
là ’ve del ver fosti a Troia richesto.”
“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio,” →
disse Sinon; “e son qui per un fallo,
117
e tu per più ch’alcun altro demonio!”
“Ricorditi, spergiuro, del cavallo,” →
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
120
“e sieti reo che tutto il mondo sallo!”
“E te sia rea la sete onde ti crepa,”
disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia
123
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”
Allora il monetier: “Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
126
ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, →
tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
129
non vorresti a ’nvitar molte parole.”
Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira, →
132
che per poco che teco non mi risso!”
Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
135
ch’ancor per la memoria mi si gira.
Qual è colui che suo dannaggio sogna, →
che sognando desidera sognare,
138
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,
tal mi fec’ io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
141
me tuttavia, e nol mi credea fare.
“Maggior difetto men vergogna lava,” →
disse ’l maestro, “che ’l tuo non è stato;
144
però d’ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
148
ché voler ciò udire è bassa voglia.”
INFERNO XXXI
Una medesma lingua pria mi morse, →
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
3
e poi la medicina mi riporse;
così od’ io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
6
prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone →
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
9
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv’ era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
12
ma io senti’ sonare un alto corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
15
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando →
Carlo Magno perdé la santa gesta,
18
non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa, →
che me parve veder molte alte torri;
21
ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?”
Ed elli a me: “Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
24
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
27
però alquanto più te stesso pungi.”
Poi caramente mi prese per mano →
e disse: “Pria che noi siam più avanti,
30
acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
33
da l’umbilico in giuso tutti quanti.”
Come quando la nebbia si dissipa, →
lo sguardo a poco a poco raffigura
36
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,
così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
39
fuggiemi errore e crescémi paura;
però che, come su la cerchia tonda →
Montereggion di torri si corona,
42
così la proda che ’l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
45
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
48
e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò l’arte →
di sì fatti animali, assai fé bene
51
per tòrre tali essecutori a Marte.
E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
54
più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
57
nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa →
come la pina di San Pietro a Roma,
60
e a sua proporzione eran l’altre ossa;
sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
63
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato m
al vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
66
dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.
“Raphèl maì amècche zabì almi,” →
cominciò a gridar la fiera bocca,
69
cui non si convenia più dolci salmi. →
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca, →
tienti col corno, e con quel ti disfoga
72
quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
75
e vedi lui che ’l gran petto ti doga.”
Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
78
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
81
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto.”
Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
84
trovammo l’altro assai più fero e maggio. →
A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
87
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
90
si ravvolgëa infino al giro quinto.
“Questo superbo volle esser esperto →
di sua potenza contra ’l sommo Giove,”
93
disse ’l mio duca, “ond’ elli ha cotal merto.
Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
96
le braccia ch’el menò, già mai non move.”
E io a lui: “S’esser puote, io vorrei →
che de lo smisurato Brïareo
99
esperïenza avesser li occhi mei.”
Ond’ ei rispuose: “Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
102
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
105
salvo che più feroce par nel volto.”
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
108
come Fïalte a scuotersi fu presto. →
Allor temett’ io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
111
s’io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, →
114
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
“O tu che ne la fortunata valle →
che fece Scipïon di gloria reda,
117
quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
120
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
123
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama; →
126
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
129
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama.”
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
132
ond’ Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”;
135
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda →
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
138
sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
141
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora →
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, li fece dimora, →
145
e come albero in nave si levò.
INFERNO XXXII
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, →
come si converrebbe al tristo buco
3
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’ io non l’abbo,
6
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
9
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso →
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
12
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe →
che stai nel loco onde parlare è duro,
15
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro →
sotto i piè del gigante assai più bassi,
18
e io mirava ancora a l’alto muro,
dicere udi’mi: “Guarda come passi: →
va sì, che tu non calchi con le piante
21
le teste de’ fratei miseri lassi.”
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante →
e sotto i piedi un lago che per gelo
24
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo →
di verno la Danoia in Osterlicchi,
27
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
com’ era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
30
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana →
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
33
di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
36
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia; →
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
39
tra lor testimonianza si procaccia.
Quand’ io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
42
che ’l pel del capo avieno insieme misto.
“Ditemi, voi che sì strignete i petti,”
diss’ io, “chi siete?” E quei piegaro i colli;
45
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, →
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
48
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ ei come due becchi
51
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
54
disse: “Perché cotanto in noi ti specchi? →
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
57
del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
60
degna più d’esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
63
non Focaccia; non questi che m’ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
66
se tosco se’, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
69
e aspetto Carlin che mi scagioni.”
Poscia vid’ io mille visi cagnazzi →
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
72
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo →
al quale ogne gravezza si rauna,
75
e io tremava ne l’etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
78
forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste? →
se tu non vieni a crescer la vendetta
81
di Montaperti, perché mi moleste?”
E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta, →
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;