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Sussurri

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by Dean Koontz




  DEAN KOONTZ

  SUSSURRI

  (Whispers, 1980)

  Questo libro è dedicato a Rio e Battista Locatelli,

  due persone deliziose che meritano il meglio.

  PARTE PRIMA

  La vita e la morte

  Le forze che si ripercuotono sulla nostra vita, le in­fluenze che ci modellano e ci formano, sono spesso come sussurri in una stanza lontana, fastidiosa­mente indistinti e percepibili a stento.

  Charles Dickens

  1

  Martedì all'alba Los Angeles tremò. I telai delle finestre vi­brarono. Le campanelle nelle verande tintinnarono allegra­mente anche se non c'era vento. In alcune case, i piatti cad­dero dalle mensole.

  All'inizio dell'ora di punta la kfwb, la radio locale, par­lava quasi esclusivamente del terremoto. Il sisma aveva rag­giunto i 4,8 gradi della scala Richter. Verso la fine dell'ora di punta, la kfwb declassò la notizia del terremoto al terzo posto dopo un servizio su un attentato terroristico a Roma e un incidente che aveva coinvolto cinque macchine sul­l'autostrada di Santa Monica. Dopotutto, nessun edificio aveva riportato danni. All'ora di pranzo solo uno sparuto numero di persone, la maggior parte delle quali si era tra­sferita a Los Angeles da meno di un anno, ritenne il sisma degno di venir menzionato a tavola.

  L'uomo nel furgone Dodge grigio fumo non si accorse nemmeno che la terra tremava. Si trovava alla periferia nordovest della città e si stava dirigendo verso sud sull'au­tostrada di San Diego quando ci fu il terremoto. Dato che alla guida di un veicolo è possibile cogliere solo le scosse telluriche più violente, l'uomo si rese conto dell'accaduto solo quando si fermò a fare colazione e udì due clienti che ne parlavano.

  Allora si rese subito conto che il terremoto era un segno mandato appositamente per lui, forse per assicurargli che la missione a Los Angeles sarebbe stata un successo, o magari per metterlo in guardia contro un possibile fallimento. Ma qual era il messaggio esatto che avrebbe dovuto dedurne?

  Mentre mangiava riflette su quel problema. Era un uomo corpulento: più di un metro e novanta per centocinque chili di muscoli, e ci volle più di un'ora e mezzo per terminare la colazione. Iniziò con due uova, pancetta, for­maggio, pane tostato e un bicchiere di latte. Masticava len­tamente, metodicamente, con gli occhi fìssi sul cibo come se ne fosse ipnotizzato. Quando finì il primo piatto, ordinò un altro bicchiere di latte e una doppia porzione di frit­telle. Finite le frittelle, ingurgitò un'omelette al formaggio con tre fette di pancetta, un'altra porzione di pane tostato e del succo d'arancia.

  Allorché ordinò per la terza volta, era già diventato l'ar­gomento principale di conversazione in cucina. La came­riera che lo serviva era un'allegra ragazza con i capelli rossi, di nome Helen, ma anche tutte le sue colleghe trova­rono una scusa per passare accanto al suo tavolo e lanciar­gli un'occhiata. Si rendeva conto di suscitare il loro inte­resse, ma non gliene importava niente.

  Quando alla fine chiese il conto a Helen, la ragazza com­mentò: "Lei deve essere un taglialegna o qualcosa del ge­nere."

  L'uomo alzò lo sguardo e sorrise forzatamente. Anche se era la prima volta che metteva piede in quel locale, anche se fino a novanta minuti prima Helen era una perfetta sco­nosciuta, sapeva esattamente che la ragazza gli avrebbe detto qualcosa del genere. Glielo avevano già ripetuto centinaia di volte.

  Helen fece una risatina imbarazzata, ma non distolse gli occhi azzurri da quelli dell'uomo. "Volevo dire, lei mangia per tre."

  "Davvero."

  Era in piedi accanto a lui e appoggiò il fianco al bordo del tavolo, sporgendosi leggermente in avanti per fargli ca­pire in maniera inequivocabile che sarebbe anche stata disponibile. "Eppure, nonostante tutto quel cibo... non ha neppure un grammo di grasso addosso."

  Continuando a sorridere, l'uomo cercò di immaginarsi come sarebbe stata a letto. Si vide nell'atto di possedere quel corpo, affondando dentro di lei, e poi vide le proprie mani stringersi intorno al collo, sempre più forte, fino a quando il bel visino di Helen diventava paonazzo e gli oc­chi le schizzavano fuori delle orbite.

  Lei continuava a fissarlo con aria interrogativa, chieden­dosi se soddisfacesse tutti i suoi appetiti con lo stesso impe­gno dimostrato nei confronti del cibo. "Immagino faccia un sacco di ginnastica."

  "Faccio sollevamento pesi," rispose lui.

  "Come Arnold Schwarzenegger."

  "Già."

  Il collo di Helen era lungo e sottile. Si rendeva conto che avrebbe potuto spezzarlo come un ramoscello secco e quel pensiero migliorò notevolmente il suo umore.

  "Certo che ha proprio due belle braccia," proseguì lei sottovoce, in tono di apprezzamento. L'uomo portava una camicia a maniche corte e Helen gli sfiorò l'avambraccio con un dito. "Immagino che con tutto quell'esercizio possa mangiare quello che vuole, tanto il cibo si trasforma in mu­scoli."

  "Be', in effetti è così," bofonchiò lui. "Ma è anche que­stione di metabolismo."

  "Eh?"

  "Brucio un sacco di calorie in energia nervosa."

  "Lei? Nervoso?"

  "Nevrastenico come un gatto siamese."

  "Non ci credo. Scommetto che al mondo non c'è niente in grado di farla innervosire."

  Helen era un tipo piacente, sulla trentina, dieci anni meno di lui, e pensò che avrebbe potuto averla se solo ci avesse provato. Avrebbe dovuto corteggiarla un po', ma neanche troppo, quel che bastava a convincerla che era stato lui a sollevarla di peso per poi depositarla sul letto contro la sua volontà, come Rhett e Rossella O'Hara. Naturalmente, se avesse fatto l'amore con lei, poi avrebbe do­vuto ucciderla. Avrebbe dovuto affondare un coltello nel suo grazioso seno oppure tagliarle la gola, e non ne aveva alcuna voglia. Non valeva la pena correre un rischio simile. Non era decisamente il suo tipo: quelle con i capelli rossi non le uccideva mai.

  Le lasciò una buona mancia, pagò il conto alla cassa vi­cino alla porta e uscì. Dopo il ristorante con l'aria condizio­nata, il calore di settembre lo aggredì minacciando di soffo­carlo come un cuscino premuto contro il viso. Si incam­minò verso il furgone Dodge, consapevole del fatto che Helen lo stava osservando, ma non si girò neppure una volta.

  Si diresse verso un grande magazzino, posteggiò all'an­golo di un grande parcheggio, all'ombra di una palma, il più possibile lontano dal negozio. Si arrampicò oltre i se­dili, fin sul retro del furgone, abbassò una tendina di bambù che separava la cabina di guida e si distese su un materasso logoro e decisamente troppo corto per lui. Aveva guidato tutta la notte senza fermarsi, da St. Helena, nella zona vinicola. Ora, a pancia piena, era venuto il mo­mento di schiacciare un pisolino.

  Quattro ore più tardi si svegliò da un brutto sogno. Era sudato fradicio, tremava e aveva caldo e freddo nello stesso tempo. Con una mano stringeva il materasso e con l'altra vibrava pugni a vuoto in aria. Avrebbe voluto urlare, ma la voce gli si era bloccata in gola: emise soltanto un suono sordo, una specie di rantolo.

  Dapprima non riuscì a ricordare dove si trovasse. Il retro del furgone era buio, a eccezione di tre sottili fasci di luce che filtravano attraverso le fessure della tendina di bambù. L'aria era calda e stantia. Si sedette, tastò la parete di me­tallo con una mano, strizzò gli occhi per riuscire a vedere qualcosa e pian piano fu in grado di orientarsi. Quando fi­nalmente si rese conto di essere nel furgone, si rilassò e si lasciò cadere di nuovo sul materasso.

  Cercò di ricordare qualche particolare dell'incubo, ma non ci riuscì. Non era una novità. Praticamente ogni notte della sua vita era stata caratterizzata da sogni orribili: si svegliava terrorizzato, con la bocca secca e il cuore che sob­balzava, ma non una volta era riuscito a capire che cosa lo avesse spaventato.

  Nonostante sapesse dove si trovava, l'oscurità lo faceva sentire a disagio. Continuava a percepire rumori furtivi nelle tenebre, deboli suoni che gli facevano rizzare i capelli anche se sapeva bene c
he erano solo frutto della sua imma­ginazione. Alzò la tendina di bambù e strizzò gli occhi più volte fino a quando essi si abituarono alla luce.

  Prese un fagotto di pelle scamosciata appoggiato accanto al materasso. Era legato con un pezzo di spago scuro. Di­sfece il nodo e srotolò i quattro morbidi stracci arrotolati uno dentro l'altro. Al centro del fagotto c'erano due grossi coltelli. Erano affilatissimi. Aveva dedicato molto tempo e molte attenzioni a quelle splendide lame taglienti. Quando ne prese una in mano avvertì una strana e meravigliosa sen­sazione, come se fosse stato il coltello di uno stregone, do­tato di un'energia magica che ora si stava riversando su di lui.

  Il sole del pomeriggio era scivolato oltre l'ombra della palma sotto la quale aveva posteggiato. La luce filtrava at­traverso il parabrezza, sopra la sua spalla, e andò a colpire l'acciaio lucente: la lama del coltello scintillò.

  Mentre fissava la lama, le labbra sottili si tesero in un sorriso. Nonostante l'incubo, quel sonnellino gli aveva fatto bene. Si sentiva rinvigorito e fiducioso. Ormai era as­solutamente certo che il terremoto del mattino significasse per lui un completo successo a Los Angeles. Avrebbe trovato la donna. Avrebbe messo le mani su di lei. Quel giorno, o al massimo mercoledì. Mentre pensava al suo corpo caldo e morbido e alla sua pelle delicata, il sorriso si trasformò in un ghigno.

  Martedì pomeriggio Hilary Thomas andò a fare spese a Beverly Hills. Verso sera, quando tornò a casa, posteggiò la sua Mercedes color caffè nel vialetto circolare di fronte alla porta d'ingresso. Ora che gli stilisti avevano finalmente de­ciso che le donne potevano tornare ad avere un aspetto femminile, Hilary aveva comprato tutto ciò di cui aveva sentito la mancanza durante l'epidemia di mascolinizzazione che negli ultimi cinque anni aveva colpito l'industria della moda. Dovette fare tre viaggi per svuotare il baga­gliaio.

  Mentre afferrava l'ultimo pacchetto ebbe la sensazione di essere osservata. Si allontanò dall'auto e guardò verso la strada. Il sole era già basso e stava tramontando in mezzo alle grandi ville e alle palme fronzute, tingendo tutto di una luce dorata. A mezzo isolato di distanza, due bambini stavano giocando in un giardino e un cocker spaniel con le orecchie morbide zampettava allegramente lungo il marcia­piede. Per il resto, il quartiere era silenzioso e incredibil­mente tranquillo. Sull'altro lato della strada erano parcheg­giate due automobili e un furgone Dodge grigio fumo, ma sembrava non ci fosse nessuno a bordo.

  A volte ti comporti come una stupida, si rimproverò Hi­lary. Chi vuoi che ti stia osservando?

  Ma quando, dopo aver portato in casa l'ultimo pac­chetto, uscì un'altra volta per mettere l'auto in garage, ebbe di nuovo la netta impressione che qualcuno la stesse osservando.

  Più tardi, verso mezzanotte, mentre era a letto a leggere, Hilary sentì dei rumori provenire dal piano di sotto. Mise giù il libro e rimase in ascolto.

  Erano suoni piuttosto decisi. In cucina. Vicino alla porta che dava sul retro. Proprio sotto la camera da letto.

  Si alzò e si infilò una vestaglia. Era un modello molto av­volgente in seta blu che aveva comperato quel pomeriggio.

  Nel primo cassetto del comodino c'era una calibro 32 automatica già carica. Ebbe un attimo di esitazione, ascoltò ancora per un momento i rumori provenienti dalla cucina e poi decise di prendere la pistola.

  Si sentiva un po' sciocca. Probabilmente erano semplicemente rumori di assestamento, degli scricchiolii abbastanza comuni in una casa. Però erano già sei mesi che abitava lì e non aveva mai sentito niente di simile, prima di allora.

  Si fermò in cima alle scale e lanciò un'occhiata in basso, verso l'oscurità, esclamando: "Chi c'è?"

  Nessuna risposta.

  Stringendo la pistola, scese le scale e attraversò il sog­giorno, col respiro affannoso e la mano che cominciava a tremarle un po'. Accese tutte le luci che incontrò sul cam­mino. Continuò a sentire degli strani rumori anche mentre si avventurava verso il retro della casa, ma quando entrò in cucina e accese le luci, si trovò immersa nel silenzio.

  Non c'era nulla di strano. Il pavimento scuro in legno di pino. I mobili scuri con i piani in ceramica bianca scintil­lante. Bianchi ripiani immacolati. Pentole di rame lucido e utensili che pendevano dall'alto soffitto bianco. Non c'era nessuno e niente che lasciasse supporre la presenza di qual­cuno prima del suo arrivo.

  Rimase ferma sulla porta e aspettò che ricominciassero i rumori.

  Niente. Solo il debole ronzio del frigorifero.

  Alla fine passò accanto al blocco di mobiletti centrali e controllò la porta che dava sul retro. Era chiusa a chiave.

  Accese le luci del giardino e alzò la persiana della fine­stra sopra il lavandino. All'esterno, la piscina lunga dodici metri scintillava sulla destra. Sulla sinistra c'era l'immenso roseto, con una decina di boccioli che brillavano come fos­sero di neon in mezzo alle foglie scure. Tutto appariva silenzioso e immobile.

  Erano solo rumori di assestamento, pensò. Santo cielo, sto diventando una vecchia zitella fifona.

  Si preparò un panino e lo portò di sopra insieme con una bottiglia di birra. Lasciò accese tutte le luci al pianterreno, per scoraggiare l'eventuale intruso: ammesso che ci fosse davvero qualcuno che voleva entrare.

  Più tardi, si sentì stupida per aver lasciato tante luci ac­cese.

  Sapeva benissimo che cosa c'era che non andava. Il suo nervosismo era un sintomo del malessere definito io-non-merito-tutta-questa-felicità, un disturbo a livello mentale che conosceva ormai molto bene. Era venuta dal niente, dal nulla, e ora possedeva tutto. Inconsciamente, aveva paura che Dio potesse accorgersi di lei e decidere che non meritava tutto quello che aveva ottenuto. E allora tutto sa­rebbe finito. Tutto ciò che aveva accumulato sarebbe stato distrutto e spazzato via: la casa, l'automobile, i conti in banca... La sua vita assomigliava a un sogno, a una favola meravigliosa, troppo bella per essere vera e comunque troppo bella per poter durare.

  No. Dannazione, no! Doveva smetterla di sminuirsi e comportarsi come se i risultati ottenuti fossero dovuti a un colpo di fortuna. La fortuna non c'entrava niente. Nata in una casa in cui abitava la disperazione, nutrita con l'incer­tezza e la paura al posto del latte e dell'amore. Odiata dal padre e appena tollerata dalla madre, cresciuta in un am­biente nel quale l'autocommiserazione e l'amarezza ave­vano distrutto qualsiasi forma di speranza, era ovvio che fosse diventata grande senza una reale fiducia in se stessa. Per anni aveva combattuto con un complesso di inferiorità. Ma ormai era tutto passato. Aveva seguito una terapia. Or­mai era in grado di comprendere se stessa e non avrebbe lasciato che i vecchi dubbi si impadronissero nuovamente di lei. La casa, l'automobile e il denaro non le sarebbero stati strappati: se li meritava. Lavorava sodo e aveva un grande talento. Nessuno le aveva offerto un lavoro semplicemente perché era amica o parente di qualcuno; quando era arri­vata a Los Angeles non conosceva nessuno. Nessuno l'a­veva ricoperta di denaro solo perché era carina. Attirate dalla ricchezza dell'industria dello spettacolo e dal mirag­gio della celebrità, ogni giorno giungevano a Los Angeles moltissime donne affascinanti che, normalmente, venivano trattate peggio delle bestie. Lei era riuscita a raggiungere l'apice per una sola ragione: era un'ottima scrittrice, una lavoratrice instancabile, un'artista energica dotata di vivace immaginazione perfettamente in grado di creare film che avrebbero attirato molti spettatori. Si era guadagnata ogni singolo centesimo e nessuno aveva ragione di dubitarne.

  "Quindi rilassati," esclamò a voce alta.

  Nessuno aveva cercato di intrufolarsi in cucina, era solo frutto della sua immaginazione.

  Finì il panino e la birra, poi scese per spegnere le luci.

  Dormì di un sonno profondo.

  La giornata seguente fu una delle migliori della sua vita. Ma anche una delle peggiori.

  Il mercoledì prometteva bene. Il cielo era completa­mente sereno. L'aria era tiepida e trasparente. La luce del mattino era quella tipica della California meridionale in de­terminati giorni dell'anno. Era una luce cristallina, forte eppure dolce, come i raggi del sole in un dipinto cubista, e dava l'impressione che, da un momento all'altro
, nell'aria potesse aprirsi un varco, simile al sipario di un teatro, per rivelare un mondo completamente diverso da quello in cui si vive normalmente.

  Hilary Thomas trascorse la mattinata in giardino. Il mezzo acro alle spalle della casa a due piani in stile neo­ispanico era coperto da una ventina di specie di rose di­verse: aiuole, tralicci e siepi di rose. C'erano la Frau Karl Druschki, la Madame Pierre Oger, la rosa muscosa, la Sou­venir de la Malmaison e un'ampia gamma di ibridi mo­derni. Il giardino era tutto un fiorire di rose bianche, rosse, arancio, gialle, rosa, porpora e persino verdi. Alcuni fiori avevano le dimensioni di un piattino, mentre altri erano così piccoli da passare attraverso un anello. Il prato vellu­tato era punteggiato di petali di tutte le sfumature.

  Quasi tutte le mattine, Hilary trascorreva due o tre ore a lavorare in giardino. Per quanto potesse essere agitata prima di iniziare, ne usciva sempre completamente rilassata e in pace con se stessa.

  Avrebbe certamente potuto permettersi un giardiniere. Poteva ancora contare sugli introiti derivanti dal suo primo film di successo, Pete, l'ambiguo, che era stato girato più di due anni prima e che si era rivelato un autentico capolavoro. Il nuovo film, Cuore gelido, uscito da meno di due mesi, stava riscuotendo un successo ancora maggiore. La villa di dodici locali a Westwood, accanto a Bel Air e Beverly Hills, era costata una cifra esorbitante, eppure Hilary l'aveva pagata in contanti solo sei mesi prima. Nell'am­biente dello spettacolo la definivano "un talento di scot­tante attualità". Ed era esattamente così che si sentiva. Calda. Bruciante. Infuocata dai progetti e dalle possibilità. Era una sensazione splendida. Era una sceneggiatrice dan­natamente in gamba e avrebbe potuto assumere un esercito di giardinieri, se avesse voluto.

  Si dedicava personalmente ai fiori e alle piante perché il giardino rappresentava un posto speciale per lei, quasi sa­cro. Il simbolo della sua fuga.

  Era cresciuta in un appartamentino squallido in uno dei peggiori quartieri di Chicago. Se solo avesse chiuso gli oc­chi, persino in quel momento, in quel luogo, in quel giar­dino pieno di rose profumate, avrebbe potuto rivedere ogni singolo dettaglio della sua vecchia casa. Nell'atrio le caselle della posta erano regolarmente fracassate dai ladri che cercavano gli assegni della previdenza sociale. I corri­doi erano stretti e male illuminati. I locali erano minuscoli e bui e i mobili vecchi e traballanti. Nella piccola cucina, la malandata stufa a gas rischiava di esplodere. Hilary era vis­suta per anni con l'incubo di quella fiammella incerta e bluastra. Il frigorifero era ingiallito dal tempo; emetteva uno strano ronzio e il motore attirava quella che suo padre chiamava la "fauna locale". In piedi in mezzo allo splen­dido giardino, Hilary ricordò la fauna con cui aveva condi­viso la propria infanzia e rabbrividì. Sebbene lei e la madre avessero sempre tenuto le quattro stanze accuratamente pulite e sebbene facessero largo uso di insetticida, non erano mai riuscite a sbarazzarsi degli scarafaggi perché quei dannati animali attraversavano le sottili pareti che li separavano dai vicini, decisamente molto meno amanti della pu­lizia.

 

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