Sussurri

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Sussurri Page 2

by Dean Koontz


  Il ricordo più intenso della sua infanzia era rappresen­tato dalla vista di cui godeva dalla sua microscopica cameretta. Era lì che aveva trascorso molte delle sue ore solita­rie, nascondendosi mentre i suoi genitori litigavano. Quella camera era il suo rifugio quando iniziavano le urla e le imprecazioni, ma anche quando fra i suoi genitori calava il si­lenzio più profondo. Da quella finestra non si vedeva niente di interessante: in pratica solo il muro di mattoni sporco di fuliggine che si ergeva dall'altro lato dello stretto vicolo che conduceva alla casa. La finestra non si poteva nemmeno aprire perché era stata sprangata. A dire la ve­rità, era visibile anche una sottile fetta di cielo, ma solo ap­poggiando la faccia contro il vetro e alzando lo sguardo verso il tetto.

  Nel desiderio spasmodico di fuggire dall'ambiente me­schino in cui era cresciuta, Hilary aveva imparato a usare la propria immaginazione per vedere attraverso quel muro. Le bastava lasciar fluttuare la mente e tutt'a un tratto si ritro­vava a contemplare una collina verdeggiante, oppure le onde dell'oceano, o ancora la cima delle vette immacolate. Ma la maggior parte delle volte immaginava un giardino, un posto incantato, sereno, con le siepi disposte ordinata­mente e i tralicci traboccanti di rose. Nelle sue fantasie ri­correvano spesso mobili da giardino in ferro battuto verniciato di bianco. Alcuni ombrelloni a strisce colorate crea­vano zone d'ombra per ripararsi dai caldi raggi del sole. Le donne in lungo e gli uomini in abiti estivi sorseggiavano bevande ghiacciate conversando amabilmente.

  E ora vivo in quel sogno, pensò. Quel mondo fantastico esiste davvero e mi appartiene.

  Coltivare le rose e le altre piante, occuparsi di palme, felci, cespugli e decine di altre specie non era un lavoro gravoso. Anzi, un'autentica gioia. Lavorando in giardino si rendeva conto degli enormi progressi che aveva fatto.

  A mezzogiorno ripose gli attrezzi da giardinaggio e fece la doccia. Rimase a lungo sotto l'acqua bollente, come se insieme con lo sporco e il sudore volesse lavare via anche quei terribili ricordi. In quel deprimente appartamento di Chicago, in quel minuscolo bagno, dove tutti i rubinetti perdevano e dove gli scarichi si intasavano almeno una volta al mese, non c'era mai stata acqua calda a sufficienza.

  Consumò un pasto leggero sul patio chiuso da vetrate che si affacciava sulle rose. Mangiucchiando del formaggio e qualche fetta di mela, lesse i giornali del giro dello spetta­colo, Hollywood Reporter e Daily Variety, che erano giunti con la posta del mattino. Nell'articolo di Hank Grant sul Reporter notò il suo nome in un elenco di personaggi del cinema e della televisione che compivano gli anni in quel giorno. Per avere solo ventinove anni, ne aveva fatta dav­vero molta di strada.

  Quel giorno il comitato esecutivo della Warner Brothers avrebbe discusso della sua ultima sceneggiatura: L'Ora del Lupo. Entro sera avrebbero deciso se comperarla o rifiu­tarla. Hilary era tesa e desiderava ardentemente che il tele­fono squillasse, anche se temeva potesse portarle notizie sconfortanti. Quel progetto era la cosa più importante che le fosse mai capitata.

  Aveva scritto la sceneggiatura senza la garanzia di un contratto, seguendo l'impulso, e aveva deciso di venderla solo a condizione di potersi occupare della regia e del mon­taggio finale. La Warner aveva già ventilato un'offerta da capogiro per la sceneggiatura se lei avesse riconsiderato le condizioni di vendita. Sapeva benissimo di avanzare grandi pretese, ma tenendo presente il suo successo come sceneggiatrice, tali richieste non erano assurde. La Warner avrebbe accettato le sue condizioni, seppure con riluttanza: avrebbe potuto scommetterci. Ma la questione cruciale riguardava il montaggio. Quell'onore, il potere di decidere esattamente che cosa presentare sullo schermo, l'autorità suprema su ogni singola scena e ogni minimo dettaglio o sfumatura del film, veniva di solito accordato a registi che avevano fatto incassare cifre record. Difficilmente tale compito spettava a registi di secondo piano, specialmente se si trattava di donne. La sua insistenza per avere il con­trollo totale del film avrebbe potuto mandare a monte l'in­tero affare.

  Nella speranza di riuscire a non pensare alla Warner Brothers, Hilary trascorse il pomeriggio del mercoledì nel suo studio, che si affacciava sulla piscina. La scrivania era ampia, massiccia, in legno di quercia, con una decina di cassetti e una ventina di piccoli nascondigli. Sulla scrivania erano appoggiati diversi oggetti in cristallo Lallique che ri­frangevano la morbida luce proveniente dalle due lampade di ottone. Cercò di concentrarsi sulla seconda stesura di un articolo che stava scrivendo per Film Comment, ma i suoi pensieri erano costantemente rivolti a L'Ora del Lupo.

  Il telefonò squillò alle quattro e Hilary sobbalzò per la sorpresa anche se era tutto il pomeriggio che aspettava quella chiamata. Era Wally Topelis.

  "Sono il tuo agente, piccola. Dobbiamo parlare."

  "Non è esattamente quello che stiamo facendo ora?"

  "Voglio dire a faccia a faccia."

  "Oh. Allora ci sono brutte notizie."

  "Ho forse detto una cosa del genere?"

  "Se fossero state piacevoli," rispose Hilary, "me ne avre­sti parlato al telefono. A faccia a faccia significa solo che vuoi addolcire la pillola."

  "Sei la solita pessimista, piccola."

  "A faccia a faccia significa che vuoi stringermi la mano per convincermi che non è il caso di suicidarmi."

  "È davvero un bene che questo tuo lato melodramma­tico non traspaia mai in quello che scrivi."

  "Se la Warner ha deciso di no, non hai che da dirlo."

  "Non hanno ancora deciso, agnellino mio."

  "Sono pronta al peggio."

  "Ma mi vuoi stare ad ascoltare? Non c'è ancora niente di definitivo. Siamo ancora in ballo e vorrei discutere la pros­sima mossa con te. Tutto qui. Non c'è niente di losco. Pos­siamo vederci tra mezz'ora?"

  "Dove?"

  "Io sono al Beverly Hills Hotel."

  "Alla Polo Lounge?"

  "Naturalmente."

  Quando Hilary svoltò sul Sunset Boulevard, si rese conto che il Beverly Hills Hotel aveva un aspetto irreale, quasi fosse un miraggio che scintillava sotto il sole. L'imponente edifìcio faceva capolino in mezzo a palme enormi e vegeta­zione lussureggiante: una visione da fiaba. Lo stucco rosa non era appariscente come le pareva di ricordare. I muri sembravano trasparenti, come se scintillassero di una tenue luce propria. A modo suo, quell'albergo era elegante, un po' decadente, certo, ma indubbiamente elegante. Davanti all'ingresso principale, dei valletti in divisa posteggiavano le automobili: due Rolls-Royce, tre Mercedes, una Stuts e una Maserati rossa.

  Era lontano mille miglia dal povero quartiere di Chicago, pensò allegramente.

  Quando entrò nella Polo Lounge, vide una mezza doz­zina di attori e attrici del cinema, volti famosi, in mezzo a due pezzi grossi, ma non occupavano il tavolo numero tre. Di solito quello era considerato il posto più ambito dell'in­tero locale, dal momento che era situato di fronte all'en­trata ed era il punto migliore per osservare ed essere osser­vati. C'era Wally Topelis a quel tavolo, perché era uno dei più importanti agenti di Hollywood e perché era riuscito a incantare il maître proprio come faceva con tutti quelli che incontrava. Era un uomo minuto ed elegante di circa cinquant'anni. Aveva una folta capigliatura bianca e luminosa. I baffi erano bianchi e ben curati. Aveva un'aria distinta, esattamente il tipo di persona che ci si aspettava di vedere al tavolo numero tre. Stava parlando al telefono che gli avevano portato appositamente. Quando vide Hilary avvi­cinarsi, concluse rapidamente la conversazione, riappese il ricevitore e si alzò in piedi.

  "Hilary, sei splendida, come sempre."

  "E tu sei il centro dell'attenzione, come sempre."

  L'uomo fece una smorfia. Aveva la voce morbida e cospiratrice. "Immagino che ci stiano osservando tutti."

  "Credo."

  "Di nascosto."

  "Oh, certo."

  "Perché non vogliono far vedere che ci stanno guar­dando," proseguì l'uomo allegramente.

  Si sedettero e Hilary proseguì: "E anche noi non guar­diamo per vedere se ci stanno guardando."

  "Oh, cielo, no!" Gli occhi azzurri sprizzavano allegria.

  "Non vogliamo cert
o dar loro l'impressione di preoccu­parci."

  "Per carità."

  "Sarebbe gauche."

  "Très gauche." E scoppiò a ridere.

  Hilary sospirò. "Non sono mai riuscita a capire perché un tavolo debba essere più importante di un altro."

  "Be', io posso starmene seduto qui a farmi quattro risate, ma tutto sommato lo capisco," rispose Wally. "Nonostante quello che credevano Marx e Lenin, l'animale uomo pro­spera grazie al sistema classista, almeno fino a quando tale sistema è basato sostanzialmente sul denaro e sul successo e non sul pedigree. Creiamo e alimentiamo sistemi classisti ovunque, persino nei ristoranti."

  "Pare che mi sia imbattuta in una delle famose filippiche alla Topelis."

  Arrivò un cameriere con un secchiello d'argento per il ghiaccio appoggiato su un piedistallo. Lo depositò accanto al tavolo, sorrise e se ne andò. Apparentemente Wally si era preso la libertà di ordinare per entrambi prima ancora che lei arrivasse. Ma non ritenne opportuno rivelarle che cosa avrebbero bevuto.

  "Non una filippica," precisò, "solo una constatazione. La gente ha bisogno dei sistemi classisti."

  "Perché?"

  "Innanzitutto, è giusto che la gente abbia delle aspira­zioni, dei desideri che vadano oltre i bisogni fondamentali di cibo e di un tetto, esigenze ossessive che li spingano a lottare per ottenere qualcosa. Se c'è un quartiere migliore, un uomo accetterà due lavori contemporaneamente per ri­sparmiare abbastanza per comprarsi una casa in quella zona. Se un'automobile è meglio di un'altra, un uomo, op­pure una donna, dal momento che non si tratta certo di una questione di sesso, lavorerà sempre di più per riuscire a permettersela. E se esiste un tavolo migliore nella Polo Lounge, chiunque venga qui vorrà essere sufficientemente ricco o famoso, o persino sufficientemente impopolare, per potersi sedere qui. Questo desiderio quasi maniacale per uno status genera la ricchezza, contribuisce al prodotto na­zionale lordo e crea possibilità di lavoro. Dopotutto, se Henry Ford non avesse voluto diventare qualcuno, non avrebbe mai fondato la società che ora dà lavoro a decine di migliaia di persone. Il sistema classista è un motore che guida gli ingranaggi del commercio: è lui a mantenere alto il nostro tenore di vita. Il sistema classista fornisce un obiettivo all'individuo e regala al maître un senso di potere e superiorità che rende piacevole un lavoro altrimenti in­tollerabile."

  Hilary scosse la testa. "Comunque, il fatto di essere se­duto al tavolo migliore non significa certo che sono auto­maticamente migliore della persona seduta al tavolo di fianco. Non rappresenta certo un successo."

  "È un simbolo del successo, della posizione sociale," pre­cisò Wally.

  "Continuo a non capirne il senso."

  "È solo un gioco particolarmente complesso."

  "E tu sicuramente sai come giocare."

  L'uomo era raggiante. "E non dovrei?"

  "Io non ho mai imparato le regole."

  "Eppure dovresti, agnellino mio. È decisamente stupido, ma utile nel mondo degli affari. A nessuno piace lavorare con un perdente. E tutti quelli che giocano vogliono avere a che fare con il genere di persona che può sedersi al mi­glior tavolo della Polo Lounge."

  Wally Topelis era l'unica persona di sua conoscenza che potesse chiamare una donna "agnellino mio" senza suonare esagerato o viscido. Anche se era un uomo minuto, con la corporatura di un fantino professionista, ricordava un po' Cary Grant nel film Caccia al ladro. Aveva lo stesso stile: un modo di fare impeccabile ma mai pomposo; una grazia composta in ogni gesto, anche nei più banali; un fascino discreto; un'aria leggermente divertita, come se considerasse la vita un'eterna barzelletta.

  Ritornò il capocameriere, Wally lo chiamò Eugene e gli chiese dei bambini. Eugene sembrava osservare Wally con affetto e Hilary si rese conto che per ottenere il miglior ta­volo della Polo Lounge forse era necessario trattare il per­sonale come vecchi amici e non semplici servitori.

  Eugene aveva una bottiglia di champagne e la porse a Wally perché la controllasse.

  Hilary lanciò un'occhiata all'etichetta. "Dom Pérignon?"

  "Ti meriti il meglio, agnellino mio."

  Eugene tolse la carta stagnola dal collo della bottiglia e iniziò a liberare il tappo.

  Hilary aggrottò la fronte. "Devi avere notizie davvero pessime per me."

  "Perché dici una cosa del genere?"

  "Una bottiglia di champagne da cento dollari..." Hilary lo osservò con attenzione. "Immagino serva a consolare il mio orgoglio e a lenire le ferite."

  Il tappo saltò via. Eugene sapeva il fatto suo. Solo poche gocce del prezioso liquido fuoriuscirono dalla bottiglia.

  "Sei troppo pessimista," disse Wally.

  "Sono realista."

  "La maggior parte della gente avrebbe detto: 'Ah, cham­pagne! Che cosa stiamo festeggiando?' Ma non Hilary Thomas."

  Eugene versò un dito di Dom Pérignon. Wally la assag­giò e annuì.

  "Stiamo festeggiando?" chiese Hilary. Non aveva nep­pure preso in considerazione quella possibilità e improvvi­samente si sentì incredibilmente debole.

  "A dire la verità, sì," rispose Wally.

  Eugene riempì lentamente i due bicchieri e infilò la bot­tiglia nel prezioso secchiello per il ghiaccio con la massima attenzione. Chiaramente, voleva rimanere nei paraggi il più possibile per ascoltare il motivo per cui stavano festeg­giando.

  Ed era altrettanto ovvio che Wally volesse renderlo partecipe della notizia affinchè potesse diffonderla. Facendo una smorfia alla Cary Grant, si sporse verso Hilary e mor­morò: "Abbiamo concluso l'affare con la Warner Bro­thers."

  La donna lo fissò, socchiuse gli occhi, spalancò la bocca per parlare, ma non riuscì a proferire parola. Alla fine far­fugliò: "Non è vero."

  "Invece sì."

  "Non è possibile."

  "Invece è possibile."

  "Non può essere così facile."

  "Te l'ho detto, ce l'abbiamo fatta."

  "Non mi lasceranno curare la regia."

  "Oh, sì."

  "Non mi lasceranno fare il montaggio."

  "Sì, farai tu anche quello."

  "Mio Dio." Era sbalordita. Si sentiva stravolta.

  Eugene si congratulò con lei e si allontanò.

  Wally scoppiò a ridere, scuotendo la testa. "Sai una cosa? Avresti potuto recitare meglio la tua parte per Eu­gene. Fra non molto la gente ci vedrà festeggiare e chie­derà a Eugene di che cosa si tratta: e lui sicuramente rac­conterà tutto. Lascia che il mondo pensi che tu sei sempre stata convinta di poter ottenere quello che volevi. Mai mo­strare i propri dubbi o la propria paura mentre si nuota in mezzo agli squali."

  "Non stai scherzando, vero? Abbiamo davvero ottenuto quello che volevamo?"

  Alzando il calice, Wally esclamò: "Un brindisi alla più dolce delle clienti, con la speranza che un giorno capisca che non tutto il male viene per nuocere e che esistono an­che molte mele senza verme dentro."

  Fecero tintinnare i bicchieri.

  Poi Hilary proseguì: "Devono aver aggiunto un mucchio di clausole al contratto. Un budget limitato. Stipendi da fame. Nessuna percentuale sugli incassi e roba del genere."

  "Smettila di cercare il pelo nell'uovo," la rimproverò lui esasperato.

  "Non sto mangiando uova."

  "Che spiritosa."

  "Sto bevendo una coppa di champagne."

  "Hai capito benissimo quello che voglio dire."

  Lei fissava le bollicine nella coppa di Dom Pérignon.

  Anche dentro di lei era come se si fossero sviluppate centinaia di bollicine, una catena interminabile di minu­scole perle di gioia; ma c'era una parte di lei che si compor­tava da tappo, cercando di contenere l'emozione, per man­tenerla al sicuro, sotto pressione, imbottigliata e ben protetta. Aveva paura di essere troppo felice. Non voleva sfi­dare il destino.

  "Proprio non riesco a capire," sbottò Wally. "Sembra quasi che l'affare non sia andato in porto. Ma mi sono spie­gato bene, vero?"

  Hilary sorrise. "Mi dispiace. E solo che... da ragazzina ho imparato ad aspettarmi sempre il peggio. In quel modo, non rimanevo mai d
elusa. È l'atteggiamento migliore, quando si vive con una coppia di alcolizzati violenti e de­lusi."

  L'uomo la guardò con dolcezza.

  "I tuoi genitori se ne sono andati," mormorò tenera­mente. "Morti. Tutt'e due. Non possono più farti nulla, Hi­lary. Non possono più farti del male."

  "Negli ultimi dodici anni ho trascorso la maggior parte del tempo cercando di convincermi di questo."

  "Hai mai preso in considerazione la psicoanalisi?"

  "Ci sono andata per due anni."

  "E non è servita?"

  "Non molto."

  "Forse con un medico diverso..."

  "Sarebbe lo stesso," lo interruppe Hilary. "C'è un'incongruenza nella teoria freudiana. Gli psichiatri sono convinti che tu possa cambiare appena ti rendi conto che sono stati i traumi infantili a trasformarti in un adulto nevrotico. Cre­dono che la parte più difficile consista nel trovare la chiave e che a quel punto sia possibile aprire la porta in un mi­nuto. Ma non è così semplice."

  "Devi desiderare di cambiare."

  "Ma neanche questo è tanto semplice."

 

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