Sussurri

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Sussurri Page 3

by Dean Koontz


  Rigirò la coppa di champagne più volte fra le mani pic­cole e ben curate. "Be', se ogni tanto ti va di parlare, io sono sempre disponibile."

  "Ti ho già assillato a sufficienza."

  "Sciocchezze. Mi hai raccontato ben poco. Solo i fatti sa­lienti."

  "È una storia noiosa."

  "Neanche per sogno, te l'assicuro. La storia di una fami­glia lacerata dall'ingiustizia, dall'alcolismo, dalla follia, dal­l'omicidio e dal suicidio e una bambina innocente intrap­polata nel mezzo... Come sceneggiatrice dovresti renderti conto che è il genere di plot che non può certo annoiare."

  Hilary sorrise debolmente. "Comunque sento che devo uscirne da sola."

  "Di solito è utile parlarne..."

  "Io ne ho già parlato all'analista e ho provato anche con te, ma non è servito poi a molto."

  "Ma parlare ti è stato di aiuto."

  "Ho fatto tutto quello che potevo. Ora devo soltanto de­cidermi a parlare con me stessa. Devo confrontarmi con il mio passato da sola, senza contare sul tuo aiuto o su quello di un medico: e questo è qualcosa che non sono mai riu­scita a fare." Una ciocca di capelli scuri le era caduta su un occhio; la scostò dal viso e se la portò dietro l'orecchio. "Prima o poi, metterò la testa a posto. È solo una que­stione di tempo."

  Ma ne sono davvero convinta? si chiese.

  Wally la fissò per un attimo e poi disse: "Be', immagino tu sappia quello che stai facendo. Nel frattempo, alziamo i calici." Levò la coppa di champagne. "Stai attenta e cerca di sorridere in modo che tutte le personalità che ci stanno guardando possano invidiarti e desiderare di lavorare con te."

  Avrebbe voluto appoggiarsi allo schienale, bere coppe su coppe di Dom Pérignon ghiacciato e lasciarsi invadere dalla felicità, ma non riusciva a rilassarsi completamente. Non riusciva a scrollarsi di dosso l'oscurità spettrale che av­volgeva ogni cosa, quell'incubo inquietante pronto a bal­zare fuori e a divorarla. Earl ed Emma, i suoi genitori, l'a­vevano costretta a entrare in una minuscola scatola piena di paura, avevano chiuso il pesante coperchio e avevano buttato via la chiave; da quel giorno aveva sempre osser­vato il mondo esterno dagli angusti confini di quella scatola. Earl ed Emma le avevano inculcato un tranquillo an­che se costante e incrollabile senso di paranoia, in grado di rovinare irrimediabilmente tutte le cose belle, tutto quello che sarebbe potuto essere gioioso e piacevole.

  In quel momento l'odio nei confronti del padre e della madre si fece più gelido e risoluto, profondo come mai prima. D'improvviso la vita frenetica e l'enorme distanza che la separavano dalla gioventù infernale trascorsa a Chicago non parvero più un rimedio sufficiente contro il do­lore.

  "Che cosa c'è che non va?" chiese Wally.

  "Niente. Sto bene."

  "Sei molto pallida."

  Con un grande sforzo, Hilary allontanò i ricordi, ricac­ciando indietro il passato. Sfiorò con la mano la guancia di Wally e gli diede un bacio. "Mi dispiace. A volte sono una vera rompiballe. Non ti ho nemmeno ringraziato. Sono contenta per come sono andate le cose, Wally. Davvero. E meraviglioso! Sei l'agente più in gamba di tutto il giro."

  "Hai ragione," ammise lui. "E vero. Ma questa volta non mi sono neppure dovuto impegnare troppo. Il copione è piaciuto talmente tanto che erano disposti a offrirci tutto pur di avere in mano l'intero progetto. Non è stato solo un colpo di fortuna. E non è neanche merito, di un agente in gamba. Voglio che tu ti renda conto di questo. Mettitelo in testa, ragazzina, meriti il successo. La tua sceneggiatura è una delle cose migliori che siano mai state scritte in questi ultimi anni. Puoi anche continuare a vivere all'ombra dei tuoi genitori, puoi continuare ad aspettarti sempre il peg­gio, come prima, ma d'ora in poi otterrai sempre e solo suc­cessi. Se vuoi il mio consiglio, faresti meglio ad abituartici."

  Avrebbe desiderato ardentemente potergli credere e la­sciarsi andare a una visione ottimista, ma gli oscuri germo­gli del dubbio sembravano spuntare continuamente dai semi gettati a Chicago. Negli angoli più remoti del para­diso che Wally stava descrivendo Hilary scorgeva i soliti, orrendi mostri a lei familiari. Era una fervente seguace della Legge di Murphy: Se c'è una cosa che può andar male, di certo bene non andrà.

  A ogni modo, l'entusiasmo di Wally era così contagioso e il suo tono così convinto, che Hilary riuscì a ritrovare un autentico e radioso sorriso nel suo calderone ribollente di emozioni confuse.

  "Così mi piaci," esclamò lui, raggiante. "Va molto me­glio. Hai un sorriso stupendo."

  "Cercherò di usarlo più spesso."

  "E io cercherò di concludere sempre il genere di affari che ti obbligheranno a usarlo più spesso."

  Continuarono a bere champagne, discussero L'Ora del Lupo, fecero progetti e risero come Hilary non ricordava di aver fatto per anni. Poco per volta, il suo umore migliorò. Un divo molto macho, la cui ultima pellicola aveva incas­sato oltre cinquanta milioni di dollari, fu il primo a fer­marsi al loro tavolo e a chiedere il motivo di un tale festeg­giamento. Sguardo assassino, labbra sottili, muscoli super e andatura spavalda, sullo schermo, nella vita di tutti i giorni era cordiale, facile alla risata e un pochino timido. Uno dei dirigenti di studios presenti in sala, tutto elegante e con lo sguardo furbo, cercò, prima in modo velato e poi sempre più apertamente, di scoprire la trama del film, nella spe­ranza di poter far fruttare la preziosa informazione per ben figurare in qualche settimanale televisivo di anteprime cinematografiche. Ben presto, la sala si animò e almeno metà dei presenti si fermarono davanti al tavolo numero tre per congratularsi con Hilary e Wally, allontanandosi poi rapi­damente per commentare le ragioni di tanto successo e chiedendosi quale sarebbe stata la percentuale dell'agente. Dopotutto, L'Ora del Lupo aveva bisogno di un produt­tore, di molti attori, di qualcuno che scrivesse la colonna sonora... Accanto al miglior tavolo della sala era tutto un susseguirsi di pacche sulle spalle, baci sulle guance e strette di mano.

  Hilary sapeva che la maggior parte dei frequentatori della Polo Lounge non erano in realtà i mercenari che da­vano l'impressione di essere. Molti di loro erano partiti dal niente: gente povera e affamata proprio come lei. Sebbene ormai avessero accumulato autentiche fortune e avessero investito il loro denaro in modo sicuro, non potevano vin­cere l'impulso di continuare a lottare. Ci erano abituati da anni e non avrebbero saputo vivere diversamente.

  L'immagine pubblica della vita di Hollywood era molto lontana dalla realtà. Segretarie, commessi, impiegati, tassi­sti, meccanici, casalinghe, camerieri: individui sparsi in tutto il paese che tornavano a casa ogni giorno distrutti dalla stanchezza, si sedevano di fronte alla televisione e sognavano di vivere come le star più famose. Secondo i luo­ghi comuni diffusi dalle Hawaii al Maine, dalla Florida fino in Alaska, Hollywood era un'effervescente miscela di feste esplosive, donne affascinanti, denaro facile, whisky a fiumi, cocaina a volontà, giornate di ozio, drink sui bordi delle pi­scine, vacanze ad Acapulco e Palm Springs e sesso sui sedili posteriori in pelle delle Rolls-Royce. Una fantasia. Un'illu­sione. Hilary era convinta che una società governata da capi corrotti e impotenti, una società basata su risparmi in­taccati dall'inflazione e dall'eccessiva tassazione e impau­rita dall'ombra di una totale distruzione nucleare, avesse bisogno di crearsi le proprie illusioni per riuscire a soprav­vivere. In realtà, le persone impegnate nell'industria cinematografica e televisiva lavoravano duramente proprio come qualsiasi altro cittadino, anche se spesso il risultato delle loro fatiche non era sufficiente a ricompensarle. La star di una serie televisiva di successo lavorava dall'alba al tramonto, spesso quattordici, sedici ore al giorno. Natural­mente, le ricompense erano enormi. Ma, in realtà, le feste non erano così esplosive, le donne non più facili delle casa­linghe di Filadelfia o Hackensack o Tampa, le giornate di ozio rare come per chiunque e il sesso esattamente lo stesso di quello praticato dalle segretarie di Boston e dalle com­messe di Pittsburgh.

  Wally alle sei e un quarto disse che doveva andarsene per arrivare puntuale a un appuntamento alle sette, mentre un paio di clienti nella Polo Lounge chiesero a Hilary di cenare con loro. Lei rifiutò, inventandosi un altro i
mpe­gno.

  Fuori dell'hotel, la serata autunnale era ancora luminosa e il cielo limpido era attraversato soltanto da poche nuvole alte. Il tramonto aveva colorato l'orizzonte di un biondo platino e l'aria era sorprendentemente fresca per Los Angeles. Due giovani coppie chiacchieravano e ridevano allegramente scendendo da una Cadillac blu e, poco più avanti, sul Sunset Boulevard, si udivano lo stridio delle gomme, il ruggito dei motori e il rumore dei clacson mentre l'ora di punta volgeva al termine e gli automobilisti cercavano di fare ritorno a casa sani e salvi.

  Mentre Hilary e Wally aspettavano che i valletti sorri­denti riportassero loro le vetture, l'uomo chiese: "Vai dav­vero a cena con qualcuno?"

  "Sì. Io, me stessa e me medesima."

  "Ascolta, se vuoi puoi venire con me."

  "La classica ospite non invitata."

  "Ma ti ho appena invitato."

  "Non voglio rovinare i tuoi piani."

  "Sciocchezze. Saresti un'aggiunta deliziosa."

  "A ogni modo, non ho il vestito adatto."

  "Secondo me stai benissimo."

  "Voglio stare da sola," confessò lei.

  "Come Greta Garbo: sei terribile. Vieni a cena con me. Per favore. È solo una serata informale a The Palm con un cliente e sua moglie. Un intraprendente giovane scrittore per la televisione. Gente simpatica."

  "Preferisco di no, Wally. Davvero."

  "Una donna splendida come te, in una notte come que­sta, con un valido motivo per festeggiare: ci vorrebbe una cena a lume di candela, una musica soft, del buon vino e una persona speciale con cui condividere tutto questo."

  Lei sorrise. "Wally, sei un inguaribile romantico!"

  "Dico sul serio."

  Gli appoggiò una mano sul braccio. "È gentile da parte tua preoccuparti per me, Wally, ma sto benissimo. Sono contenta di rimanere da sola. Sono un'ottima compagnia per me stessa. Avrò tutto il tempo di instaurare un rap­porto serio con un uomo, di andare a passare il fine setti­mana sulla neve ad Aspen e di trascorrere le serate chiac­chierando a The Palm, quando sarà terminato L'Ora del Lupo e quando sarà presentato nelle sale cinematografiche."

  Wally Topelis aggrottò la fronte. "Se non impari a rilas­sarti, non sopravvivrai a lungo in un ambiente ad alta pres­sione come questo. Nel giro di un paio di anni, sarai uno straccio, esaurita, a pezzi e completamente fusa. Devi cre­dermi, ragazzina; quando avrai bruciato l'energia fisica, ti renderai conto improvvisamente che anche l'energia men­tale e la forza creativa se ne saranno andate, evaporate."

  "Questo progetto è un vero toccasana per me," spiegò lei. "Dopo il film, la mia vita non sarà più la stessa."

  "Sono d'accordo, ma..."

  "Ho lavorato sodo, molto sodo, con questo unico obiet­tivo in testa. E devo ammetterlo: ero ossessionata dal la­voro. Ma quando avrò una certa reputazione come sceneggiatrice e come regista, mi sentirò più sicura. A quel punto sarò finalmente in grado di scacciare i miei demoni, i miei genitori, Chicago e tutti i brutti ricordi. Riuscirò a rilas­sarmi e condurrò una vita più normale. Ma per ora non posso fermarmi. Se dovessi rallentare, sono sicura che sarei perduta. O almeno è quello che credo, e in pratica è la stessa cosa."

  L'uomo sospirò. "Va bene. Ma ci saremmo divertiti un sacco a The Palm."

  Arrivò un valletto con la macchina.

  Hilary abbracciò Wally. "Probabilmente ti chiamerò do­mani, giusto per essere sicura che questo affare con la War­ner Brothers non è solo un sogno."

  "Ci vorrà qualche settimana per il contratto, ma non prevedo grossi problemi. Potremmo riparlarne la settimana prossima e a quel punto potrei organizzare un incontro ne­gli studios."

  Hilary gli diede un bacio, salì in macchina, allungò la mancia al valletto e si allontanò.

  Si diresse verso le colline, passò davanti alle ville miliardarie e ai giardini verdi e ben curati; svoltò a destra e poi a sinistra, guidando senza meta, cercando solo di rilassarsi: era una delle poche fughe che si concedeva. La maggior parte delle strade era avvolta nell'ombra rossastra gettata dai folti rami degli alberi; la notte cercava di infiltrarsi tra la luce del giorno che stentava ad andarsene e tra le palme, le querce, gli aceri, i cedri, i cipressi e i pini. Accese i fari e si mise a esplorare alcune nuove strade fino a quando, a poco a poco, il senso di frustrazione iniziò ad affievolirsi.

  Più tardi, quando la notte cadde sugli alberi, si fermò a un ristorante messicano sul La Cienega Boulevard. Pareti intonacate alla bell'e meglio. Fotografie di banditi messi­cani. L'odore pungente della salsa piccante dei tacos e delle tortillas di granturco. Cameriere con camiciole scol­late da contadina e gonne rosse a pieghe. Hilary mangiò enchiladas di formaggio, riso e fagioli. Il cibo aveva esatta­mente lo stesso sapore di quello che avrebbe potuto gu­stare a lume di candela, con una musica di sottofondo e qualcuno di veramente speciale al suo fianco.

  Devo ricordarmi di dirlo a Wally, pensò mentre annaf­fiava l'ultimo boccone di enchilada con un sorso di Dos Equis, una birra messicana scura.

  Ma quando ci ripensò meglio le parve di udire il suo commento: "Agnellino mio, è solo un vano tentativo di razionalizzazione psicologica. È vero che la solitudine non può cambiare il gusto del cibo, così come l'effetto delle candele e il suono della musica non lo possono migliorare, ma questo non significa che la solitudine sia auspicabile, buona o salutare." Sicuramente non avrebbe resistito alla tentazione di lanciarsi in una filippica sul valore della vita: non sarebbe stato facile rimanere ad ascoltarlo anche se, ne era certa, le sue parole sarebbero state sensate.

  È meglio non parlargliene, si disse. Inutile imbarcarsi in quelle discussioni con Wally Topelis.

  Risalì in macchina, allacciò la cintura di sicurezza, accese il motore e la radio e rimase seduta per un attimo, osser­vando il traffico su La Cienega. Era il suo compleanno. Compiva ventinove anni. E nonostante il fatto che quella data fosse stata riportata anche nella colonna di Hank Grant dell'Hollywood Reporter, sembrava che fosse l'unica persona al mondo a preoccuparsene. Be', andava bene lo stesso. Era una persona solitaria. Era sempre stata solitaria. Non aveva forse detto a Wally che si sentiva perfettamente a suo agio in compagnia di se stessa?

  Le macchine continuavano a scorrere in un flusso inter­minabile, piene di persone che si stavano recando da qual­che parte a fare qualcosa: perlopiù erano coppie.

  Non aveva voglia di tornare subito a casa, ma non aveva un altro posto dove andare.

  La casa era immersa nell'oscurità.

  La luce del lampione gettava un'ombra bluastra sul prato.

  Hilary parcheggiò la macchina nel box e si avviò verso la porta d'ingresso. Sul sentiero lo scalpiccio dei suoi tacchi risuonò in modo sinistro.

  La temperatura era mite. Sebbene il sole fosse ormai tra­montato, l'aria era ancora calda e la fresca brezza marina che soffiava per tutto l'anno sulla città non aveva ancora portato con sé la pungente aria autunnale; comunque più tardi, verso la mezzanotte, la temperatura si sarebbe abbassata.

  I grilli frinivano tra le siepi.

  Hilary entrò in casa, accese la luce dell'ingresso e chiuse la porta. Illuminò anche il soggiorno. Si era allontanata dall'ingresso di pochi passi quando alle sue spalle avvertì un rumore e si girò.

  Un uomo sgusciò dall'armadio dell'ingresso, facendo cadere un cappotto dalla gruccia. L'anta dell'armadio sbattè con violenza contro il muro. Era un uomo molto alto sulla quarantina e indossava un paio di pantaloni scuri, un ma­glione aderente giallo e dei guanti di pelle. I muscoli sodi e possenti testimoniavano anni di sollevamento pesi; persino i polsi, visibili fra il polsino del maglione e i guanti, erano nerboruti. L'uomo si fermò a pochi metri da Hilary, sog­ghignò, ammiccò e si passò la lingua sulle labbra sottili.

  Hilary non sapeva come reagire di fronte a quell'improv­visa apparizione. Quell'uomo non era un normale intruso, né un completo sconosciuto e neanche un punk o un per­vertito con gli occhi offuscati dalla droga. Sebbene non fosse di quelle parti, Hilary lo conosceva ed era l'ultima persona al mondo che si sarebbe aspettata di incontrare in una situazione simile. Veder spunt
are dall'armadio il pic­colo e gentile Wally Topelis sarebbe stata l'unica cosa in grado di scioccarla ancora di più. Era più confusa che spa­ventata. Aveva conosciuto quell'uomo tre settimane prima quando, alla ricerca di un set sul quale ambientare la sua sceneggiatura, si era recata nella zona dei vigneti, nella California settentrionale. Era stato un viaggio intrapreso per togliersi dalla mente il lancio di L'Ora del Lupo, il lavoro che aveva appena terminato e di cui si stava occupando Wally. A Napa Valley era un uomo importante e di suc­cesso. Ma tutto ciò non spiegava che cosa diavolo ci facesse quell'uomo nascosto nell'armadio in casa sua.

  "Mr Frye!" esclamò agitata.

  "Ciao, Hilary." Quando Hilary aveva visitato le vigne di Frye vicino a St. Helena, il timbro profondo della sua voce le era sembrato rassicurante, quasi paterno, ma ora sem­brava rauco, malvagio e minaccioso.

  Lei si schiarì nervosamente la voce. "Che cosa ci fa qua?"

  "Sono venuto a trovarti."

  "Perché?"

  "Dovevo rivederti."

  "E per quale motivo?"

  L'uomo stava ancora sorridendo. Aveva uno sguardo inquietante, da predatore. Il suo era il ghigno del lupo prima di chiudere le fauci sul coniglio indifeso.

  "Come ha fatto a entrare?" domandò Hilary.

  "Bella."

  "Che cosa sta dicendo?"

  "Sei così bella."

  "La smetta."

  "Stavo proprio cercando una come te."

  "Mi fa paura."

  "Sei veramente molto bella."

  Fece un passo verso di lei. In quel momento Hilary capì che cosa voleva quell'uomo. Ma era assurdo, impossibile. Perché mai un uomo della sua levatura sociale avrebbe do­vuto percorrere migliaia di chilometri e rischiare ricchezza, reputazione e libertà per un breve attimo di sesso strappato con la forza?

  Fece un altro passo.

  Hilary si allontanò.

  Violentata. Non era possibile. A meno che... Se aveva in­tenzione di ucciderla dopo la violenza, allora quell'uomo non avrebbe corso un grande rischio. Indossava i guanti. Non avrebbe lasciato impronte, nessuna traccia. E nessuno avrebbe creduto che un famoso e rispettato viticultore di St. Helena si fosse fatto tutti quei chilometri fino a Los Angeles per stuprare e assassinare una donna. E anche se qualcuno l'avesse ritenuto possibile, nessuno avrebbe mai pensato a Frye. La polizia non sarebbe mai arrivata a lui.

 

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