Sussurri

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Sussurri Page 12

by Dean Koontz


  L'uomo all'altro capo del filo rimase ad ascoltare senza interromperlo e alla fine commentò: "Mi occuperò io della polizia."

  Parlarono per un altro paio di minuti e alla fine Frye riappese. Uscì dalla cabina e si fermò un istante a guarda­re sospettoso l'oscurità e le spire di nebbia. Katherine non poteva averlo seguito, ciononostante il fatto di trovar­si al buio, da solo, lo riempiva di terrore. Era un uomo grande e grosso. Non avrebbe dovuto aver paura delle donne. Invece era proprio così. Aveva paura di colei che non voleva morire, di colei che ora si faceva chiamare Hi­lary Thomas.

  Tornò dietro il volante del suo furgoncino dove rimase per qualche minuto prima di rendersi conto che aveva fame. Stava morendo di fame. Lo stomaco brontolava. Era dall'ora di pranzo che non mangiava nulla. Conosceva Ma­rina Del Rey quel tanto che bastava per sapere che non c'e­rano ristoranti decenti a portata di mano. Si diresse verso sud sulla Pacific Coast Highway, sul Culver Boulevard, poi svoltò a sinistra e proseguì di nuovo verso sud, in direzione di Vista Del Mar. Dovette procedere con cautela, per via della nebbia sempre più fitta che rifletteva la luce dei fari, riducendo così la visibilità a pochi metri. Gli sembrava di guidare sott'acqua, in un oceano fosforescente e tenebroso.

  Una ventina di minuti dopo la telefonata a Napa County (e più o meno mentre lo sceriffo Laurenski stava scartabel­lando alcune pratiche per conto della polizia di Los Angeles) Frye riuscì a trovare un ristorante allettante lungo il ci­glio settentrionale di El Segundo. L'insegna rossa e gialla trafiggeva la cortina nebbiosa: GARRIDO'S. Era un locale messicano, ma non una delle solite bettole norte-americana fatte di vetro e cromature dove servivano imitazioni di comida. Quello sembrava genuinamente messicano. Accostò e andò a posteggiare fra due macchine truccate dotate di sol­levatori idraulici, estremamente popolari fra i giovani mes­sicani. Dirigendosi verso l'ingresso passò davanti a un'auto che sfoggiava un adesivo di POTERE AI MESSICANI e un se­condo di SOSTENITORE DEL SINDACATO DEGLI AGRICOLTORI. Frye sentiva già il profumo delle enchiladas.

  All'interno, Garrido's aveva più l'aspetto di un bar che di un ristorante, ma l'aria che si respirava era impregnata della fragranza tipica della buona cucina messicana. Sulla sinistra c'era il bancone, in legno macchiato e sgretolato, che occupava un intero lato della sala. Una decina di uo­mini e due graziose señoritas sedevano sugli sgabelli appog­giati al bar e discorrevano in spagnolo. Al centro della sala era disposta un'unica fila di tavoli ricoperti da tovaglie rosse. Erano tutti occupati da gente che beveva e mangiava avidamente. Sulla destra, contro la parete, si aprivano al­cuni séparé rivestiti in finta pelle e Frye si accomodò in uno di questi.

  La cameriera che si affrettò verso il suo tavolo era bassa, praticamente più larga che alta, con una faccia rotonda e incredibilmente carina. Cercando di superare la voce dolce e lamentosa di Freddie Fender che proveniva dal juke box, domandò a Frye che cosa desiderava mangiare e annotò l'ordinazione: una doppia porzione di chili e due bottiglie di Dos Equis gelata.

  Frye indossava ancora i guanti di pelle; se li sfilò e in­trecciò le mani.

  A parte una biondina seduta in compagnia di uno stal­lone messicano baffuto, Frye era l'unico a non avere sangue messicano nelle vene. Sapeva di essere osservato, ma non gliene importava nulla.

  La cameriera gli servì immediatamente la birra. Frye ignorò il bicchiere e si portò la bottiglia alle labbra. Chiuse gli occhi, rovesciò la testa all'indietro e trangugiò a canna. In meno di un minuto aveva scolato la bottiglia. Consumò la seconda con meno fretta, ma la finì comunque prima dell'arrivo della cena. Ordinò altre due Dos Equis.

  Bruno Frye mangiò con voracità e concentrazione asso­lute, riluttante o incapace di alzare gli occhi dal piatto, in­curante di tutta la gente che lo circondava e con la testa ab­bassata per ingurgitare i bocconi con la frenesia di un affa­mato sgraziato. Emettendo mormorii di approvazione, con­tinuò a portarsi forchettate di chili alla bocca, a trangugiare con voracità, a masticare velocemente e rumorosamente con le guance rigonfie. Gli servirono anche un piatto di tortillas che utilizzò per raccogliere la deliziosa salsa rima­sta nel piatto. Innaffiò il cibo con abbondanti sorsate di birra ghiacciata.

  Quando la cameriera passò per chiedergli se andava tutto bene, si accorse immediatamente dell'inutilità della do­manda. Frye alzò lo sguardo leggermente annebbiato verso di lei. Con una voce che sembrava venire da lontano ordinò due tacos di manzo, un paio di enchiladas al formaggio, riso, fagioli e altre due bottiglie di birra. La cameriera strabuzzò gli occhi ma era troppo gentile per fare commenti.

  Finì il chili prima che potesse servirgli la seconda parte dell'ordinazione, ma, anche con il piatto pulito sotto gli oc­chi, non riuscì a uscire dallo stato di trance. Su ogni tavolo c'era una ciotola colma di tacos e Frye afferrò la sua. In­tinse alcuni tacos nella salsa piccante, se li infilò in bocca e iniziò a masticare rumorosamente con espressione deli­ziata. Quando arrivò la cameriera con gli altri piatti e le birre, riuscì a mormorare due parole di ringraziamento prima di tuffarsi sull'enchilada al formaggio. Finì i tacos e le altre portate. Sul collo prese a pulsargli vistosamente una vena. Anche la fronte era attraversata da vene in rilievo. Il viso era ricoperto da un leggero strato di sudore che cominciava a colargli anche dall'attaccatura dei capelli. Alla fine, ingoiò l'ultimo boccone di fagioli, lo innaffiò con la birra e spostò di lato i piatti ormai vuoti. Per un po' rimase seduto con una mano appoggiata sulla gamba e l'altra stretta intorno alla bottiglia a fissare un punto nel vuoto. Lentamente, il sudore evaporò e la musica del juke box co­minciò a distrarlo: era un altro brano di Freddie Fender.

  Riprese a sorseggiare la birra, mentre osservava gli altri commensali, dimostrando per la prima volta un certo inte­resse. La sua attenzione venne attirata da un gruppo seduto al tavolo vicino all'ingresso. Due coppiette. Ragazze ca­rine. Giovani attraenti e scuri. Erano tutti sulla ventina. I ragazzi stavano cercando di far colpo sulle donne, facendo i galletti, forse anche troppo, nel tentativo di impressionare le gallinelle.

  Frye decise di divertirsi un po' con loro. Rifletté cer­cando di trovare un modo per iniziare, mentre sorrideva al­l'idea della scena che avrebbe provocato.

  Chiese il conto alla cameriera e pagò con alcune banco­note aggiungendo: "Tenga pure il resto."

  "Lei è molto generoso," lo ringraziò, sorridendo e conti­nuando ad annuire mentre tornava al registratore di cassa.

  Frye si infilò i guanti di pelle.

  Scivolando fuori del séparé, prese la sesta bottiglia di birra che era rimasta semipiena. Si diresse verso l'uscita e finse di inciampare in una sedia mentre passava davanti alle coppiette che avevano attirato la sua attenzione. Vacillò un po', riprese agilmente l'equilibrio e si sporse sul tavolo dei quattro ragazzi che lo guardarono sorpresi, mettendo bene in mostra la bottiglia di birra per dare l'impressione di es­sere ubriaco.

  Cercò di tenere la voce bassa per evitare che gli altri commensali si accorgessero della scenetta che stava met­tendo in piedi. Sapeva di poterne affrontare due, ma non voleva che gli si rivoltasse contro un esercito. Con l'occhio offuscato sbirciò il più muscoloso dei due, gli lanciò un sor­riso subito smorzato dal ringhio che emise per parlare. "Tieni quella sedia del cazzo al suo posto, imbecille."

  Il ragazzo lo stava guardando sorridente, in attesa che si scusasse. Dopo l'insulto strinse gli occhi e il sorriso gli si congelò sulle labbra.

  Prima che potesse alzarsi, Frye si voltò di scatto verso l'altro ragazzo: "Perché non siete usciti con qualche strafiga come quella bionda laggiù? Che cosa pensate di poter fare con due passere raggrinzite come queste?"

  E si diresse immediatamente verso l'uscita, per evitare che la rissa iniziasse nel ristorante. Ridacchiando, spinse la porta, uscì vacillante nella nebbia della notte e si affrettò verso il posteggio dall'altra parte della strada.

  Era quasi arrivato al furgoncino, quando uno dei due ra­gazzi che si era lasciato alle spalle gli gridò con un forte ac­cento spagnolo: "Ehi! Aspetta un attimo, amico!"

  Frye si voltò, continuando a fing
ere di essere ubriaco; vacillava e oscillava come se la terra gli stesse scivolando sotto i piedi. "Che cosa c'è?" domandò con aria stupida.

  I due ragazzi si fermarono l'uno di fianco all'altro: due apparizioni nella nebbia. Il più muscoloso cominciò a par­lare: "Ehi, che cosa diavolo credi di poter fare, amico?"

  "State cercando guai?" ribattè Frye, biascicando le pa­role.

  "Cerdo!" esclamò sempre lo stesso.

  "Mugriento cerdo!" fece eco il più magro.

  "Perdio, smettete di parlare quella cazzo di lingua da scimmie con me. Se dovete dirmi qualcosa, parlate in in­glese."

  "Miguel ti ha dato del porco," tradusse il magro. "E io ho aggiunto che sei uno sporco maiale."

  Frye sorrise e fece un gesto osceno.

  Miguel cominciò a caricare e Frye restò immobile, come se non l'avesse nemmeno notato. Miguel si stava avvici­nando a capo chino, con i pugni stretti e le braccia lungo i fianchi. Appioppò due colpi secchi e veloci al torace di ferro di Frye. Le mani di granito del ragazzo emisero un rumore sordo, ma Frye accusò i colpi senza battere ciglio. Te­neva ancora in mano la bottiglia che mandò in frantumi sulla testa di Miguel. Il vetro esplose e i cocci caddero sull'asfalto del parcheggio con suoni dissonanti. La schiuma della birra si riversò su entrambi. Miguel si accasciò sulle ginocchia, gemendo come se fosse stato colpito da una scure. "Pablo," chiamò. Afferrando la testa del ragazzo con entrambe le mani, Frye tenne ben salda la presa e conficcò una ginocchiata nel mento della sua vittima. I denti di Mi­guel si chiusero con un suono secco. Frye lo lasciò andare e il ragazzo cadde di lato, ormai privo di conoscenza, con il fiato che cercava di uscire dalle narici insanguinate.

  Mentre Miguel si accasciava sul marciapiede umido, Pablo si avventò su Frye. Aveva un coltello: un'arma lunga e sottile, con tutta probabilità a serramanico, affilata su en­trambi i lati come un rasoio. Il magro non aveva la potenza del suo compagno. Si muoveva con la rapidità e la grazia di un ballerino e lanciava colpi a vuoto con la velocità di un lampo, alla ricerca di un'occasione favorevole, nel tentativo di sfruttare il momento opportuno. Il coltello andava e ve­niva e se Frye non fosse arretrato di scatto, gli avrebbe squarciato la pancia. Pablo si spinse in avanti, senza smettere di agitare il coltello. Indietreggiando, Frye cercò di studiare il modo con cui Pablo usava l'arma e quando ar­rivò a toccare il furgoncino, aveva già capito come fare per liberarsi di lui. Diversamente da chi era esperto nel maneg­giare i coltelli, Pablo agitava la mano con passate lunghe e complete; questo significava che, dopo che la lama era ba­lenata davanti a Frye, gli restava qualche secondo prima che tornasse indietro. In quegli istanti, il coltello non costi­tuiva una minaccia e Pablo diventava vulnerabile. Mentre Pablo stava per affondare il colpo letale, ormai convinto che la sua preda non potesse più sfuggirgli, Frye calcolò la lunghezza del movimento e reagì al momento giusto. Af­ferrò il polso del ragazzo, lo strinse e lo ritorse, ripiegan­dolo all'indietro. Pablo ululò dal dolore e lasciò cadere il coltello. Frye si accostò al ragazzo, l'afferrò per il collo e gli conficcò la testa nella fiancata posteriore del furgon­cino. Gli torse con più forza il braccio, facendogli toccare le scapole con la mano: sembrava volesse staccarsi da un momento all'altro. Con la mano libera, Frye afferrò il ragazzo per il sedere e lo sollevò da terra prima di mandarlo a sbattere una seconda volta contro il furgoncino, poi una terza, una quarta, una quinta, una sesta, finché non lo sentì più gridare. Lasciò andare Pablo che cadde per terra come un pesante sacco di patate.

  Miguel si era raddrizzato sulle ginocchia, appoggiandosi sulle mani. Sputava sangue e frammenti di denti sul maca­dam nero.

  Frye si diresse verso di lui.

  "Stai cercando di rialzarti, amico?"

  Ridendo sommessamente, gli schiacciò le mani, affondò il tacco sulla mano del ragazzo e poi si ritrasse.

  Miguel emise un ululato e cadde di fianco.

  Frye gli diede un calcio nella coscia.

  Miguel non perse i sensi, ma chiuse gli occhi, auguran­dosi che quell'uomo se ne andasse.

  Frye si sentì attraversare da una scossa di elettricità di milioni di volt che scorreva da una sinapsi all'altra, calda, crepitante e scintillante. Non era una sensazione dolorosa, ma un'esperienza selvaggia ed esaltante, come se fosse ap­pena stato toccato dallo Spirito Santo in persona e si sentisse colmo di una splendida luce brillante e sacra.

  Miguel riaprì gli occhi rigonfi.

  "Ti è passata la voglia di fare a botte?" gli domandò Frye.

  "Ti prego," riuscì a proferire Miguel fra i denti spezzati e le labbra rotte.

  Al settimo cielo, Frye appoggiò un piede sulla gola di Miguel e lo costrinse a rotolare su un fianco.

  "Ti prego."

  Frye tolse il piede dalla gola.

  "Ti prego."

  Ebbro della sensazione di potere, Frye si sentì fluttuare nell'aria e inferse un calcio nel costato di Miguel. Il ra­gazzo quasi soffocò dal dolore.

  Ridendo a crepapelle, Frye continuò a scalciare ripetutamente finché udì il rumore secco di un paio di costole che si fratturavano. A quel punto, Miguel fece ciò che, con grande orgoglio, era riuscito a evitare negli ultimi minuti. Cominciò a piangere.

  Frye tornò al furgoncino.

  Pablo era sempre per terra, vicino alle ruote posteriori, disteso sulla schiena in stato di incoscienza.

  Approvando ad alta voce ciò che stava per fare, Frye prese a calci anche Pablo sui polpacci, sulle ginocchia, sulle cosce, sui fianchi e sulle costole.

  Dalla strada stava arrivando una macchina, ma l'autista si accorse della scena e decise che era meglio non immi­schiarsi. Ingranò la retromarcia, fece inversione e se ne andò con uno stridio di gomme.

  Frye trascinò Pablo vicino a Miguel e allineò i due ra­gazzi ordinatamente per far strada al furgoncino. Non in­tendeva investire nessuno. Non intendeva uccidere nes­suno. Erano troppe le persone che l'avevano notato nel ri­storante. Le autorità non si sarebbero preoccupate di ac­ciuffare il trionfatore di una normale rissa da strada, soprat­tutto in considerazione del fatto che erano state le due vit­time a lanciarsi contro un solo uomo. Ma la polizia avrebbe sicuramente dato la caccia a un assassino, ed era quindi il caso di fare in modo che i due ragazzi sopravvivessero.

  Fischiettando allegramente, girò in direzione di Marina Del Rey e si fermò alla prima stazione di servizio aperta. Mentre il benzinaio era impegnato a fare il pieno, control­lare il livello dell'olio e pulire il parabrezza, Frye andò al gabinetto. Si era portato appresso l'occorrente per fare la barba e si diede una rinfrescata.

  Durante i viaggi, dormiva sempre nel furgoncino che non offriva certo i comfort di un camper vero e proprio: per esempio, non era dotato di acqua corrente. D'altra parte, era più maneggevole, dava meno nell'occhio ed era molto più anonimo di un camper. Per godere dei vantaggi di una casa viaggiante vera e propria avrebbe dovuto fer­marsi tutte le sere in un campeggio, noleggiare gli allaccia­menti alla fognatura, alla luce elettrica e alla distribuzione idrica, lasciando quindi nome completo e indirizzo ovunque andasse. Sarebbe stato troppo rischioso. Con una roulotte, avrebbe lasciato una traccia riconoscibile anche dal più malandato fra i cani poliziotto e lo stesso sarebbe stato con gli alberghi. Quando la polizia avesse cominciato a ri­cercarlo, senza alcun dubbio gli impiegati alla reception avrebbero ricordato quell'uomo alto, incredibilmente mu­scoloso e con gli occhi azzurri penetranti.

  Nel bagno, si sfilò i guanti e si tolse il maglione giallo, si lavò il torace e le ascelle con fazzolettini inumiditi e sapone liquido, si spruzzò una buona dose di deodorante e alla fine si rivestì. Aveva la mania dell'igiene: gli piaceva essere sempre pulito e profumato.

  Quando si sentiva sporco, stava male e si deprimeva, ar­rivando persino ad avere paura. Era come se la sporcizia gli riportasse alla memoria chissà quale esperienza da tempo dimenticata, chissà quale ricordo agghiacciante, facendo­glielo rivivere in modo confuso. Le poche volte che era an­dato a dormire senza lavarsi, i suoi incubi erano stati anche peggiori del solito e si era svegliato urlando di terrore. E anche
se in quelle rare occasioni non riusciva a ricordare con precisione il sogno, aveva sempre avuto la sensazione di essere intrappolato in un posto lurido, buio, chiuso, come una fossa scavata sotto terra.

  Era proprio per evitare un altro incubo di quel genere che era andato a lavarsi nei gabinetti pubblici, si era fatto la barba con un rasoio elettrico, si era tamponato le guance con un dopobarba, si era lavato i denti e si era scaricato. La mattina seguente, si sarebbe fermato in un'altra stazione di servizio a ripetere le stesse procedure, indossando vestiti puliti.

  Pagò il benzinaio e tornò verso Marina Del Rey, facen­dosi strada nella nebbia sempre più fitta. Posteggiò il fur­gone sullo stesso molo da cui aveva telefonato a Napa County. Uscì all'aria aperta e si diresse verso la cabina tele­fonica, dove compose lo stesso numero di poche ore prima.

  "Pronto?"

  "Sono io," rispose Frye.

  "Il peggio è passato."

  "Ha chiamato la polizia?"

  "Sì."

  Parlarono per un paio di minuti, poi Frye tornò al fur­goncino. Spiegò il materasso nella parte posteriore e accese la torcia che teneva sempre in macchina. Non sopportava il buio completo. Non riusciva a prendere sonno senza uno spiraglio di luce che filtrava da sotto la porta o anche un lumicino che bruciava nella notte. Nell'oscurità iniziava a immaginare strane creature che gli strisciavano addosso, che gli balzavano sulla faccia, che stridevano sulla sua pelle. Senza luce, veniva assalito da sussurri appena accen­nati ma minacciosi che gli capitava di udire anche qualche secondo dopo là fine dell'incubo. Sussurri agghiaccianti che gli facevano contorcere le budella e sobbalzare il cuore.

  Se fosse riuscito a identificare la fonte di quei sussurri o comunque a capire quello che cercavano di dirgli, avrebbe compreso meglio anche i suoi incubi. Sarebbe venuto a co­noscenza della causa di quei sogni ricorrenti, del suo ter­rore e forse sarebbe stato capace di liberarsi di quella pri­gionia.

 

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