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Sussurri

Page 26

by Dean Koontz


  "Splendido," commentò Frank.

  Tucker stava per dirigersi al telefono della cucina quando si fermò di colpo e si voltò a guardarli. "Potreb­bero volerci un paio di minuti. Se volete approfittarne per dare un'occhiata ai miei disegni, potete andare nello stu­dio." E indicò la porta che si apriva sul salotto.

  "Certo," accettò Tony. "Io li guardo volentieri."

  Insieme con Frank si diresse nello studio, ancora più vuoto del salotto. C'erano un costosissimo tavolo da dise­gno con una lampada, uno sgabello con il sedile imbottito, un raccoglitore a molla sul tavolo e un contenitore su ro­telle per gli arnesi dell'artista. Accanto a una delle finestre posava un manichino con la testa timidamente inclinata e le braccia spalancate; ai suoi piedi giacevano pezzi di stoffa. Non c'erano scaffali, né armadietti; per terra, lungo la pa­rete, erano allineati mucchi di schizzi e blocchi da disegno, insieme con gli attrezzi da lavoro. Era evidente che Eugene Tucker nutriva la ferma convinzione di riuscire, prima o poi, ad ammobiliare l'intera casa con pezzi di arredamento dello stesso valore di quelli del salotto. Nel frattempo, senza curarsi della scomodità, non intendeva sprecare soldi in mobili provvisori da quattro soldi.

  La quintessenza dell'ottimismo californiano, pensò Tony.

  A una parete erano stati appesi alcuni schizzi a matita e altri a colori, frutto dell'opera di Tucker. I suoi vestiti erano perfetti, morbidi, femminili ma non frivoli. Era do­tato di un eccezionale senso del colore e del tocco, capace di rendere speciale un vestito con un dettaglio azzeccato. I disegni rivelavano chiaramente un gran talento.

  A Tony risultava ancora difficile credere che quel nero grande e grosso potesse guadagnarsi da vivere disegnando vestiti da donna. Ma si rese conto di avere anche lui, come Tucker, una doppia personalità. Durante il giorno faceva il detective per la Omicidi, insensibile e indurito dalla violenza con la quale aveva imparato a convivere, ma di sera diventava un artista e si curvava sulle tele per dipingere senza sosta. In un certo senso, si sentiva molto simile a Eu­gene.

  Mentre i due detective stavano osservando l'ultimo degli schizzi, fece ritorno Tucker. "Allora, che cosa ne dite?"

  "Meravigliosi," esclamò Tony. "Dimostra di avere un ot­timo gusto per i colori e per le linee."

  "Davvero in gamba," aggiunse Frank.

  "Lo so," ammise Tucker ridendo.

  "Alla Self-Pride c'è la pratica di Valdez?" domandò Tony.

  "Sì. Ma adesso si chiama Ortiz, come pensavo. Jimmy Ortiz. Dalle informazioni che siamo riusciti a raccogliere sembra che più che altro spacci polvere d'angelo. Mi rendo conto di non essere la persona più adatta a puntare un dito accusatore nei confronti di qualcuno ma, per quanto mi riguarda, chi spaccia quel genere di droga è il bastardo più pericoloso che possa esistere sul mercato. Insomma, quella polvere è un autentico veleno. Si beve le cellule cerebrali a una velocità impressionante. Non abbiamo ancora informa­zioni sufficienti per passare la pratica alla polizia, ma ci stiamo lavorando sopra."

  "L'indirizzo?" domandò Tony.

  Tucker gli allungò un foglietto di carta sul quale aveva annotato l'indirizzo in bella scrittura. "È un elegante quar­tiere residenziale poco più a sud del Sunset, a un paio di isolati da La Cienega."

  "Lo troveremo," assicurò Tony.

  "A giudicare da ciò che mi avete detto," riprese Tucker, "e da quello che siamo venuti a sapere noi alla Self-Pride, direi che questo non è il genere di criminale capace di ria­bilitarsi. Sarebbe meglio farlo sparire dalla circolazione per un bel po'!"

  "È quello che stiamo cercando di fare," spiegò Frank.

  Tucker li riaccompagnò alla porta d'ingresso e uscì sulla veranda che offriva uno splendido panorama di Los Angeles. "Non è meraviglioso?" chiese Tucker. "Non è unico?"

  "Davvero incredibile," ammise Tony.

  "È una città eccezionale," riprese Tucker, colmo di orgo­glio e affetto, come se fosse stato lui a creare quella metro­poli. "Ho sentito dire che i burocrati di Washington hanno portato a termine uno studio sul trasporto di massa per Los Angeles. Intendevano farci digerire qualcuna delle loro idee, ma hanno scoperto che la costruzione di una rete fer­roviaria ad alta velocità sarebbe costata qualcosa come cento miliardi di dollari, per trasportare solo il dieci per cento dei passeggeri in transito ogni giorno. Non si sono ancora resi conto dell'estensione di queste zone." Ormai era in brodo di giuggiole, con il faccione illuminato dal pia­cere e le mani impegnate a gesticolare. "Non hanno ancora capito che Los Angeles significa spazio. Spazio, mobilità e libertà. Questa città ha bisogno di potersi muovere, sia fisi­camente sia spiritualmente. Anche psicologicamente. A Los Angeles esiste la possibilità di fare praticamente tutto. Qui è possibile prendere in mano il proprio futuro e modellar­selo su misura. E fantastico. Amo questa città. Dio, quanto la amo!"

  Tony rimase talmente colpito dai sentimenti di Tucker che decise di svelargli il suo sogno segreto. "Mi sarebbe piaciuto fare l'artista e guadagnarmi da vivere con l'arte. Dipingo."

  "E allora perché fa il poliziotto?" gli chiese Tucker.

  "Perché lo stipendio è sicuro."

  "Al rogo gli stipendi sicuri."

  "Ma me la cavo bene con il mio lavoro e non mi di­spiace."

  "Se la cava bene anche con l'arte?"

  "Credo di sì."

  "E allora lasci perdere. Amico, qui siamo alle frontiere del mondo occidentale, al limite delle possibilità. Bisogna buttarsi. Bisogna decollare. È una sensazione da brivido e il fondo è talmente lontano che difficilmente ci si sfracella. Al contrario, forse anche lei riuscirà a fare come me. Forse anche lei non cadrà. Per me è stato come cadere all'insù!"

  I due investigatori si diressero verso il vialetto, oltre una siepe verde giada piena di foglie grasse e succose. La mac­china era parcheggiata all'ombra di un'imponente palma da datteri. Mentre Tony apriva la portiera, Tucker gli urlò dalla veranda: "Si butti! Si butti e cominci a volare!"

  "Davvero un bel tipo," commentò Frank mentre si allon­tanavano dalla villetta.

  "Già," ammise Tony, domandandosi che sensazione si provasse a volare.

  Mentre si dirigevano all'indirizzo fornito da Tucker, Frank riprese a sproloquiare di Janet Yamada. Ancora im­bevuto dei consigli di Eugene Tucker, Tony gli prestò poca attenzione. Ma Frank non se ne accorse nemmeno. Quando parlava di Janet Yamada, non tentava nemmeno di intavolare una conversazione: si limitava al soliloquio.

  Un quarto d'ora più tardi trovarono il condominio dove abitava Jimmy Ortiz. Il parcheggio sotterraneo era protetto da un cancello di ferro che si apriva con un comando elet­tronico e quindi non riuscirono a controllare se c'era una Jaguar nera.

  Gli appartamenti erano disposti su due piani, con le scale e i passaggi all'aperto. Il complesso si affacciava su una piscina gigantesca e su un parco lussureggiante. C'era persino una vasca per l'idromassaggio accanto alla quale due ragazze in bikini e un giovanotto erano intenti a sor­seggiare un martini fra una risata e l'altra, mentre dal vor­tice d'acqua sottostante esalavano i fumi del vapore.

  Frank si fermò sul bordo della Jacuzzi e chiese dove abi­tava Jimmy Ortiz.

  Una delle ragazze cinguettò: "È quel ragazzo carino con i baffi?"

  "Con un viso da bambino," precisò Tony.

  "È lui," esclamò la ragazza.

  "Adesso ha i baffi?"

  "Sempre che sia lo stesso. Quello che dico io guida una Jaguar stupenda."

  "È lui," sbottò Frank.

  "Credo che abiti lassù," proseguì la ragazza, "nell'edi­ficio quattro, al secondo piano, proprio in fondo."

  "È in casa?" domandò Frank.

  Nessuno seppe rispondere.

  Tony e Frank raggiunsero l'edifìcio quattro e salirono al secondo piano. Un balcone correva lungo i quattro appar­tamenti che si affacciavano sul cortile. Di fronte alle prime tre porte erano stati sistemati vasi di edera e altre piante rampicanti per regalare un po' di verde anche al secondo piano, sprovvisto di giardino. Ma non c'era niente davanti all'ultimo appartamento.

  La porta era socchiusa.

  Tony incrociò
lo sguardo di Frank. Entrambi avevano l'aria preoccupata.

  Perché la porta era socchiusa?

  Forse Bobby sapeva che stavano arrivando?

  Si sistemarono ai lati dell'ingresso e rimasero in attesa, con le orecchie tese.

  Si udivano solo le voci dei ragazzi vicino alla Jacuzzi.

  Frank alzò un sopracciglio, con aria interrogativa.

  Tony indicò il campanello.

  Dopo un attimo di esitazione Frank lo premette.

  All'interno si udì uno scampanellio.

  Rimasero in attesa, gli occhi fissi sulla porta.

  Improvvisamente l'aria sembrò farsi immobile e incredi­bilmente pesante. Umida. Spessa. Sciropposa. Tony faceva fatica a respirare: era come se stesse inalando dei fluidi.

  Nessuna risposta.

  Frank suonò di nuovo.

  Ancora niente. Tony infilò la mano sotto la giacca e af­ferrò la rivoltella. Si sentiva debole. Aveva lo stomaco in subbuglio.

  Frank estrasse la pistola, tese l'orecchio per individuare eventuali movimenti all'interno e spalancò la porta con un calcio.

  L'ingresso era deserto.

  Tony si sporse per controllare. La parte del soggiorno che riusciva a intravedere era immersa nella penombra. Le tende erano tirate e non si vedeva alcuna luce.

  Tony gridò: "Polizia!"

  La sua voce risuonò lungo il balcone.

  Un uccellino si mise a cinguettare fra i rami di un ulivo.

  "Vieni fuori con le mani alzate, Bobby!"

  Dalla strada si udì il clacson di un'auto.

  In un altro appartamento squillò il telefono, appena per­cettibile.

  "Bobby!" urlò Frank. "Hai sentito quello che ha detto? Siamo della polizia. Ormai è finita. Vieni fuori subito. Co­raggio! Muoviti!"

  Nel giardino i ragazzi erano ammutoliti. Tony ebbe la sensazione che gli occupanti degli altri appartamenti stessero scivolando silenziosamente verso le fi­nestre per sbirciare fuori.

  Frank alzò il tono della voce: "Non vogliamo farti del male, Bobby!"

  "Dagli retta!" gli suggerì Tony. "Non costringerci a usare la forza. Vieni fuori senza fare storie." Bobby non rispose.

  "Se fosse in casa," mormorò Frank, "almeno ci mande­rebbe affanculo."

  "E adesso?" domandò Tony.

  "Cristo, non mi va per un cazzo. Forse è il caso di chia­mare una squadra di rinforzo." "Probabilmente non è armato." "Stai scherzando."

  "Non è mai stato arrestato per possesso di armi. E solo un verme schifoso a eccezione di quando è con una donna."

  "E un assassino."

  "Di donne. È pericoloso solo per le donne."

  Tony gridò nuovamente: "Bobby, è la tua ultima possibi­lità! Maledizione, esci lentamente con le mani alzate!"

  Silenzio.

  Il cuore di Tony batteva furiosamente.

  "Va bene," sbottò Frank. "Vediamo di farla finita."

  "Se la memoria non mi inganna, l'ultima volta che ci siamo trovati in un caso del genere, sei andato avanti tu."

  "Sì. Il caso Wilkie-Pomeroy."

  "Quindi immagino tocchi a me," proseguì Tony.

  "So che non vedi l'ora di farlo."

  "Oh, certo."

  "Con tutto il cuore."

  "Peccato che ora sia finito in gola."

  "Vai a prenderlo, tigre."

  "Coprimi."

  "L'ingresso è troppo stretto per poterti coprire. Quando sarai dentro, non riuscirò a vedere niente."

  "Cercherò di stare basso," sussurrò Tony.

  "Vedi di strisciare. Proverò a guardarti sopra le spalle."

  "Mi raccomando."

  Tony aveva lo stomaco contratto. Respirò a fondo un paio di volte e cercò di calmarsi. In realtà, il cuore prese a battergli ancora più forte. Alla fine, si chinò e si lanciò al­l'interno dell'appartamento con la pistola spianata. Attra­versò rapidamente l'ingresso e si bloccò davanti al sog­giorno, per individuare eventuali ombre: ormai era certo di beccarsi una pallottola in mezzo agli occhi.

  Il locale era illuminato debolmente da sottili fasci di luce che filtravano attraverso le aperture delle pesanti tende. Le grandi ombre sembravano appartenere solo a divani, sedie e tavoli. Il soggiorno era ingombro di mobili costosi ma de­cisamente privi di gusto. Un raggio di sole andava a colpire un divano di velluto rosso sulla cui spalliera in finta quercia risaltava un enorme e grottesco giglio in ferro battuto.

  "Bobby?"

  Nessuna risposta.

  Da qualche parte ticchettava un orologio.

  "Non vogliamo farti del male, Bobby."

  Silenzio.

  Tony trattenne il fiato.

  Sentì il respiro di Frank.

  Nient'altro.

  Lentamente e con molta cautela si alzò.

  Nessuno sparo.

  Camminò rasente al muro fino a quando trovò l'interrut­tore della luce. Nell'angolo si accese una lampada: sul paralume era rappresentata una corrida. Tony vide che il sog­giorno e la sala da pranzo erano deserti.

  Frank lo raggiunse e fece un cenno con la testa in direzione dell'armadio posto nell'ingresso.

  Tony indietreggiò di un passo.

  Tenendo la pistola all'altezza della pancia, Frank aprì delicatamente la porta. Nell'armadio c'erano solo un paio di giacche e alcune scatole di scarpe. Attraversarono il sog­giorno, mantenendosi a debita distanza per non fornire un bersaglio troppo facile. C'era un ridicolo mobiletto per i li­quori con i profili in ferro nero e la vetrinetta dipinta di giallo. In mezzo alla stanza c'era un tavolino rotondo: un affare ottagonale con al centro un braciere in ottone asso­lutamente inutile. Il divano e le sedie con lo schienale alto erano rivestiti in velluto rosso con frange dorate e inserti neri. Le tende erano in broccato giallo e arancio e il tap­peto verde era spesso e ispido. Decisamente un posto orri­bile nel quale vivere.

  Ma anche un posto assurdo nel quale morire.

  Oltrepassarono la sala da pranzo e diedero un'occhiata nella minuscola cucina. Regnava un caos incredibile. Il fri­gorifero e alcuni armadietti erano spalancati. Il pavimento era ingombro di lattine, barattoli e scatole. Sembrava fosse passato un uragano. Molti vasetti si erano rotti e i fram­menti di vetro luccicavano in mezzo al cibo sparpagliato per terra. Una pozza di sherry risaltava come un'ameba ros­sastra sulle piastrelle gialle, mentre le ciliegine si erano sparse ovunque. I fornelli erano letteralmente coperti di crema al cioccolato. C'erano cornflakes dappertutto, E sot­taceti. Olive. Spaghetti. Qualcuno aveva usato la senape e la marmellata per scarabocchiare quattro volte la stessa pa­rola sull'unica parete vuota della cucina:

  Cocodrilos

  Cocodrilos

  Cocodrilos

  Cocodrilos

  "Che lingua è?" bisbigliò Frank.

  "Spagnolo."

  "Che cosa significa?"

  "Coccodrilli."

  "Perché coccodrilli?"

  "Non lo so."

  "Mi viene la pelle d'oca," mormorò Frank.

  Tony era d'accordo. La situazione era decisamente strana. Tony non riusciva a capire che cosa stesse succe­dendo, ma sapeva con certezza che si trovavano in grave pericolo. Avrebbe tanto voluto sapere da che parte sarebbe sbucato.

  Diedero un'occhiata in un'altra stanzetta, stracolma di mobili come le due precedenti. Bobby non era lì e nem­meno nell'armadio.

  Ritornarono lentamente nell'ingresso, verso le due ca­mere da letto e i bagni senza fare il benché minimo ru­more.

  Nella prima camera e nel bagno non trovarono niente di strano.

  Nella camera principale regnava invece un terribile caos. Tutti i vestiti erano stati tolti dall'armadio e sparpagliati in giro. Erano ammucchiati sul pavimento, ammonticchiati sul letto o gettati alla rinfusa sui mobili. Non un solo abito era stato risparmiato. Dalle camicie penzolavano i colletti e le maniche. Tutte le etichette delle giacche e dei cappotti erano state strappate. I pantaloni erano completamente scuciti. La persona che aveva compiuto quello scempio do­veva aver agito in preda a una furia cieca, ma nonostante tutto si era comportata in modo incredibilmente metod
ico.

  Ma chi era stato?

  Qualcuno che nutriva rancore nei confronti di Bobby?

  Bobby stesso? Perché mai avrebbe dovuto mettere a soq­quadro la cucina e distruggere i suoi stessi vestiti?

  E che cosa c'entravano i coccodrilli?

  Tony aveva la sensazione di aver passato in rassegna la casa troppo velocemente, lasciandosi così sfuggire qualche particolare importante. Era come se avesse in testa una vaga spiegazione per ciò che stava accadendo, ma non riu­scisse a metterla a fuoco.

  La porta del secondo bagno era chiusa. Era l'unico lo­cale nel quale non avevano ancora guardato.

  Frank puntò la pistola verso la porta e continuò a fissarla mentre si rivolgeva a Tony: "Se non è scappato prima del nostro arrivo, deve per forza essere in bagno."

  "Chi?"

  Frank gli lanciò un'occhiata perplessa. "Ma Bobby, natu­ralmente. Chi altri?"

  "Credi sia stato lui a ridurre la casa in questo stato?"

  "Be'... tu che cosa ne pensi?

  "C'è qualcosa che non quadra."

  "Ah sì? E che cosa?"

  "Non lo so."

  Frank fece un passo verso la porta del bagno.

  Tony ebbe un attimo di esitazione e rimase con le orec­chie tese.

  La casa era silenziosa come una tomba.

  "In bagno ci deve essere qualcuno," mormorò Frank.

  Presero posizione ai lati della porta.

  "Bobby! Mi senti?" gridò Frank. "Non puoi stare lì den­tro per sempre! Vieni fuori con le mani alzate!"

  Non uscì nessuno.

  Tony incalzò: "Anche se non sei Bobby Valdez, ti consi­glio di uscire subito. Chiunque tu sia."

  Dieci secondi. Venti. Trenta.

  Frank afferrò il pomolo e lo ruotò lentamente fino a far scattare la serratura. Spalancò la porta e si ritrasse imme­diatamente indietro, contro il muro, per evitare eventuali proiettili, coltelli e altri oggetti che avrebbero potuto dargli il benvenuto.

  Nessun colpo di arma da fuoco. Nessun movimento.

  L'unica cosa che proveniva dal bagno era un puzzo in­sopportabile. Urina. Escrementi.

  Tony sussultò. "Cristo!"

  Frank si coprì il naso e la bocca con una mano.

  Il bagno era vuoto. Il pavimento era coperto da pozzanghere di urina giallastra mentre il water, il lavandino e le pareti della doccia erano imbrattati di escrementi.

 

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