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Sussurri

Page 38

by Dean Koontz


  "È probabile," ammise Sackett. "Dopotutto, si tratta di un caso abbastanza insolito."

  "Ma potrebbe passare molto tempo prima di essere in grado di garantire loro una cosa simile," proseguì Joshua.

  "Non la faremo aspettare oltre un ragionevole lasso di tempo," gli assicurò Sackett. "Al massimo tre mesi."

  Joshua sospirò. "Speravo di cavarmela più velocemente."

  Sackett si strinse nelle spalle. "Forse non saranno neces­sari tre mesi. Può darsi che tutto si risolva molto prima. Non si può mai sapere. Magari in un paio di giorni salta fuori questo tipo che si spaccia per Frye, e a quel punto po­trei dare il segnale di via libera al fdic."

  "Ma lei non pensa di risolvere il caso così in fretta."

  "La situazione è talmente bizzarra che non posso pro­nunciarmi," sottolineò Sackett.

  "Maledizione," imprecò Joshua.

  Qualche minuto più tardi, Joshua si stava incamminando verso l'uscita della banca, quando Mrs Willis lo chiamò. Era dietro lo sportello della cassa. Joshua si avvicinò e lei gli disse: "Sa che cosa farei se fossi in lei?"

  "Che cosa?" domandò Joshua.

  "Lo dissotterri. Quel tipo che avete seppellito. Dissotter­ratelo."

  "Bruno Frye?"

  "Non avete seppellito Mr Frye." Mrs Willis era risoluta. Strinse le labbra e scosse la testa con aria decisa. "No. Se esiste un sosia di Mr Frye, non è lui che se ne sta andando in giro. Il sosia è a un paio di metri sotto terra, con una la­pide di granito come cappello. Il vero Mr Frye è stato qui giovedì scorso. Sarei pronta a giurarlo in tribunale. Ci scommetterei la vita."

  "Ma se non era Frye l'uomo ucciso a Los Angeles, allora dove si trova adesso Mr Frye? Perché è scappato? Che cosa sta succedendo, per l'amor del cielo?"

  "Non lo so," rispose la donna. "Ma so che cosa ho visto. Lo dissotterri, Mr Rhinehart. Scommetto che si accorgerà di aver sepolto l'uomo sbagliato."

  Mercoledì pomeriggio alle 15.20 Joshua atterrò all'aero­porto costruito alle porte di Napa. Con una popolazione di quarantacinquemila abitanti, Napa non era precisamente una metropoli e l'atmosfera delle vigne e delle cantine con­tribuiva a farla sembrare ancora più piccola e raccolta. Ma per Joshua, abituato alla pace rurale della minuscola St. Helena, Napa appariva rumorosa e caotica come San Francisco: non vedeva l'ora di andarsene.

  Ritrovò l'auto nel parcheggio pubblico dove l'aveva la­sciata il mattino. Non si diresse a casa e nemmeno in ufficio ma decise di raggiungere direttamente la dimora di Bruno Frye a St. Helena.

  Normalmente, Joshua si rendeva conto dell'incredibile bellezza paesaggistica della vallata. Ma non quel giorno. Guidò senza vedere assolutamente nulla fino a quando scorse la tenuta di Frye.

  Parte della Shade Tree Vineyards, di proprietà della fa­miglia Frye, occupava la fertile pianura, anche se la tenuta si estendeva perlopiù sulle dolci colline a ovest della val­lata. Le cantine, le sale di degustazione e gli altri edifici dell'azienda, costruiti in pietra, legno di sequoia e quercia, sembravano spuntare dalla terra ed erano raggnippati su un'altura ai confini occidentali della proprietà. Tutti gli edifici erano rivolti a oriente e si affacciavano sulle vigne. Alle loro spalle si ergeva una parete di circa cinquanta me­tri, formatasi in tempi remoti in seguito ai movimenti della crosta terrestre.

  In cima a quella parete, in posizione isolata, si stagliava la casa che Leo Frye, il padre di Katherine, aveva fatto co­struire nel 1918. Leo era un tipo solitario, di origine prus­siana, che amava la sua privacy più di qualunque altra cosa. Desiderava costruire la sua casa in un luogo che potesse of­frirgli una stupenda vista sulla vallata unita a una privacy assoluta, e quella proprietà rappresentava quanto di meglio potesse chiedere. Sebbene nel 1918 Leo fosse già vedovo, con un'unica figlioletta, e non prevedesse di risposarsi, fece erigere un'enorme dimora di dodici stanze in stile vitto­riano sulla cima del dirupo. Era un edificio adornato da molti bovindi, da timpani e decorazioni di ogni tipo. Domi­nava le cantine e le vigne realizzate successivamente ed era raggiungibile in due soli modi: mediante la funivia, un sistema di cavi, pulegge, motore elettrico e una cabina a quattro posti che faceva la spola dalla stazione più bassa a quella superiore, oppure mediante la lunga scala a zigzag fissata direttamente alla parete. I trecentoventi gradini ve­nivano tuttavia usati solo in caso di guasto della funivia, quando non era possibile aspettare che venisse riparata. Quella casa non era solo privata: era remota.

  Mentre abbandonava la strada principale per infilarsi nel lungo viale privato che conduceva alla Shade Tree, Joshua cercò di ricordare quello che sapeva su Leo Frye. Non era molto. Katherine parlava raramente del padre e Leo non aveva mai avuto amici.

  Joshua era arrivato in quella vallata nel 1945, qualche anno dopo la morte di Leo, e quindi non lo aveva mai in­contrato. Aveva udito comunque molte voci su di lui e si era formato un'idea di quello strano individuo perenne­mente rintanato nella casa sulla collina. Leo Frye era freddo, severo, arcigno, padrone di se stesso, ostinato, bril­lante, leggermente egocentrico e decisamente autoritario. Assomigliava a un signore feudale d'altri tempi, un aristo­cratico del Medio Evo che preferiva vivere in una fortezza, lontano dalla plebaglia.

  Katherine aveva continuato a vivere in quella casa dopo la morte del padre. Aveva cresciuto Bruno in quelle stanze dai soffitti alti, lontano mille miglia dal mondo degli altri bambini: in un mondo vittoriano di pannelli di legno, tap­pezzeria a fiori, merletti, posapiedi, orologi a pendolo e to­vaglie di pizzo. Madre e figlio erano vissuti insieme fino a quando Bruno aveva raggiunto l'età di trentacinque anni e Katherine era morta per un attacco di cuore.

  Proseguendo lungo il viale in macadam, Joshua alzò lo sguardo oltre le costruzioni di legno. Fissò l'enorme casa che si stagliava come un gigantesco tumulo in cima alla col­lina.

  Era strano che un uomo vivesse così a lungo con la ma­dre, come aveva fatto Bruno con Katherine. Naturalmente si erano sparse voci e congetture. Gli abitanti di St. Helena erano convinti che Bruno non nutrisse alcun interesse per le ragazze e che in realtà la sua passione segreta fossero i ragazzini. Si pensava che soddisfacesse i suoi istinti durante i viaggi occasionali a San Francisco, lontano dagli sguardi indiscreti dei vicini. La probabile omosessualità di Bruno non rappresentava certo uno scandalo nella vallata. Gli abi­tanti del posto non ne parlavano molto poiché la faccenda non li riguardava. Nonostante St. Helena fosse un piccolo centro, poteva vantare ben altri tipi di adulterazione: non per niente in quella zona veniva prodotto il vino.

  Joshua si chiese se l'opinione pubblica si fosse sbagliata in merito a Bruno. Considerando gli straordinari avveni­menti della settimana precedente, c'era il sospetto che il se­greto di quell'uomo fosse ben più cupo e infinitamente più terribile di una semplice omosessualità.

  Subito dopo il funerale di Katherine, profondamente scosso dalla sua morte, Bruno se n'era andato dalla grande casa sulla collina. Aveva preso con sé i suoi vestiti, una va­sta collezione di quadri, alcune sculture e i libri che aveva acquistato nel corso degli anni, ma aveva abbandonato tutto ciò che era appartenuto a Katherine. Gli abiti della donna, accuratamente riposti nell'armadio, non vennero toccati. I mobili antichi, i quadri, le porcellane, la cristalle­ria, le scatole smaltate e gli altri oggetti di valore avrebbero potuto essere venduti all'asta per una somma considere­vole. Ma Bruno aveva insistito affinchè ogni cosa fosse la­sciata esattamente dove l'aveva messa Katherine. Non do­veva essere toccato nulla. Aveva chiuso le finestre, tirato le tende e sprangato le imposte; aveva inoltre sigillato le porte come se volesse custodire per sempre in quella di­mora il ricordo della madre adottiva.

  Quando Bruno aveva affittato un appartamento e aveva iniziato a progettare la costruzione di una nuova casa ac­canto alle vigne, Joshua aveva cercato di convincerlo che era una pazzia lasciare incustoditi tutti quegli oggetti di va­lore. Bruno gli aveva assicurato che la casa era talmente isolata da non costituire un facile bersaglio per i ladri, con­siderando anche il fatto che in quella vallata il furto era pressoché sconosciuto. Le uniche due vie d'accesso alla dimora, la funivia
e la scala, erano situate all'interno della proprietà di Frye e, oltretutto, il meccanismo aereo funzio­nava solo con una chiave. Inoltre, solo lui e Joshua erano a conoscenza dei tesori nascosti in quella casa. Bruno era stato inflessibile: gli oggetti appartenuti a Katherine non dovevano essere toccati. Alla fine, seppure con riluttanza, Joshua aveva dovuto assecondare la volontà del suo cliente.

  Per quanto ne sapeva Joshua, nessuno era entrato in quella casa negli ultimi cinque anni, dal giorno in cui Bruno se n'era andato. La funivia era ancora in funzione, anche se veniva utilizzata solo da Gilbert Ulman, il mecca­nico che si occupava dei macchinali e degli autocarri della Shade Tree Vineyards. Gil aveva anche il compito di con­trollare ed eventualmente riparare il sistema di trasporto aereo, che non richiedeva più di un paio d'ore al mese. Quello stesso giorno o al massimo venerdì, Joshua avrebbe dovuto raggiungere la cima della collina per aprire porte e finestre di quell'enorme casa, in modo da arieggiarla prima dell'arrivo dei periti di Los Angeles e San Francisco previ­sto per sabato mattina.

  Per il momento, Joshua decise di non occuparsi della fortezza vittoriana di Leo Frye: la moderna casa di Bruno era decisamente più accessibile e altrettanto interessante. Proseguì lungo la strada che conduceva al parcheggio e girò a sinistra in un vicolo dal fondo sconnesso, sprofon­dato in mezzo ai vigneti assolati. Il viottolo superò una col­lina, continuò attraverso una gola, risalì un pendio e terminò nella radura dove Bruno aveva fatto costruire la sua casa seminascosta dalle vigne. Era un vasto edificio a un piano, in legno di sequoia e pietre, simile a un ranch, posto all'ombra di una delle nove gigantesche querce che costel­lavano la proprietà della famiglia Frye.

  Joshua scese dalla macchina e s'incamminò verso l'in­gresso. Il cielo azzurro elettrico era attraversato solo da al­cune nuvole sparse. L'aria proveniente dalle vette delle Mayacamas era frizzante e limpida.

  Fece scattare la serratura, entrò e rimase nell'ingresso per un attimo con le orecchie tese. Non sapeva esattamente che cosa si aspettava di sentire.

  Forse un rumore di passi.

  O la voce di Bruno Frye.

  Ma regnava il silenzio più completo.

  Attraversò tutta la casa per raggiungere lo studio di Frye. L'arredamento era la prova che Bruno aveva eredi­tato l'ossessione di Katherine di collezionare e ammassare oggetti di valore. Su alcune pareti erano stati appesi innu­merevoli quadri con le cornici che si sfioravano: nessun di­pinto poteva catturare l'attenzione in quella confusione di forme e colori. Ovunque erano disseminate vetrinette colme di cristalleria, sculture in bronzo, fermacarte e og­getti dell'era precolombiana. I locali contenevano decisa­mente troppi mobili, ma ogni pezzo rappresentava un im­pareggiabile esempio di un dato periodo e di un dato stile. Nell'ampio studio c'erano cinque o seicento libri rari, molti dei quali in edizione limitata e rilegata in pelle; in una vetrinetta erano raggnippate alcune decine di figurine cesel­late; c'erano inoltre sei sfere di cristallo assolutamente per­fette e di gran valore, dalla più piccola, delle dimensioni di un'arancia, alla più grande, simile a un pallone da pallaca­nestro.

  Joshua aprì le tende lasciando filtrare la luce del sole, ac­cese una lampada d'ottone e si sedette nella comoda pol­trona dietro la gigantesca scrivania inglese del diciottesimo secolo. Estrasse dalla tasca la strana lettera rinvenuta nella cassetta di sicurezza della First Pacific United Bank. In realtà era solo una fotocopia. Warren Sackett, l'agente dell'fbi, aveva insistito per tenere l'originale. Joshua spiegò il foglio di carta e lo appoggiò davanti a sé. Si voltò verso il tavolino da dattilografia posto accanto alla scrivania, infilò un foglio nella macchina per scrivere e ricopiò la prima frase della lettera.

  Mia madre, Katherine Anne Frye, è morta cinque anni fa, ma continua a ritornare in vita in corpi diversi.

  Si mise a confrontare i due fogli. I caratteri erano gli stessi. In entrambi i casi gli occhielli delle "e" erano completa­mente pieni d'inchiostro perché i tasti non venivano puliti da parecchio tempo. Su entrambi gli scritti la "a" risultava parzialmente occlusa e la "d" era stata battuta leggermente più in alto rispetto agli altri caratteri. Quella lettera era stata scritta nello studio di Bruno Frye, con la macchina di Bruno Frye.

  Il fantomatico sosia, l'uomo che si era spacciato per Frye nella banca di San Francisco il giovedì precedente, sem­brava possedere la chiave di quella casa. Ma come l'aveva ottenuta? La risposta più ovvia era che fosse stato Bruno a fornirgliela, e questo significava che il sosia era stato as­sunto appositamente.

  Joshua si appoggiò allo schienale e fissò la fotocopia della lettera. Aveva la testa che brulicava di interrogativi scottanti. Perché Bruno aveva dovuto assumere un sosia? E dove aveva trovato una persona che gli somigliava tanto? Da quanto tempo lavorava per lui? E che cosa faceva? Quante volte lui stesso aveva parlato con quel sosia, con­vinto che si trattasse di Frye? Probabilmente più di una volta. Forse si era rivolto più spesso a lui che non al vero Frye. Non c'era modo di saperlo. Forse giovedì mattina, quando Bruno era stato ucciso a Los Angeles, il suo sosia era proprio in quella casa? Era probabile. In fin dei conti, la lettera ritrovata nella cassetta di sicurezza era stata scritta proprio lì e quindi era ovvio che quell'individuo avesse appreso la notizia nello stesso posto. Ma come aveva fatto a scoprire così velocemente che Bruno era morto? Era possibile che, prima di morire, Bruno avesse chiamato casa sua per parlare con il sosia? Sì. Era possibile. Anzi, proba­bile. Avrebbe dovuto controllare alla società dei telefoni. Ma che cosa si erano detti quei due, mentre uno stava per morire? Era logico supporre che soffrissero della stessa forma di psicosi e che entrambi credessero che Katherine fosse tornata dall'inferno?

  Joshua fu scosso da un brivido. Piegò la lettera e se la rimise in tasca.

  Per la prima volta, si rese conto di quanto fossero lugu­bri quelle stanze: stracolme di mobili e oggetti costosi, con le finestre oscurate da pesanti tendaggi e i pavimenti co­perti da tappeti scuri. Improvvisamente, quella casa gli parve ancora più isolata della sontuosa dimora di Leo.

  Un rumore. Nell'altra stanza.

  Joshua rimase paralizzato, ma si sforzò di girare attorno alla scrivania. Rimase in attesa, con le orecchie tese. "Im­maginazione," mormorò, cercando di rassicurare se stesso.

  Tornò rapidamente all'ingresso principale e capì che quel rumore era stato davvero frutto della sua immagina­zione. Non era stato aggredito da nessuno. A ogni modo, quando finalmente uscì, chiudendosi la porta alle spalle, trasse un profondo respiro di sollievo.

  Lungo la strada che conduceva al suo ufficio di St. Helena Joshua si pose alcuni interrogativi. La settimana prima, chi era morto a Los Angeles? Frye o il suo sosia? Chi si era recato alla First Pacific United Bank giovedì? Il vero Frye o il suo sostituto? Come avrebbe deciso di liqui­dare l'intero patrimonio senza sapere che cos'era successo effettivamente? Aveva una valanga di interrogativi, ma solo pochissime risposte.

  Qualche minuto più tardi, posteggiò davanti all'ufficio e si rese conto che avrebbe dovuto prendere seriamente in considerazione il consiglio di Mrs Willis. Forse sarebbe stato meglio aprire la tomba di Bruno Frye per determinare esattamente l'identità dell'uomo sepolto.

  Tony e Hilary atterrarono a Napa, noleggiarono una mac­china e arrivarono all'ufficio dello sceriffo di Napa County alle 16.20 di mercoledì. Quell'ufficio non aveva l'aria son­nacchiosa che ci si sarebbe aspettati in un piccolo centro. Due giovani agenti e un paio di impiegati diligenti erano alle prese con schedari e scartoffie.

  La segretaria dello sceriffo sedeva dietro una grande scri­vania di metallo, sulla quale era appoggiato un cartellino con il nome: marsha peletrino. Era una donna dall'a­spetto comune e dai lineamenti severi, ma la sua voce era morbida e sexy. Il suo sorriso era decisamente più invitante e gradevole di quanto avesse immaginato Hilary.

  Quando Marsha Peletrino aprì la porta dell'ufficio pri­vato di Peter Laurenski e annunciò che Tony e Hilary desi­deravano parlargli, lo sceriffo capì immediatamente chi erano e non cercò di evitarli, come avevano immaginato i due visitatori. Uscì dall'ufficio e strinse loro
la mano in modo goffo. Sembrava imbarazzato. Era ovvio che non aveva molta voglia di spiegare perché aveva fornito un alibi falso a Bruno Frye quel mercoledì notte, ma, nonostante il disagio evidente, invitò Tony e Hilary a fare due chiac­chiere.

  Hilary rimase alquanto delusa da Laurenski. Non era il classico sceriffo di provincia, decisamente antipatico, con la pancia straboccante, l'abbigliamento trasandato e il sigaro in bocca che si sarebbe aspettata di trovare, e nemmeno lo spregevole zoticone disposto a mentire per proteggere un signorotto locale quale Bruno Frye. Laurenski aveva circa trent'anni, era alto, biondo, dai lineamenti delicati, socie­vole e apparentemente amante del suo lavoro: un ottimo rappresentante della legge. Gli occhi gentili e la voce straordinariamente carezzevole le ricordavano in qualche modo Tony. Gli uffici dello sceriffo erano locali ben puliti e ordinati, dove sia gli agenti sia gli impiegati al servizio di Laurenski si davano da fare per svolgere il proprio lavoro in modo efficiente e rigoroso. Dopo solo un paio di minuti trascorsi con lo sceriffo, Hilary si rese conto che il mistero di Frye non sarebbe stato di facile soluzione, in quanto era ovviamente da escludere la cospirazione.

  Nell'ufficio privato dello sceriffo Hilary e Tony si sedet­tero su una vecchia e robusta panca resa più comoda da un paio di cuscini di velluto. Laurenski si mise a cavalcioni su una sedia, le braccia incrociate sullo schienale.

  Lo sceriffo lasciò di stucco Hilary e Tony andando di­ritto al nocciolo della questione e trattando se stesso in modo duro.

  "Temo di essere stato poco professionale per quanto ri­guarda questo caso," si scusò. "Ho mentito in merito a quelle telefonate."

  "E il motivo per cui siamo qui," spiegò Tony.

  "Si tratta di... una visita ufficiale?" chiese Laurenski, leggermente imbarazzato.

  "No," rispose Tony. "Non sono qui come poliziotto ma come semplice cittadino."

 

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