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Sussurri

Page 46

by Dean Koontz


  Ma prima che potesse indagare ulteriormente su quella sensazione, il sonno s'impadronì di lei che scivolò nelle braccia della notte.

  Frye si diresse verso nord lasciandosi Los Angeles alle spalle; per un certo tratto costeggiò il mare, poi l'auto­strada lo condusse verso l'entroterra.

  Fortunatamente la benzina era di nuovo disponibile dopo un breve periodo di scioperi. I benzinai erano aperti. L'autostrada era un'arteria di asfalto che correva lungo l'in­tero stato e i fari, simili a bisturi taglienti, gli permettevano di esaminarla a fondo.

  Mentre guidava, ripensò a Katherine. Quella puttana! Che cosa stava facendo a St. Helena? Si era forse trasferita di nuovo nella casa sulla collina? E aveva magari ripreso in mano il controllo dell'azienda? L'avrebbe obbligato a tra­sferirsi in quella casa con lei? Avrebbe dovuto vivere an­cora sotto il suo stesso tetto e obbedirle come un tempo? Erano tutte questioni di vitale importanza per lui, anche se la maggior parte sembravano assurde e senza senso.

  Si rendeva conto di avere la mente confusa. Nonostante gli sforzi, non riusciva a pensare chiaramente e quell'inca­pacità lo spaventava.

  Si domandò se fosse il caso di fermarsi a dormire in un'a­rea di servizio. Dopo essersi riposato, forse avrebbe riac­quistato il controllo di sé.

  Poi si ricordò che Hilary-Katherine era già a St. Helena e il pensiero che lei stesse preparandogli una trappola era molto più inquietante della sua temporanea confusione mentale.

  Si domandò se la casa fosse ancora sua. Dopotutto, lui era morto. (O morto per metà.) E lo avevano sepolto. (O pensavano di averlo fatto.) La proprietà sarebbe stata liqui­data.

  Mentre Bruno considerava le proprie perdite, s'infuriò con Katherine per avergli rubato così tanto e avergli la­sciato così poco. L'aveva ucciso, l'aveva strappato a se stesso, lasciandolo solo, senza nessuno da toccare e con cui parlare e ora si era persino trasferita a casa sua.

  Premette il piede sull'acceleratore finché la lancetta se­gnò i centoquaranta chilometri l'ora.

  Se un poliziotto l'avesse fermato per eccesso di velocità, Bruno l'avrebbe ammazzato. Avrebbe utilizzato il coltello. L'avrebbe squarciato, maciullato. Nessuno avrebbe impe­dito a Bruno di raggiungere St. Helena prima dell'alba.

  7

  Nel timore di essere visto dai guardiani notturni che lo rite­nevano morto, Bruno Frye decise di non avvicinarsi troppo alla proprietà. Posteggiò a un miglio di distanza, sulla strada principale, e si incamminò attraverso i vigneti verso la casa che aveva fatto costruire cinque anni prima.

  La gelida luna bianca irradiava luce fra le nuvole scure e Bruno riuscì a trovare la strada fra le vigne.

  Le colline erano immerse nel silenzio. Nell'aria aleg­giava un vago odore di solfato di rame, spruzzato durante l'estate per eliminare i parassiti, ricoperto dal fresco pro­fumo della pioggia. Aveva cessato di piovere. Non era stato un gran temporale, solo una leggera pioggerellina e qual­che tuono; la terra non era fradicia ma solo morbida e umida. Il cielo della notte era decisamente meno cupo ri­spetto a mezz'ora prima. L'alba non era ancora spuntata, ma ormai non avrebbe tardato molto.

  Quando raggiunse lo spiazzo, Bruno si nascose dietro un cespuglio e studiò le ombre che circondavano la casa. Le fi­nestre erano chiuse. Non si muoveva nulla. Si udiva solo il dolce sibilo del vento.

  Bruno rimase accucciato per qualche momento. Aveva paura di muoversi, temeva che lei lo stesse aspettando al­l'interno. Poi, finalmente, con il cuore che batteva forte, decise di abbandonare il nascondiglio fra i cespugli; si alzò e si diresse verso l'ingresso principale.

  Nella mano sinistra stringeva una torcia che non aveva avuto il coraggio di accendere, mentre nella destra reggeva un coltello. Era pronto a scattare al benché minimo movi­mento, ma tutto sembrava straordinariamente tranquillo.

  Giunto all'ingresso, appoggiò la torcia, cercò la chiave nella tasca della giacca e aprì la porta, spalancandola con un calcio. Accese la torcia ed entrò in casa con fare circo­spetto e il coltello puntato davanti a sé.

  Lei non lo stava aspettando nell'ingresso.

  Bruno passò lentamente da una stanza lugubre e stracolma di mobili all'altra. Controllò negli armadi, dietro i divani e le enormi vetrinette.

  Lei non era in casa.

  Forse era ritornato in tempo per far fallire qualsiasi piano stesse architettando.

  Si fermò in mezzo al soggiorno, sempre stringendo il col­tello e la torcia, puntati verso il pavimento. Oscillò per un attimo, esausto, frastornato e confuso. Era uno di quei mo­menti in cui sentiva il disperato bisogno di parlare con se stesso, di condividere le sue emozioni con se stesso, di ri­solvere i suoi enigmi con se stesso per ritornare a vedere le cose in modo chiaro. Ma non avrebbe mai più potuto chie­dere aiuto a se stesso, perché ormai era morto.

  Morto.

  Bruno iniziò a tremare. Poi scoppiò a piangere.

  Si sentiva solo, spaventato e incredibilmente confuso.

  Per quarant'anni, si era spacciato per un uomo qualun­que ed era sempre riuscito a passare per normale, senza troppa fatica. Ma non avrebbe più potuto farlo. Era morto per metà. Il dolore era troppo grande per potersi ripren­dere. Aveva perso la fiducia. Senza il suo altro sé a cui ri­volgersi in cerca di conforto e di consigli, non aveva i mezzi per continuare quella commedia.

  Ma quella puttana era a St. Helena. Da qualche parte. Non riusciva a decifrare i suoi pensieri, non riusciva a ritro­vare se stesso, ma era certo di una cosa: doveva trovarla e ucciderla. Doveva sbarazzarsi di lei una volta per tutte.

  Giovedì mattina, la sveglìa era stata puntata alle sette.

  Tony si svegliò di soprassalto con un'ora di anticipo. Si sedette sul letto, si rese conto di dove si trovava e riappog­giò la testa sul cuscino. Rimase disteso sulla schiena, nell'o­scurità più completa, fissando il soffitto e ascoltando il re­spiro tranquillo di Hilary.

  Aveva abbandonato il sonno per sfuggire a un incubo. Era un sogno macabro e brutale, pieno di camere mortua­rie, tombe e bare, un sogno cupo, lugubre e impregnato di morte. Coltelli. Proiettili. Sangue. Vermi che uscivano dalle pareti e si infilavano nelle orbite vuote dei cadaveri. Morti viventi che parlavano di coccodrilli. Nel sogno, la vita di Tony era stata messa in pericolo più volte, ma, in ogni occasione, Hilary si era buttata fra lui e l'assassino ed era morta per salvarlo.

  Quel sogno l'aveva fatto star male.

  Aveva paura di perderla. L'amava. L'amava più di quanto potessero dire le parole. Aveva un'ottima parlan­tina e non era certo riluttante a esternare i propri senti­menti, ma non riusciva a trovare le frasi giuste per espri­mere esattamente ciò che provava per lei. Riteneva addirit­tura che non esistessero parole adatte: erano semplice­mente troppo banali e assolutamente inadeguate. Se l'a­vesse persa, la vita sarebbe ovviamente continuata, ma in modo triste e desolato, piena di un dolore profondo e dura­turo.

  Fissò il soffitto buio e ripetè a se stesso che non aveva nulla da temere. Quel sogno non era un presàgio. Non era una profezia. Era solo un sogno. Un brutto sogno. Nient'altro che un sogno.

  In lontananza, un treno fischiò due volte. All'udire quel suono freddo e solitario, Tony si tirò le coperte fino al mento.

  Bruno decise che forse Katherine lo stava aspettando nella casa che aveva fatto costruire Leo. Uscì e attraversò i vi­gneti, portando con sé il coltello e la torcia.

  Alla pallida luce dell'alba, sotto il cielo ancora scuro che avvolgeva la vallata in una cupa penombra, Bruno iniziò a salire verso la casa sulla collina. Decise di non utilizzare la funivia perché avrebbe dovuto raggiungere il secondo piano dell'azienda dove si trovava la stazione più bassa. Non osava farsi vedere da quelle parti perché immaginava che il posto pullulasse di spie di Katherine. Voleva introdursi furtivamente in casa e l'unica strada accessibile era rappresentata dalla lunga scala fissata alla parete.

  Cominciò a salire rapidamente, due gradini alla volta, ma si rese conto ben presto che avrebbe dovuto prestare la massima attenzione. La scala si stava sgretolando. Non era stata mantenuta in ordine, a differenza della funivia. Ann
i e anni di pioggia, vento e caldo soffocante avevano eroso a poco a poco la calcina che teneva insieme la vecchia strut­tura. Frammenti di pietrisco provenienti dai trecentoventi gradini si sbriciolavano sotto i suoi piedi e precipitavano lungo la scarpata. Perse più volte l'equilibrio e rischiò di cadere all'indietro sfracellandosi al suolo. La ringhiera di protezione era fatiscente, decrepita e semidistrutta, e non avrebbe certo potuto salvarlo in caso di caduta. Ma lenta­mente e cautamente seguì il tracciato a zigzag della scala e finalmente raggiunse la cima della collina.

  Attraversò il prato, ormai invaso dalle erbacce. Decine di cespugli di rose, un tempo amorevolmente curati, si erano diramati in tentacoli spinosi in tutte le direzioni, si­mili a mucchi intricati di arbusti senza fiore.

  Bruno entrò nell'enorme dimora vittoriana e si mise a perlustrare le stanze polverose coperte dalle ragnatele; ovunque regnava l'odore stantio della muffa che aveva in­vaso i tappeti e i tendaggi. La casa era stracolma di mobili antichi, oggetti in cristallo, sculture e altre chincaglierie, ma non sembrava contenere nulla di sinistro. Katherine non era neppure lì.

  Non sapeva se fosse un bene o un male. Da una parte, si­gnificava che non si era trasferita in quella casa durante la sua assenza. Ed era un bene. Ne fu sollevato. Ma d'altra parte, dove diavolo era finita?

  I pensieri si facevano sempre più confusi. La sua capacità di ragionare aveva cominciato a vacillare qualche ora prima, ma ormai non si fidava nemmeno più dei suoi cin­que sensi. Gli parve di udire alcune voci e si mise a setac­ciare la casa per accorgersi alla fine che erano solo i mormorii indistinti da lui stesso prodotti. Per un attimo la muffa sembrò avere un odore diverso, simile al profumo preferito di sua madre, ma ben presto tornò a puzzare di muffa come sempre. Quando si mise poi a osservare i qua­dri di famiglia appesi alle stesse pareti fin dai tempi della sua infanzia, non riuscì a capire che cosa rappresentassero: le forme e i colori si scomponevano e gli occhi non erano in grado di riconoscere neppure le figure più semplici. Si bloccò davanti a un dipinto che raffigurava un paesaggio con molti alberi e fiori di campo, ma non riuscì a vedere quegli oggetti; si ricordava solo che c'erano sempre stati, ma al loro posto si erano sostituite chiazze di colore, linee spezzate e macchie informi.

  Cercò di non farsi prendere dal panico. Cercò di convin­cersi che quel senso di confusione e di disorientamento era semplicemente dovuto alla mancanza di sonno. Aveva gui­dato per molte ore ed era comprensibilmente esausto. Sen­tiva gli occhi pesanti, rossi e gonfi. Aveva male dapper­tutto. Il collo era rigido. Aveva solo bisogno di dormire. Dopo una bella dormita, tutto sarebbe tornato a posto. Era ciò che continuava a ripetere a se stesso. Era ciò di cui do­veva convincersi.

  Dopo aver setacciato la casa da cima a fondo, si ritrovò nel raffinato attico, il vasto locale con il soffitto spiovente nel quale aveva trascorso gran parte della sua vita. Il de­bole fascio di luce della torcia illuminò il letto nel quale aveva dormito quando ancora abitava in quella casa.

  Trovò se stesso già a letto. Era disteso con gli occhi chiusi e sembrava dormisse. Ovviamente i suoi occhi erano stati ricuciti. E la camicia da notte era in realtà la veste fu­nebre per la sepoltura che gli aveva messo Avril Tannerton. Perché se stesso era morto. Quella puttana l'aveva ac­coltellato e ucciso. Era morto stecchito da una settimana.

  Bruno era troppo debole per dare sfogo alla propria rab­bia e al proprio dolore. Andò verso il letto matrimoniale e si distese nella sua metà, accanto a se stesso.

  Avvertì la puzza di se stesso. Un odore pungente di so­stanze chimiche.

  Le lenzuola avvolte attorno a se stesso erano macchiate e umide a causa del liquido scuro che fuoriusciva lenta­mente dal corpo.

  Bruno non ci fece caso. La sua parte del letto era asciutta. E anche se Bruno sapeva benissimo che se stesso era morto e non avrebbe mai più potuto parlare e ridere, si sentì felice al solo pensiero di riposargli accanto.

  Bruno allungò una mano e toccò se stesso. Sfiorò la mano fredda, dura e rigida, e poi la strinse.

  Per un attimo gli parve di essere meno solo.

  Ovviamente Bruno non si sentiva più completo. Non si sarebbe mai più sentito completo perché metà di lui era morta. Ma disteso accanto al proprio cadavere, non si sen­tiva neppure totalmente solo.

  Lasciando accesa la luce per tenere lontana l'oscurità nella grande stanza, Bruno si addormentò.

  Lo studio del dottor Nicholas Rudge era al ventesimo piano di un grattacielo nel cuore di San Francisco. Hilary pensò che probabilmente l'architetto non aveva mai sentito parlare del termine "zona sismica", oppure che aveva stretto un patto con il diavolo in persona. Un'intera parete dello studio di Rudge era di vetro: tre enormi pannelli che arrivavano al soffitto ed erano tenuti insieme da due sottili bacchette di metallo; oltre quella vetrata si estendevano la città, la baia, il maestoso ponte del Golden Gate e le ultime tracce della foschia notturna. Il vento del Pacifico stava disperdendo le nubi grigie e il cielo si faceva sempre più terso. La veduta era spettacolare.

  Sul lato opposto della vetrata, era stato sistemato un ta­volo rotondo in teak con sei comode sedie, ovviamente per le terapie di gruppo. Hilary, Tony, Joshua e il dottore si ac­comodarono.

  Rudge era un uomo incredibilmente affabile. Sembrava che considerasse l'individuo che gli stava di fronte come la persona più affascinante e interessante che avesse mai co­nosciuto. Era pelato oltre qualsiasi definizione (come una palla da biliardo? come il sederino di un bebé? Forse anche di più...), ma aveva barba e baffi ben curati. Indossava un vestito a tre pezzi con cravatta e fazzolettino in tinta, ma non aveva niente del banchiere o del dandy. Aveva un'aria distinta e accattivante, rilassata come se avesse indossato le scarpe da tennis.

  Joshua riassunse le prove come aveva esplicitamente ri­chiesto il medico e tenne un breve discorso sul dovere da parte dello psichiatra di proteggere la società da un pa­ziente che mostri una chiara tendenza omicida. Nel giro di un quarto d'ora, Rudge si convinse che, in un caso come quello, non sarebbe stato opportuno e tanto meno saggio appellarsi al segreto professionale. Era più che disposto a mostrare loro il dossier di Frye.

  "Anche se devo ammettere," aggiunse Rudge, "che, se foste venuti qui singolarmente per raccontarmi questa in­credibile storia, non vi avrei prestato molta attenzione. Anzi, avrei pensato che aveste bisogno di me."

  "Abbiamo preso in considerazione la possibilità di essere impazziti tutt'e tre," disse Joshua.

  "Ma l'abbiamo scartata," proseguì Tony.

  "Be', se siete squilibrati," spiegò Rudge, "allora fareste meglio a dire 'impazziti tutt'e quattro', perché ormai ci credo anch'io."

  Rudge spiegò che negli ultimi diciotto mesi si era incon­trato con Frye per diciotto volte, in sedute di cinquanta mi­nuti l'una. Subito alla prima visita, si era reso conto che il paziente era gravemente disturbato e aveva cercato di con­vincere Frye a farsi vedere almeno una volta la settimana, poiché riteneva che il suo problema fosse troppo serio per una terapia con un solo incontro al mese. Ma Frye aveva ri­fiutato l'idea di presentarsi più spesso.

  "Come ho già detto al telefono a Mr Rhinehart" prose­guì Rudge, "Mr Frye era lacerato da due desideri opposti. Voleva il mio aiuto, voleva giungere alla radice del suo problema. Ma nello stesso tempo, aveva paura di sbilan­ciarsi troppo: temeva quello che avrebbe potuto scoprire su se stesso."

  "Che tipo di problema aveva?" chiese Tony.

  "Be', ovviamente il vero problema psicologico, che era la causa della sua ansia, della tensione e dello stress, era racchiuso nel profondo del suo inconscio. È per questo che aveva bisogno di me. Alla fine, forse saremmo riusciti a scoprire il nocciolo della questione, se la terapia avesse avuto successo. Ma non siamo mai giunti a quel punto. Quindi non posso dirvi che cosa aveva perché in realtà non lo so. Ma forse vi interesserà sapere che cosa ha portato Frye da me. Che cosa gli ha fatto capire che aveva bisogno di aiuto."

  "Certo," intervenne Hilary. "Almeno è un punto di par­tenza. Che sintomi accusava?"

  "Ciò che lo turbava di più, almeno dal suo punto di v
i­sta, era un incubo ricorrente che lo terrorizzava."

  Al centro del tavolo c'era un registratore con accanto due pile di cassette: quattordici da una parte e quattro dal­l'altra. Rudge allungò il braccio e ne prese una dal mucchio più piccolo.

  "Registro sempre le sedute e tengo le cassette al sicuro," spiegò il dottore. "Questi sono i nastri relativi a Mr Frye. Ieri sera, dopo aver parlato con Mr Rhinehart, ho ascoltato parte di queste registrazioni per cercare di trovare qualche passaggio significativo. Avevo l'impressione che sareste riu­sciti a convincermi a collaborare e pensavo che sarebbe stato meglio ascoltare i problemi di Bruno Frye dalla sua viva voce."

  "Stupendo," esclamò Joshua.

  "Questa si riferisce al nostro primo incontro," disse il dottor Rudge. "Nei primi quaranta minuti, Frye non ha detto praticamente nulla. Era molto strano. Sembrava ap­parentemente calmo e sicuro di sé, ma mi sono subito reso conto che aveva paura e che stava cercando di nascondere quello che provava veramente. Aveva paura di aprirsi a me. Arrivò quasi al punto di alzarsi e andarsene. Ma io ho con­tinuato a parlargli dolcemente, molto dolcemente. Negli ultimi dieci minuti, mi ha confessato perché era venuto da me, ma dovevo strappargli le parole una alla volta. Ecco comunque parte della registrazione."

  Rudge infilò la cassetta nel registratore e premette un ta­sto.

  All'udire quella voce familiare, dal tono rauco e grac­chiante, Hilary avvertì un brivido lungo la schiena.

  Frye parlò per primo:

  "Ho un problema."

  "Che tipo di problema?"

  "Di notte."

  "Sì?"

  "Ogni notte."

  "Vuol dire che ha problemi legati al sonno?"

  "In parte sì."

  "Può spiegarsi meglio?"

  "Faccio un sogno."

  "Che tipo di sogno?"

  "Un incubo."

  "Lo stesso ogni notte?"

  "Sì."

  "Da quanto tempo si ripete?"

  "Da quando mi ricordo."

 

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