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Nessun Dove

Page 16

by Neil Gaiman


  «Può dare del lupo anche a me, mister Croup» disse mister Vandemar, servizievole.

  Mister Croup scese dal suo plinto. «Una parolina gentile nelle vostre orecchiette confuse, piccoli agnellini» disse. Richard si guar­dò intorno. Doveva pur esserci un posto dove scappare. Allungò la mano e afferrò quella di Porta, continuando a cercare disperata­mente con lo sguardo.

  «No, vi prego. Restate dove siete» disse mister Croup. «Ci pia­cete cosi, e non vogliamo essere costretti a farvi del male.»

  «Si che lo vogliamo» intervenne mister Vandemar.

  «Be', d'accordo, mister Vandemar, se vuole metterla in questi termini. Vogliamo fare del male a entrambi. Vogliamo farvi deci­samente molto male. Ma non è per questo che siamo qui ora. Sia­mo qui per rendere le cose più interessanti. Vedete, quando le cose si fanno noiose, il mio socio e io diventiamo irrequieti e, per quan­to possa risultarvi difficile crederlo, perdiamo il nostro carattere deliziosamente solare.»

  Mister Vandemar mostrò i denti, a riprova del carattere delizio­samente solare. Era senza dubbio la cosa più orribile che Richard avesse mai visto.

  «Lasciateci soli» disse Porta, con voce chiara e ferma.

  Richard le strinse la mano. Se riusciva a essere cosi coraggiosa, poteva esserlo anche lui. «Se volete farle del male» annunciò «do­vrete prima uccidere me.»

  Mister Vandemar parve sinceramente compiaciuto all'idea. «Be­nissimo» disse. «Grazie.»

  «E faremo del male anche a te» disse mister Croup.

  «Non ancora, però» aggiunse mister Vandemar.

  «Vedete,» spiegò mister Croup con una voce che pareva burro rancido, «in questo momento siamo qui solo per spaventare la ra­gazzina.»

  La voce di mister Vandemar era un vento notturno che soffia su un deserto di ossa. «Farti soffrire» disse. «Rovinarti la giornata.»

  Mister Croup si sedette alla base del plinto di mister Vandemar. «Siete andati in visita alla Corte del Conte, oggi» disse, in quello che Richard sospettava essere un tono lieve e familiare.

  «E allora?» disse Porta. Si stava lentamente allontanando dai due.

  Mister Croup sorrise. «Come facciamo a saperlo? Come sape­vamo dove trovarti?»

  «Ti possiamo prendere in qualunque momento» disse mister Vandemar, quasi in un sospiro.

  «Sei stata venduta, piccola coccinella» disse mister Croup, ri­volto solo e unicamente a Porta. «C'è un traditore nel tuo nido. Un cuculo.»

  «Andiamo!» disse la ragazza. E si mise a correre.

  Richard correva con lei, nella sala con le cianfrusaglie, verso una porta. Che al tocco di Porta si apri.

  «Mandi loro un saluto, mister Vandemar» disse la voce di mi­ster Croup, un po' più lontana.

  «Addio» disse mister Vandemar.

  «No-no» corresse mister Croup. «Au revoir.»

  E allora fece un suono - il cu-cù cu-cù che potrebbe fare un cuculo se fosse alto un metro e settanta e avesse una predilezione per la carne umana - mentre mister Vandemar, fedele alla propria natura, piegava all'indietro il testone e ululava come un lupo, spet­trale, selvaggio e pazzo.

  Erano fuori, all'aria aperta, nella notte, e correvano lungo un marciapiede. Richard cominciava a pensare che il cuore gli sareb­be schizzato dal petto per la violenza con cui batteva. Vennero su­perati da una grossa auto scura.

  Il British Museum era al di là di un'alta cancellata dipinta di nero. Discrete luci nascoste illuminavano l'esterno del grande pa­lazzo bianco, le colonne, i gradini e i muri.

  Arrivarono a un cancello, che Porta afferrò con entrambe le mani, spingendo. Non accadde nulla.

  «Non riesci ad aprirlo?» chiese Richard.

  «Cosa ti sembra stia cercando di fare?» rispose seccamente la ragazza.

  All'ingresso principale a qualche metro di distanza, stavano ar­rivando dei gran macchinoni da cui scendevano coppie eleganti che proseguivano a piedi verso il museo.

  «Laggiù» disse Richard. «L'ingresso principale.»

  Porta annui, poi si guardò alle spalle.

  «Si direbbe che non ci stiano seguendo» disse. Si affrettarono verso il cancello aperto.

  «Stai bene?» chiese Richard. «Cosa è successo?»

  Porta quasi spari nella giacca di pelle. Era pallida e aveva dei semicerchi scuri sotto gli occhi.

  «Sono stanca» disse con tono piatto. «Ho aperto troppe porte oggi. Consumo energia ogni volta e mi serve un po' di tempo per recuperare. Qualcosa da mangiare e sono a posto.»

  Al cancello c'era una guardia che esaminava minuziosamente gli inviti istoriati che ognuno degli uomini ben rasati e in smoking e delle signore profumate in abito da sera doveva presentare, per spuntarne i nomi sulla lista prima di farli entrare. Accanto a lui, un poliziotto in uniforme osservava inflessibile gli ospiti.

  Richard e Porta attraversarono il cancello, e nessuno diede loro una seconda occhiata. Sui gradini di pietra che portano all'ingres­so del museo si era formata una coda a cui si unirono anche Ri­chard e Porta. Un uomo dai capelli bianchi accompagnato da una signora molto orgogliosa della pelliccia di visone che indossava, si mise ordinatamente in coda dietro di loro.

  Un pensiero colpì Richard: «Possono vederci?» chiese.

  Porta si rivolse al signore dietro di lei, lo fissò e disse «Salve.»

  L'uomo si guardò attorno con un'espressione stupita sul volto, come non fosse certo di cosa avesse attirato la sua attenzione. Quindi si accorse di Porta che gli stava proprio di fronte. «Salve...?» disse.

  «Sono Porta» si presentò la ragazza. «E questo è Richard.»

  «Oh...» fece l'uomo. Poi si frugò in tasca, ne estrasse un sigaro e si dimenticò di loro.

  «Ecco. Visto?» disse Porta.

  «Penso di si» ribatté lui.

  Per qualche tempo non dissero nulla, mentre la coda procedeva lentamente verso l'unico ingresso aperto del museo. Porta control­lò lo scritto sulla pergamena, quasi a cercare rassicurazione. Quin­di Richard chiese, «Un traditore?»

  «Volevano solo farci innervosire» rispose Porta. «Cercavano di turbarci.»

  «E hanno fatto un lavoro dannatamente buono, se è per questo» commentò Richard. Attraversarono la porta aperta ed eccoli nel British Museum.

  Mister Vandemar era affamato, perciò tornarono indietro pas­sando da Trafalgar Square.

  «Spaventarla» mormorò mister Croup, disgustato. «Spaventar­la. Come siamo ridotti.»

  In un cestino dei rifiuti, mister Vandemar aveva trovato un mezzo panino alla lattuga e gamberetti e lo stava facendo diligen­temente a pezzettini da lanciare sul selciato di fronte a sé per atti­rare un piccolo stormo di piccioni tiratardi.

  «Dovevamo seguire la mia idea» disse mister Vandemar. «L'avremmo spaventata molto di più se gli avessi strappato la te­sta mentre lei non guardava. Poi gli facevo salire la mano su dalla gola e agitavo le dita all'interno. Strillano sempre» disse in confi­denza «quando cadono le palle degli occhi.»

  Fece una dimostrazione con la mano destra, conficcando le dita verso l'alto per poi agitarle con forza.

  Mister Croup proprio non voleva sentirne parlare. «Perché di­ventare cosi schifiltoso a questo punto del gioco?» domandò.

  «Non sono schifiltoso, mister Croup» ribadì mister Vandemar. «Mi piace tanto quando cadono le palle degli occhi. Prendere gli occhi e sbatacchiare.»

  Alcuni piccioni grigi, in giro anche se era passata l'ora di anda­re a dormire, si avvicinarono tutti impettiti per beccare i frammen­ti di pane e gamberetti, disdegnando la lattuga.

  «Non lei,» disse mister Croup «il principale. Uccidetela, rapite­la, spaventatela. Perché non si decide?»

  Mister Vandemar aveva terminato il panino, perciò balzò sul gruppo di piccioni, che fecero ricorso alle ali producendo dei suo­ni secchi e qualche occasionale e lamentoso cuu.

  «Gran bella presa, mister Vandemar» disse mister Croup con aria di approvazione.

  Mister Vandemar stringeva in mano un piccione stupito e scon­volto che brontolava e si dimenava per liberarsi, cercando senza succe
sso di beccargli le dita.

  Mister Croup sospirò, con tono drammatico. «Be', comunque, non c'è dubbio che adesso abbiamo messo la volpe nel pollaio» disse soddisfatto.

  Mister Vandemar teneva il piccione all'altezza della faccia. Si udi un rumore di mandibole, quando gli staccò la testa con un morso e iniziò a masticare.

  Le guardie di sicurezza stavano dirigendo gli ospiti del museo verso un corridoio che sembrava quasi fungere da sala di attesa. Porta le ignorò completamente e prosegui verso i saloni del museo con Richard alle calcagna.

  Attraversarono la sala egizia, salirono parecchie rampe di scale e giunsero in una stanza che un cartello indicava con il nome di Gotico inglese del primo periodo.

  «Secondo questa pergamena» disse la ragazza «l'Angelus è pro­prio qui.»

  Porta abbassò lo sguardo sulla pergamena. Lo rialzò per guar­darsi intorno. Fece una smorfia di dissenso e ridiscese le scale, per­correndo di nuovo la strada da cui erano arrivati.

  Richard provava un'intensa sensazione di déjà vu, prima di ren­dersi conto che si, certo che il posto gli pareva familiare: era li che passava i fine settimana all'epoca di Jessica. E cominciava a sem­brargli una cosa accaduta a qualcun altro tanto, tanto tempo prima.

  «Allora, l'Angelus non c'era?» chiese Richard.

  «No, non c'era» rispose Porta con una foga che Richard ritenne un po' eccessiva rispetto alla domanda.

  «Oh» disse. «Tanto per sapere.»

  Entrarono in un'altra stanza. Richard si chiese se stava cominciando a soffrire di allucinazioni per l'eccesso di zuccheri assunti alla Corte del Conte o per deprivazione sensoriale. «Sento della musica» disse. Sembrava un quartetto d'archi.

  «La festa» disse Porta.

  Giusto. Le persone in smocking con cui avevano fatto la coda. No, l'Angelus non sembrava essere neppure là. Porta si incamminò verso il salone successivo e Richard le andò subito dietro. Avreb­be voluto rendersi più utile.

  «Questo Angelus» chiese «che aspetto ha?»

  Per un attimo pensò che stesse per sgridarlo per aver fatto la domanda, invece si fermò e si sfregò la fronte. «Qui dice solo che ha sopra l'immagine di un angelo. Ma non dovrebbe essere tanto difficile trovarlo. In fondo,» aggiunse speranzosa «quante cose con sopra un angelo potranno mai esserci?»

  NOVE

  Jessica era leggermente sotto pressione. Era preoccupata, ner­vosa e agitata. Aveva catalogato la collezione, provveduto a far si che il British Museum ospitasse la mostra, organizzato i lavori di restauro dei più importanti oggetti in esposizione, collaborato ad appendere e posizionare la collezione e redatto la lista degli invi­tati al meraviglioso vernissage.

  Che importava che non avesse un ragazzo, diceva agli amici. Tanto, anche in caso contrario non avrebbe avuto un minuto di tempo da dedicargli. Eppure, sarebbe bello, pensò, in un attimo di pausa: qualcuno con cui visitare le gallerie d'arte nel fine settima­na. Qualcuno con cui...

  No. Non voleva raggiungere quell'angolo della sua mente. Non lo poteva fissare cosi come non avrebbe potuto afferrare una goc­cia di mercurio, e si concentrò di nuovo sulla mostra.

  Anche adesso, all'ultimo minuto, c'erano ancora talmente tante cose che potevano andare storte. Più di un cavallo era caduto sul­l'ultimo ostacolo. Più di un generale troppo sicuro di sé aveva vi­sto una vittoria certa trasformarsi in sconfitta nei minuti finali del­la battaglia.

  Jessica intendeva semplicemente assicurarsi che tutto andasse per il verso giusto.

  Indossava un vestito di seta verde, un generale senza spalline che passa in rassegna le sue truppe, fingendo stoicamente che il signor Stockton non avesse mezz'ora di ritardo.

  Le truppe consistevano in un capo cameriere, una decina di persone di servizio, tre donne delle società di catering, un quartetto d'archi e il suo assistente, un giovane di nome Clarence. Jessica era convinta che Clarence avesse avuto il posto perché a) dichiara­tamente gay, e b) altrettanto dichiaratamente nero, quindi era per lei una fonte di continua irritazione il fatto che fosse di gran lunga l'assistente migliore, più efficente e competente che avesse mai avuto.

  Ispezionò il tavolo dei beveraggi. «Siamo a posto con lo cham­pagne? Si?»

  Il capo cameriere le indicò la cassa di champagne sotto il tavolo.

  «E con l'acqua minerale gassata?»

  Un altro cenno del capo. Un'altra cassa.

  Jessica increspò le labbra. «E che mi dite dell'acqua minerale non gassata? Non tutti hanno una passione per le bollicine, sapete.»

  C'era acqua minerale non gassata in abbondanza. Bene.

  Il quartetto d'archi si stava scaldando. La musica non era abba­stanza forte da soffocare il rumore proveniente dal corridoio. Era il rumore di una folla piccola ma facoltosa: il borbottio di signore in visone, e signori che, non fosse stato per i cartelli con scritto VIETATO FUMARE - e forse anche per il consiglio dei rispettivi medici - avrebbero tirato fuori un sigaro; il borbottio di giornalisti e celebrità varie che sentivano il profumo di canapé, vol-au-vent, bocconcini prelibati e champagne gratis.

  Clarence stava parlando al telefonino, un marchingegno sottile e richiudibile che faceva sembrare i trasmettitori di Star Trek in­gombranti e fuori moda. Lo spense, abbassò l'antenna e lo rimise nella tasca Armani del suo completo Armani senza rovinarne la li­nea. Sorrise, con aria rassicurante. «Jessica, l'autista del signor Stockton mi ha telefonato dall'auto. Avranno un altro paio di mi­nuti di ritardo. Non c'è da preoccuparsi.»

  «Non c'è da preoccuparsi» gli fece eco Jessica. Un fallimento. Un fallimento. La cosa era destinata a essere un disastro. Il suo disastro. Prese una coppa di champagne dal tavolo, la vuotò e al­lungò il bicchiere al cameriere addetto agli alcolici.

  Clarence inclinò la testa da un lato, in ascolto della brontolante risonanza che proveniva dal corridoio oltre la porta. Guardò l'oro­logio, poi guardò Jessica con aria interrogativa, un capitano che interroga il proprio generale. Nella Valle della Morte, allora, capo?

  «Il signor Stockton sta arrivando, Clarence» disse calma. «Ha richiesto una visita privata prima che l'evento abbia inizio.»

  «Devo uscire a vedere come vanno le cose?»

  «No» disse Jessica, decisa. Quindi, altrettanto decisa, «Si.»

  Risolta la questione cibo e bevande, Jessica si diresse dal quar­tetto d'archi, per chiedere, per la terza volta quella sera, cosa esat­tamente intendevano suonare.

  Clarence apri la doppia porta. Era peggio di quanto avesse pen­sato: dovevano esserci più di cento persone nel corridoio.

  E non erano solo persone. Erano Persone. Alcune addirittura Personalità.

  «Mi scusi» disse il presidente della Commissione per le belle arti. «L'invito diceva le otto in punto e sono già le otto e venti.»

  «Solo qualche minuto» lo rassicurò educatamente Clarence. «Disposizioni di sicurezza.»

  Una donna con cappello iniziò a fare pressione su di lui, con voce stentorea, prepotente e decisamente parlamentare. «Giovanot­to,» cominciò «sa chi sono io?»

  «Veramente no» menti Clarence, che sapeva esattamente chi fosse ognuno di loro. «Attenda solo un attimo. Vado a chiedere se qualcuno qui dentro lo sa.»

  Si richiuse la porta alle spalle.

  «Jessica? Stanno per fare una rivolta.»

  «Non esagerare, Clarence.»

  Si muoveva nella stanza come un turbine di seta verde, posi­zionando il suo staff di servizio con i vassoi di canapé o di bic­chieri di champagne negli angoli strategici; controllando il sistema di diffusione sonora, il podio, il sipario e il cordone per aprirlo. «Posso già vedere i titoli» disse Clarence aprendo un giornale im­maginario «Orrore al museo: ricchi vecchietti travolgono fanciul­la del marketing nella corsa al canapé.»

  Qualcuno aveva iniziato a bussare alla porta. Il volume dei suo­ni provenienti dall'esterno era aumentato. Qualcuno stava dicen­do, a voce molto alta, «Scusi. Hmm. Scusi.» Qualcun altro stava informando il mondo che si trattava di una vergogna, una vergo­gna pura e semplice, non c'erano altre parole per descriverla.
r />   «Decisione esecutiva» disse Clarence all'improvviso. «Li fac­cio entrare.»

  Jessica urlò «No! Se lo fai...»

  Ma era troppo tardi. Le porte si erano aperte e l'orda premeva per entrare nella sala. L'espressione di orrore sul viso di Jessica si trasformò in rapita delizia. Scintillò verso la porta. «Baronessa» disse, con un radioso sorriso. «Non so dirle quanto sono felice che sia potuta venire stasera alla nostra piccola mostra. Il signor Stockton è stato trattenuto improrogabilmente ma sarà qui a momenti. La prego, prenda un canapé...»

  Al di sopra della spalla visonata della baronessa, Clarence le fece un allegro occhiolino. Jessica elencò mentalmente tutte le pa­rolacce che conosceva. Non appena la baronessa si diresse verso i vol-au-vent, Jessica raggiunse Clarence e, senza smettere di sorri­dere, gliene dedicò qualcuna all'orecchio.

  Richard si bloccò. Una guardia di sicurezza stava andando di filato verso di loro, spostando il raggio luminoso della torcia da una parte all'altra. Si guardò intorno alla ricerca di un posto in cui nascondersi.

  Troppo tardi. Un'altra guardia si stava dirigendo nella loro di­rezione, oltre le enormi statue delle divinità greche, agitando la torcia.

  «Tutto bene?» chiese la prima guardia.

  L'altra fece qualche passo avanti, fermandosi proprio accanto a Richard e Porta.

  «Spero di si» disse. «Ho già dovuto fermare un paio di ubria­coni in pompa magna che volevano incidere le loro iniziali sulla Stele di Rosetta. Detesto questo tipo di incarichi.»

  La prima guardia puntò il raggio luminoso della torcia dritto ne­gli occhi di Richard, quindi lo fece scivolare via a sfiorare le om­bre. «Non smetterò mai di dirtelo» disse, con il soddisfatto piacere del vero profeta, «è La maschera della Morte Rossa che si ripete in continuazione. Un'elite decadente si riunisce a far festa mentre la civiltà va in rovina.» Si mise le dita nel naso e se le pulì sulla suola di cuoio delle scarpe nere ben lucidate.

  La seconda guardia sospirò. «Grazie, Gerald. Bene, adesso con­tinuiamo il giro.»

 

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