Jerusalem Delivered
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E magnanimamente in fiero viso
392 Rifulge in mezzo, e lor parla improvviso:
L.
Io, di cui si ragiona, or son presente,
Non fugace e non timido Soldano:
Ed a costui, ch’egli è codardo e mente
396 M’offero di provar con questa mano.
Io, che sparsi di sangue ampio torrente,
Che montagne di strage alzai sul piano,
Chiuso nel vallo de’ nemici, e privo
400 Alfin d’ogni compagno; io fuggitivo?
Io di cui si ragiona, or son presente,
Non fugace e non timido Soldano.
LI.
Ma se più questi, o s’altri a lui simíle,
Alla sua patria, alla sua fede infido,
Motto osa far d’accordo infame e vile,
404 Buon Re, sia con tua pace, io quì l’uccido.
Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile,
E le colombe e i serpi in un sol nido,
Prima che mai, di non discorde voglia,
408 Noi co’ Francesi alcuna terra accoglia.
LII.
Tien sulla spada, mentre ei sì favella,
La fera destra in minaccevol’atto.
Riman ciascuno, a quel parlare a quella
412 Orribil faccia, muto e stupefatto.
Poscia, con vista men turbata e fella,
Cortesemente inverso il Re s’è tratto.
Spera, gli dice, alto Signor; ch’io reco
416 Non poco ajuto: or Solimano è teco.
LIII.
Aladin, ch’a lui contra era già sorto,
Risponde: o come lieto or quì ti veggio,
Diletto amico! or del mio stuol ch’è morto
420 Non sento il danno; e ben temea di peggio.
Tu lo mio stabilire, e in tempo corto
Puoi ridrizzare il tuo caduto seggio,
Se ‘l Ciel nol vieta. Indi le braccia al collo,
424 Così detto, gli stese e circondollo.
LIV.
Finita l’accoglienza, il Re concede
Il suo medesmo soglio al gran Niceno.
Egli poscia a sinistra in nobil sede
428 Si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno.
E mentre seco parla ed a lui chiede
Di lor venuta, ed ei risponde appieno,
L’alta Donzella ad onorar in pria
432 Vien Solimano: ogni altro indi seguia.
LV.
Seguì fra gli altri Ormusse, il qual la schiera
Di quegli Arabi suoi a guidar tolse:
E mentre la battaglia ardea più fera,
436 Per disusate vie così s’avvolse,
Ch’ajutando il silenzio, e l’aria nera,
Lei salva alfin nella Città raccolse:
E con le biade, e co’ rapiti armenti
440 Aita porse alle affamate genti.
LVI.
Sol con la faccia torva e disdegnosa
Tacito si rimase il fer Circasso:
A guisa di leon, quando si posa,
444 Girando gli occhj, e non movendo il passo:
Ma nel Soldan feroce alzar non osa
Orcano il volto, e ‘l tien pensoso e basso.
Così a consiglio il Palestin tiranno
448 E ‘l Re de’ Turchi, e i cavalier quì stanno.
LVII.
Ma il pio Goffredo la vittoria e i vinti
Avea seguiti, e libere le vie:
E fatto intanto ai suoi guerrieri estinti
452 L’ultimo onor di sacre esequie e píe.
Ed ora agli altri impon che siano accinti
A dar l’assalto nel secondo díe:
E, con maggiore e più terribil faccia,
456 Di guerra i chiusi barbari minaccia.
LVIII.
E perchè conosciuto avea il drappello,
Ch’ajutò lui contra la gente infida,
Esser de’ suoi più cari, ed esser quello
460 Che già seguì l’insidiosa guida:
E Tancredi con lor, che nel castello
Prigion restò della fallace Armida;
Nella presenza sol dell’Eremita
464 E d’alcuni più saggj a se gl’invita.
LIX.
E dice lor: prego ch’alcun racconti
De’ vostri brevi errori il dubbio corso:
E come poscia vi trovaste pronti
468 In sì grand’uopo a dar sì gran soccorso.
Vergognando tenean basse le fronti:
Ch’era al cor picciol fallo amaro morso.
Alfin del Re Britanno il chiaro figlio
472 Ruppe il silenzio, e disse, alzando il ciglio:
LX.
Partimmo noi, che fuor dell’urna a sorte
Tratti non fummo, ognun per se nascoso,
D’Amor (nol nego) le fallaci scorte
476 Seguendo; e un bel volto insidioso
Per vie ne trasse disusate e torte:
Fra noi discordi, e in se ciascun geloso,
Nutrian gli amori, e i nostri sdegni (ahi tardi
480 Troppo il conosco!) or parolette, or guardi.
LXI.
Alfin giungemmo al loco, ove già scese
Fiamma dal Cielo in dilatate falde:
E di natura vendicò le offese
484 Sovra le genti in mal oprar sì salde.
Fu già terra feconda, almo paese,
Or acque son bituminose e calde,
E steril lago: e quanto ei torce e gira,
488 Compressa è l’aria, e grave il puzzo spira.
LXII.
Questo è lo stagno in cui nulla di greve
Si getta mai che giunga insino al basso;
Ma in guisa pur d’abete, o d’orno leve,
492 L’uom vi sornuota, e ‘l duro ferro, e ‘l sasso.
Siede in esso un castello: e stretto e breve
Ponte concede a’ peregrini il passo.
Ivi n’accolse: e non so con qual’arte,
496 Vaga è là dentro, e ride ogni sua parte.
LXIII.
V’è l’aura molle, e ‘l Ciel sereno, e lieti
Gli alberi e i prati, e pure e dolci l’onde:
Ove fra gli amenissimi mirteti
500 Sorge una fonte, e un fiumicel diffonde.
Piovono in grembo all ‘erbe i sonni queti
Con un soave mormorio di fronde:
Cantan gli augelli; i marmi io taccio e l’oro
504 Meravigliosi d’arte, e di lavoro.
LXIV.
Apprestar su l’erbetta, ov’è più densa
L’ombra, e vicino al suon delle acque chiare,
Fece di sculti vasi altera mensa,
508 E ricca di vivande elette e care.
Era quì ciò ch’ogni stagion dispensa:
Ciò che dona la terra, o manda il mare:
Ciò che l’arte condisce; e cento belle
512 Servivano al convito accorte ancelle.
LXV.
Ella d’un parlar dolce, e d’un bel riso
Temprava altrui cibo mortale e rio.
Or, mentre ancor ciascuno a mensa assiso
516 Beve con lungo incendio un lungo oblio,
Sorse, e disse: or quì riedo; e con un viso
Ritornò poi non sì tranquillo e pio.
Con una man picciola verga scuote:
520 Tien l’altra un libro, e legge in basse note.
LXVI.
Legge la Maga: ed io pensiero e voglia
Sento mutar, mutar vita ed albergo.
(Strana virtù!) novo piacer m’invoglia:
524 Salto nell’acqua, e mi vi tuffo e immergo.
Non so come ogni gamba entro s’accoglia,
Come l’un braccio e l’altro entri nel tergo.
M’accorcio, e stringo: e su la pelle cresce
528 Squammoso il cuojo, e d’uom son fatto un pesce.
LXVII.
Così ciascun degli altri anco fu volto,
E guizzò meco in quel vivace argento.
>
Quale allor mi foss’io, come di stolto
532 Vano e torbido sogno, or men rammento.
Piacquele alfin tornarci il proprio volto:
Ma tra la meraviglia e lo spavento
Muti eravam; quando, turbata in vista,
536 In tal guisa minaccia e ne contrista:
LXVIII.
Ecco a voi noto è il mio poter, ne dice,
E quanto sopra voi l’impero ho pieno:
Pende dal mio voler ch’altri infelice
540 Perda, in prigione eterna, il Ciel sereno:
Altri divenga augello: altri radice
Faccia, e germogli nel terrestre seno:
O che s’induri in selce, o in molle fonte
544 Si liquefaccia, o vesta irsuta fronte.
LXIX.
Ben potete schivar l’aspro mio sdegno,
Quando servire al mio piacer v’aggrade:
Farvi Pagani, e per lo nostro regno
548 Contra l’empio Buglion mover le spade.
Ricusar tutti, ed abborrir l’indegno
Patto: solo a Rambaldo il persuade.
Noi (chè non val difesa) entro una buca,
552 Di laccj avvolse, ove non è che luca.
LXX.
Poi nel castello istesso a sorte venne
Tancredi, ed egli ancor fu prigioniero.
Ma poco tempo in carcere ci tenne
556 La falsa Maga: e (s’io n’intesi il vero)
Di seco trarne da quell’empia ottenne
Del Signor di Damasco un messaggiero:
Ch’al Re d’Egitto in don, fra cento armati,
560 Ne conduceva inermi e incatenati.
LXXI.
Così ce n’andavamo: e come l’alta
Provvidenza del Cielo ordina e move,
Il buon Rinaldo, il qual più sempre esalta
564 La gloria sua con opre eccelse e nuove,
In noi s’avviene, e i cavalieri assalta
Nostri custodi, e fa le usate prove:
Gli uccide e vince, e di quell’arme loro
568 Fa noi vestir, che nostre in prima foro.
LXXII.
Io ‘l vidi, e ‘l vider questi: e da lui porta
Ci fu la destra, e fu sua voce udita.
Falso è il romor che quì risuona e porta
572 Sì rea novella, e salva è la sua vita:
Ed oggi è il terzo dì che, con la scorta
D’un peregrin, fece da noi partita
Per girne in Antiochia: e pria depose
576 L’arme che rotte aveva e sanguinose.
LXXIII.
Così parlava; e l’Eremita intanto
Volgeva al Cielo l’una e l’altra luce.
Non un color, non serba un volto: o quanto
580 Più sacro e venerabile or riluce!
Pieno di Dio, ratto dal zelo, accanto
Alle angeliche menti ei si conduce:
Gli si svela il futuro, e nell’eterna
584 Serie degli anni e delle età s’interna.
LXXIV.
E la bocca sciogliendo, in maggior suono,
Scopre le cose altrui ch’indi verranno.
Tutti conversi alle sembianze, al tuono
588 Dell’insolita voce attenti stanno.
Vive, dice, Rinaldo: e le altre sono
Arti e bugie di femminile inganno:
Vive, e la vita giovinetta acerba
592 A più mature glorie il Ciel riserba.
LXXV.
Presagj sono, e fanciulleschi affanni
Questi, ond’or l’Asia lui conosce, e noma.
Ecco chiaro vegg’io, correndo gli anni,
596 Ch’egli s’oppone all’empio Augusto, e ‘l doma:
E sotto l’ombra degli argentei vanni
L’Aquila sua copre la Chiesa, e Roma,
Che della fera avrà tolte agli artiglj:
600 E ben di lui nasceran degni i figlj.
LXXVI.
De’ figlj i figlj, e chi verrà da quelli
Quinci avran chiari e memorandi esempj:
E da’ Cesari ingiusti, e da’ rubelli
604 Difenderan le mitre, e i sacri tempj.
Premer gli alteri, e sollevar gl’imbelli,
Difender gli innocenti, e punir gli empj
Fian l’arti lor: così verrà, che vole
608 L’Aquila Estense oltra le vie del Sole.
LXXVII.
E dritto è ben che, se ‘l ver mira e ‘l lume,
Ministri a Pietro i folgori mortali.
U’ per Cristo si pugni, ivi le piume
612 Spiegar dee sempre invitte e trionfali:
Chè ciò per suo nativo alto costume
Dielle il Cielo, e per leggi a lei fatali.
Onde piace là su, ch’a questa degna
616 Impresa, onde partì, chiamata vegna.
LXXVIII.
Con questi detti ogni timor discaccia
Di Rinaldo concetto il saggio Piero.
Sol nel plauso comune avvien che taccia
620 Il pio Buglione immerso in gran pensiero.
Sorge intanto la notte, e su la faccia
Della terra distende il velo nero.
Vansene gli altri, e dan le membra al sonno;
624 Ma i suoi pensieri in lui dormir non ponno.
Canto undicesimo
ARGOMENTO.
Con puro sacrifizio e sacre note,
Il soccorso del Cielo invoca il campo.
Poi dell’alta città le mura scote,
Ch’al suo furore omai non avean scampo;
Quando Clorinda il Capitan percote,
E ‘l colpo è a lui d’alta vittoria inciampo.
Ben dall’Angel sanato ei torna in guerra:
Ma già ‘l diurno raggio ito è sotterra.
CANTO UNDECIMO.
Ma ‘l Capitan delle Cristiane genti,
Volto avendo all’assalto ogni pensiero,
Giva apprestando i bellici instrumenti,
4 Quando a lui venne il solitario Piero:
E trattolo in disparte, in tali accenti
Gli parlò venerabile e severo:
Tu muovi, o Capitan, l’armi terrene;
8 Ma di là non cominci onde conviene.
II.
Sia dal Cielo il principio; invoca avanti,
Nelle preghiere pubbliche e devote,
La milizia degli Angioli e de’ Santi,
12 Chè ne impetri vittoria ella che puote.
Preceda il Clero in sacre vesti, e canti
Con pietosa armonia supplici note:
E da voi duci gloriosi e magni
16 Pietate il volgo apprenda, e v’accompagni.
III.
Così gli parla il rigido Romito:
E ‘l buon Goffredo il saggio avviso approva.
Servo, risponde, di Gesù gradito,
20 Il tuo consiglio di seguir mi giova.
Or mentre i duci a venir meco invito,
Tu i Pastori de’ popoli ritrova
Guglielmo ed Ademaro: e vostra sia
24 La cura della pompa sacra e pia.
IV.
Nel seguente mattino il Vecchio accoglie
Co’ duo’ gran sacerdoti altri minori,
Ov’entro al vallo tra sacrate soglie
28 Soleansi celebrar divini onori.
Quivi gli altri vestir candide spoglie:
Vestir dorato ammanto i duo Pastori,
Che bipartito sovra i bianchi lini
32 S’affibbia al petto, e incoronaro i crini.
V.
Va Pietro solo innanzi, e spiega al vento
Il segno riverito in Paradiso:
E segue il coro a passo grave e lento,
36 In due lunghissimi ordini diviso.
Alternando facean doppio concento
In supplichevol canto, e in umil viso,
E, chiudendo le schiere, ivano a paro
40 I Principi Guglielmo ed Ademaro.
VI.
Venia poscia il Buglion, pur come è l�
�uso
Di Capitan, senza compagno a lato.
Seguiano a coppia i Duci, e non confuso
44 Seguiva il campo a lor difesa armato.
Sì procedendo se n’uscia del chiuso
Delle trinciere il popolo adunato.
Nè s’udian trombe, o suoni altri feroci,
48 Ma di pietate e d’umiltà sol voci.
VII.
Te Genitor, te figlio eguale al Padre,
E te che d’ambo uniti amando spiri:
E te, d’uomo e di Dio, Vergine Madre
52 Invocano propizia ai lor desiri.
O Duci, e voi, che le fulgenti squadre
Del Ciel movete in triplicati giri.
O Divo, e te, che della diva fronte
56 La monda umanità lavasti al fonte.
VIII.
Chiamano e te, che sei pietra e sostegno
Della magion di Dio fondata e forte:
Ove ora il novo successor tuo degno
60 Di grazia e di perdono apre le porte.
E gli altri messi del celeste regno,
Che divulgar la vincitrice morte.
E quei che ‘l vero a confermar seguiro,
64 Testimonj di sangue, e di martiro.
IX.
Quegli ancor, la cui penna, o la favella
Insegnata ha del Ciel la via smarrita:
E la cara di Cristo e fida ancella,
68 Ch’elesse il ben della più nobil vita:
E le vergini chiuse in casta cella,
Che Dio con alte nozze a se marita:
E quelle altre magnanime ai tormenti,
72 Sprezzatrici de’ Regi, e delle genti.
X.
Così cantando, il popolo devoto
Con larghi giri si dispiega e stende:
E drizza all’Oliveto il lento moto,
76 Monte che dalle olive il nome prende:
Monte per sacra fama al mondo noto,
Ch’oriental contra le mura ascende:
E sol da quelle il parte e ne ‘l discosta
80 La cupa Giosafà che in mezzo è posta.
XI.
Colà s’invia l’esercito canoro,
E ne suonan le valli ime e profonde,
E gli alti colli, e le spelonche loro,
84 E da ben mille parti Eco risponde:
E quasi par che boscareccio coro
Fra quegli antri si celi, e in quelle fronde;
Sì chiaramente replicar s’udia
88 Or di Cristo il gran nome, or di Maria.
XII.
D’in sulle mura ad ammirar frattanto
Cheti si stanno, e attoniti i Pagani
Que’ tardi avvolgimenti, e l’umil canto,
92 E le insolite pompe, e i riti estrani.
Poi che cessò dello spettacol santo
La novitate, i miseri profani
Alzar le strida; e di bestemmie e d’onte
96 Muggì il torrente, e la gran valle, e ‘l monte.
XIII.
Ma dalla casta melodia soave
La gente di Gesù però non tace: