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Jerusalem Delivered

Page 132

by Torquato Tasso


  Nè si volge a que’ gridi, o cura n’have

  100 Più che di stormo avria d’augei loquace.

  Nè perchè strali avventino, ella pave

  Che giungano a turbar la santa pace

  Di sì lontano; onde a suo fin ben puote

  104 Condur le sacre incominciate note.

  XIV.

  Poscia in cima del colle ornan l’altare

  Che di gran cena al sacerdote è mensa:

  E d’ambo i lati luminosa appare

  108 Sublime lampa in lucid’oro accensa.

  Quivi altre spoglie, e pur dorate e care,

  Prende Guglielmo, e pria tacito pensa:

  Indi la voce in chiaro suon dispiega,

  112 Se stesso accusa, e Dio ringrazia e prega.

  XV.

  Umili intorno ascoltano i primieri:

  Le viste i più lontani almen v’han fisse.

  Ma poichè celebrò gli alti misteri

  116 Del puro sacrifizio: itene, ei disse:

  E, in fronte alzando ai popoli guerrieri

  La man sacerdotal, gli benedisse.

  Allor sen ritornar le squadre píe

  120 Per le dianzi da lor calcate vie.

  XVI.

  Giunti nel vallo, e l’ordine disciolto,

  Si rivolge Goffredo a sua magione:

  E l’accompagna stuol calcato e folto

  124 Insino al limitar del padiglione.

  Quivi gli altri accomiata, indietro volto,

  Ma ritien seco i duci il pio Buglione:

  E gli raccoglie a mensa, e vuol ch’a fronte

  128 Di Tolosa gli sieda il vecchio Conte.

  XVII.

  Poi che de’ cibi il natural amore

  Fu in lor ripresso, e l’importuna sete,

  Disse ai duci il gran Duce: al novo albóre

  132 Tutti all’assalto voi pronti sarete.

  Quel sia giorno di guerra e di sudore,

  Questo sia d’apparecchio e di quiete.

  Dunque ciascun vada al riposo, e poi

  136 Se medesmo prepari e i guerrier suoi.

  XVIII.

  Tolser’ essi congedo; e manifesto

  Quinci gli Araldi, a suon di trombe, fero

  Ch’essere all’arme apparecchiato e presto

  140 Dee con la nova luce ogni guerriero.

  Così in parte al ristoro, e in parte questo

  Giorno si diede all’opre ed al pensiero;

  Sinchè fè nova tregua alla fatica

  144 La cheta notte del riposo amica.

  XIX.

  Ancor dubbia l’aurora, ed immaturo

  Nell’Oriente il parto era del giorno:

  Nè i terreni fendea l’aratro duro:

  148 Nè fea il pastore ai prati anco ritorno.

  Stava tra i rami ogni augellin sicuro,

  E in selva non s’udia latrato, o corno;

  Quando a cantar la mattutina tromba

  152 Comincia all’arme, all’arme il Ciel rimbomba.

  XX.

  All’arme all’arme subito ripiglia

  Il grido universal di cento schiere.

  Sorge il forte Goffredo, e già non piglia

  156 La gran corazza usata o lo schiniere:

  Ne veste un’altra, ed un pedon somiglia

  In arme speditissime e leggiere:

  Ed indosso avea già l’agevol pondo;

  160 Quando gli sovraggiunse il buon Raimondo.

  XXI.

  Questi, veggendo armato in cotal modo

  Il Capitano, il suo pensier comprese.

  Ov’è, gli disse, il grave usbergo e sodo?

  164 Ov’è, Signor, l’altro ferrato arnese?

  Perchè sei parte inerme? Io già non lodo

  Che vada con sì debili difese.

  Or, da tai segni, in te ben argomento

  168 Che sei di gloria ad umil meta intento.

  XXII.

  Deh che ricerchi tu? privata palma

  Di salitor di mura? altri le saglia:

  Ed esponga men degna ed util’alma

  172 (Rischio debito a lui) nella battaglia.

  Tu riprendi, Signor, l’usata salma:

  E di te stesso a nostro pro ti caglia.

  L’anima tua, mente del campo e vita,

  176 Cautamente, per Dio, sia custodita.

  XXIII.

  Quì tace; ed ei risponde: or ti sia noto

  Che quando in Chiaramonte il grande Urbano

  Questa spada mi cinse, e me devoto

  180 Fè cavalier l’onnipotente mano:

  Tacitamente a Dio promisi in voto

  Non pur l’opera quì di Capitano;

  Ma d’impiegarvi ancor, quando che fosse,

  184 Qual privato guerrier l’armi e le posse.

  XXIV.

  Dunque poscia che sian contra i nemici

  Tutte le genti mie mosse e disposte:

  E che appieno adempito avrò gli uficj

  188 Che son dovuti al Principe dell’oste,

  Ben è ragion, nè tu credo il disdici,

  Che alle mura, pugnando, anch’io m’accoste,

  E la fede promessa al Cielo osservi:

  192 Egli mi custodisca, e mi conservi.

  XXV.

  Così concluse; e i cavalier Francesi

  Seguir l’esempio, e i due minor Buglioni.

  Gli altri Principi ancor men gravi arnesi

  196 Parte vestiro e si mostrar pedoni.

  Ma i Pagani frattanto erano ascesi

  Là dove ai sette gelidi Trioni

  Si volge e piega all’Occidente il muro,

  200 Che nel più facil sito è men sicuro.

  XXVI.

  Perocch’altronde la Città non teme

  Dell’assalto nemico offesa alcuna.

  Quivi non pur l’empio Tiranno insieme

  204 Il forte volgo e gli assoldati aduna;

  Ma chiama ancor alle fatiche estreme,

  Fanciulli e vecchj, l’ultima fortuna.

  E van questi portando ai più gagliardi

  208 Calce, zolfo, bitume, e sassi, e dardi.

  XXVII.

  E di machine e d’arme han pieno innante

  Tutto quel muro a cui soggiace il piano.

  E quinci, in forma d’orrido gigante,

  212 Dalla cintola in su sorge il Soldano;

  Quindi tra’ merli il minaccioso Argante

  Torreggia, e discoperto è di lontano:

  E in su la Torre altissima angolare,

  216 Sovra tutti, Clorinda eccelsa appare.

  XXVIII.

  A costei la faretra e ‘l grave incarco

  Delle acute quadrella al tergo pende.

  Ella già nelle mani ha preso l’arco,

  220 E già lo stral v’ha su la corda, e ‘l tende:

  E, disiosa di ferire, al varco

  La bella arciera i suoi nemici attende.

  Tal già credean la vergine di Delo,

  224 Tra l’alte nubi, saettar dal Cielo.

  XXIX.

  Scorre più sotto il Re canuto a piede

  Dall’una all’altra porta, e in su le mura

  Ciò che prima ordinò cauto rivede,

  228 E i difensor conforta e rassicura.

  E quì gente rinforza, e là provvede

  Di maggior copia d’arme, e ‘l tutto cura.

  Ma se ne van le afflitte madri al tempio

  232 A ripregar nume bugiardo ed empio.

  XXX.

  Deh spezza tu del predator Francese

  L’asta, Signor, con la man giusta e forte;

  E lui che tanto il tuo gran nome offese

  236 Abbatti e spargi sotto l’alte porte.

  Così dicean, nè fur le voci intese

  Là giù tra ‘l pianto dell’eterna morte.

  Or mentre la Città s’appresta e prega,

  240 Le genti e l’armi il pio Buglion dispiega.

  XXXI.

  Tragge egli fuor l’esercito pedone

  Con molta provvidenza e con bell’arte:

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sp; E contra il muro, ch’assalir dispone,

  244 Obliquamente in due lati il comparte.

  Le baliste per dritto in mezzo pone,

  E gli altri ordigni orribili di Marte;

  Onde, in guisa di fulmini, si lancia

  248 Ver le merlate cime or sasso or lancia.

  XXXII.

  E mette in guardia i cavalier de’ fanti

  Da tergo, e manda intorno i corridori.

  Dà il segno poi della battaglia, e tanti

  252 I sagittarj sono e i frombatori

  E l’arme delle machine volanti,

  Che scemano fra i merli i difensori.

  Altri v’è morto, e ‘l loco altri abbandona:

  256 Già men folta del muro è la corona.

  XXXIII.

  La gente Franca impetuosa e ratta

  Allor quanto più puote affretta i passi.

  E parte scudo a scudo insieme adatta,

  260 E di quegli un coperchio al capo fassi.

  E parte sotto machine s’appiatta

  Che fan riparo al grandinar de’ sassi.

  Ed arrivando al fosso, il cupo e ‘l vano

  264 Cercano empirne, ed adeguarlo al piano.

  XXXIV.

  Non era il fosso di palustre limo

  (Chè nol consente il loco) o d’acqua molle:

  Onde l’empiano, ancorchè largo ed imo,

  268 Le pietre, i fasci, e gli alberi, e le zolle.

  L’audacissimo Alcasto intanto il primo

  Scopre la testa, ed una scala estolle:

  E nol ritien dura gragnuola, o pioggia

  272 Di fervidi bitumi, e su vi poggia.

  XXXV.

  Vedeasi in alto il fero Elvezio asceso

  Mezzo l’aereo calle aver finito,

  Segno a mille saette, e non offeso

  276 D’alcuna sì che fermi il corso ardito:

  Quando un sasso ritondo e di gran peso,

  Veloce, come di bombarda uscito,

  Nell’elmo il coglie, e ‘l risospinge a basso:

  280 E ‘l colpo vien dal lanciator Circasso.

  XXXVI.

  Non è mortal, ma grave il colpo e ‘l salto

  Sì ch’ei stordisce, e giace immobil pondo.

  Argante allora in suon feroce ed alto:

  284 Caduto è il primo, or chi verrà secondo?

  Chè non uscite a manifesto assalto,

  Appiattati guerrier, s’io non m’ascondo?

  Non gioveranvi le caverne estrane;

  288 Ma vi morrete come belve in tane.

  XXXVII.

  Così dice egli; e per suo dir non cessa

  La gente occulta; e tra i ripari cavi

  E sotto gli alti scudi unita e spessa

  292 Le saette sostiene, e i pesi gravi;

  Già l’ariete alla muraglia appressa

  Machine grandi, e smisurate travi

  C’han testa di monton ferrata e dura.

  296 Temon le porte il cozzo e l’alte mura.

  XXXVIII.

  Gran mole intanto è di là su rivolta

  Per cento mani al gran bisogno pronte,

  Che sovra la testuggine più folta

  300 Ruina, e par che vi trabocchi un monte:

  E, degli scudi l’union disciolta,

  Più d’un elmo vi frange e d’una fronte:

  E ne riman la terra sparsa e rossa

  304 D’arme, di sangue, di cervella, e d’ossa.

  XXXIX.

  L’assalitor allor sotto al coperto

  Delle machine sue più non ripara:

  Ma da i ciechi periglj al rischio aperto

  308 Fuori se n’esce, e sua virtù dichiara.

  Altri appoggia le scale e va per l’erto:

  Altri percuote i fondamenti a gara.

  Ne crolla il muro, e ruinoso i fianchi

  312 Già fessi mostra all’impeto de’ Franchi.

  XL.

  E ben cadeva alle percosse orrende

  Che doppia in lui l’espugnator montone;

  Ma sin da’ merli il popolo il difende

  316 Con usata di guerra arte e ragione:

  Ch’ovunque la gran trave in lui si stende,

  Cala fasci di lana, e gli frappone.

  Prende in se le percosse e fa più lente

  320 La materia arrendevole e cedente.

  XLI.

  Mentre con tal valor s’erano strette

  Le audaci schiere alla tenzon murale,

  Curvò Clorinda sette volte, e sette

  324 Rallentò l’arco, e ne avventò lo strale:

  E quante in giù se ne volar saette,

  Tante s’insanguinaro il ferro e l’ale,

  Non di sangue plebeo, ma del più degno:

  328 Chè sprezza quell’altera ignobil segno.

  XLII.

  Il primo cavalier ch’ella piagasse

  Fu l’erede minor del Rege Inglese.

  De’ suoi ripari appena il capo ei trasse,

  332 Che la mortal percossa in lui discese.

  E che la destra man non gli trapasse,

  Il guanto dell’acciar nulla contese;

  Sicchè inabile all’arme ei si ritira

  336 Fremendo, e meno di dolor che d’ira.

  XLIII.

  Il buon Conte d’Ambuosa in ripa al fosso,

  E su la scala poi Clotareo il Franco:

  Quegli morì trafitto il petto e ‘l dosso:

  340 Questi dall’un passato all’altro fianco.

  Sospingeva il monton, quando è percosso

  Al signor de’ Fiamminghi il braccio manco:

  Sicchè tra via s’allenta, e vuol poi trarne

  344 Lo strale, e resta il ferro entro la carne.

  XLIV.

  All’incauto Ademar, ch’era da lunge

  La fera pugna a riguardar rivolto,

  La fatal canna arriva, e in fronte il punge.

  348 Stende ei la destra al loco ove fu colto,

  Quando nova saetta ecco sorgiunge

  Sovra la mano, e la configge al volto:

  Onde egli cade, e fa del sangue sacro

  352 Su l’arme femminili ampio lavacro.

  XLV.

  Ma non lungi da’ merli a Palamede,

  Mentre ardito disprezza ogni periglio

  E su per gli erti gradi indrizza il piede,

  356 Cala il settimo ferro al destro ciglio:

  E trapassando per la cava sede

  E tra i nervi dell’occhio, esce vermiglio

  Diretro per la nuca: egli trabocca,

  360 E muore a piè dell’assalita rocca.

  XLVI.

  Tal saetta costei! Goffredo intanto

  Con novo assalto i difensori opprime.

  Avea condotto ad una porta accanto

  364 Delle machine sue la più sublime.

  Questa è torre di legno, e s’erge tanto

  Che può del muro pareggiar le cime:

  Torre, che grave d’uomini ed armata,

  368 Mobile è su le rote, e vien tirata.

  XLVII.

  Viene avventando la volubil mole

  Lance e quadrella, e quanto può s’accosta:

  E, come nave in guerra nave suole,

  372 Tenta d’unirsi alla muraglia opposta.

  Ma chi lei guarda, ed impedir ciò vuole,

  Le urta la fronte, e l’una e l’altra costa:

  La respinge con l’aste, e le percuote

  376 Or con le pietre i merli ed or le rote.

  XLVIII.

  Tanti di qua, tanti di là fur mossi

  E sassi e dardi, ch’oscuronne il Cielo.

  S’urtar due nembi in aria, e là tornossi

  380 Talor respinto onde partiva il telo.

  Come di fronde sono i rami scossi

  Dalla pioggia indurata in freddo gelo,

  E ne caggiono i pomi anco immaturi;

  384 Così cadeano i Saracin da i muri.

  XLIX.

  Perocchè scende in lor più grave il danno,

  Chè di ferro assai meno era
n guerniti.

  Parte de’ vivi ancora in fuga vanno,

  388 Della gran mole al fulminar smarriti.

  Ma quel che già fu di Nicea Tiranno

  Vi resta, e fa restarvi i pochi arditi.

  E ‘l fero Argante a contrapporsi corre,

  392 Presa una trave, alla nemica torre.

  L.

  E da sè la respinge e tien lontana

  Quanto l’abete è lungo, e ‘l braccio forte.

  Vi scende ancor la Vergine sovrana,

  396 E de’ periglj altrui si fa consorte.

  I Franchi intanto alla pendente lana

  Le funi recideano e le ritorte

  Con lunghe falci; onde, cadendo a terra,

  400 Lasciava il muro disarmato in guerra.

  LI.

  Così la torre sovra, e più di sotto

  L’impetuoso il batte aspro ariete:

  Onde comincia ormai forato e rotto

  404 A discoprir le interne vie secrete.

  Éssi non lunge il Capitan condotto

  Al conquassato e tremulo parete,

  Nel suo scudo maggior tutto rinchiuso,

  408 Che rade volte ha di portar in uso.

  LII.

  E quinci cauto rimirando spia,

  E scender vede Solimano a basso;

  E porsi alla difesa ove s’apria,

  412 Tra le ruine, il periglioso passo:

  E rimaner della sublime via

  Clorinda in guardia, e ‘l cavalier Circasso.

  Così guardava, e già sentiasi il core

  416 Tutto avvampar di generoso ardore.

  LIII.

  Onde rivolto dice al buon Sigiero

  Che gli portava un altro scudo e l’arco:

  Ora mi porgi, o fedel mio scudiero,

  420 Cotesto meno assai gravoso incarco;

  Chè tenterò di trapassar primiero

  Su’ dirupati sassi il dubbio varco.

  E tempo è ben che qualche nobil’ opra

  424 Della nostra virtute omai si scopra.

  LIV.

  Così, mutato scudo, appena disse,

  Quando a lui venne una saetta a volo,

  E nella gamba il colse, e la trafisse

  428 Nel più nervoso ove è più acuto il duolo.

  Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse,

  La fama il canta: e tuo l’onor n’è solo.

  Se questo dì servaggio o morte schiva

  432 La tua gente Pagana, a te s’ascriva.

  LV.

  Ma il fortissimo Eroe, quasi non senta

  Il mortifero duol della ferita,

  Dal cominciato corso il piè non lenta,

  436 E monta su i dirupi, e gli altri invita.

  Pur s’avvede egli poi che nol sostenta

  La gamba, offesa troppo ed impedita;

  E che inaspra agitando ivi l’ambascia;

  440 Onde, sforzato, alfin l’assalto lascia.

  LVI.

  E chiamando il buon Guelfo a se con mano,

  A lui parlava: io me ne vo costretto.

  Sostien persona tu di Capitano,

  444 E di mia lontananza empi il difetto;

  Ma picciol’ora io vi starò lontano:

 

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