Jerusalem Delivered
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Vado, e ritorno; e si partia ciò detto:
Ed ascendendo in un leggier cavallo,
448 Giunger non può, che non sia visto, al vallo.
LVII.
Al dipartir del Capitan, si parte
E cede il campo la fortuna Franca.
Cresce il vigor nella contraria parte:
452 Sorge la speme, e gli animi rinfranca.
E l’ardimento col favor di Marte,
Ne’ cor fedeli, e l’impeto già manca.
Già corre lento ogni lor ferro al sangue,
456 E delle trombe istesse il suono langue.
LVIII.
E già tra’ merli a comparir non tarda
Lo stuol fugace che ‘l timor caccionne.
E mirando la Vergine gagliarda,
460 Vero amor della patria arma le donne.
Correr le vedi, e collocarsi in guarda
Con chiome sparse e con succinte gonne:
E lanciar dardi, e non mostrar paura
464 D’esporre il petto per le amate mura.
LIX.
E quel ch’ai Franchi più spavento porge,
E ‘l toglie ai difensor della Cittade,
È, che ‘l possente Guelfo (e se n’accorge
468 Questo popolo e quel) percosso cade.
Tra mille il trova sua fortuna, e scorge
D’un sasso il corso per lontane strade.
E da sembiante colpo, al tempo stesso,
472 Colto è Raimondo, onde giù cade anch’esso.
LX.
Ed aspramente allora anco fu punto
Nella proda del fosso Eustazio ardito.
Nè in questo ai Franchi fortunoso punto
476 Contra lor da’ nemici è colpo uscito
(Chè n’uscir molti) onde non sia disgiunto
Corpo dall’alma, o non sia almen ferito.
E in tal prosperità via più feroce
480 Divenendo il Circasso, alza la voce:
LXI.
Non è questa Antiochia, e non è questa
La notte amica alle Cristiane frodi.
Vedete il chiaro Sol, la gente desta,
484 Altra forma di guerra ed altri modi.
Dunque favilla in voi nulla più resta
Dell’amor della preda, e delle lodi?
Chè sì tosto cessate, e sete stanche
488 Per breve assalto, o Franchi no, ma Franche?
LXII.
Così ragiona, e in guisa tal s’accende
Nelle sue furie il Cavaliero audace:
Che quell’ampia Città ch’egli difende,
492 Non gli par campo del suo ardir capace:
E si lancia a gran salti ove si fende
Il muro, e la fessura adito face,
Ed ingombra l’uscita: e grida intanto
496 A Soliman che si vedeva da canto:
LXIII.
Solimano, ecco il loco, ed ecco l’ora
Che del nostro valor giudice fia.
Chè cessi? o di chè temi? or costà fuora
500 Cerchi il pregio sovran chi più ‘l desia.
Così gli disse; e l’uno e l’altro allora
Precipitosamente a prova uscia:
L’un da furor, l’altro da onor rapito,
504 E stimolato dal feroce invito.
LXIV.
Giunsero inaspettati ed improvvisi
Sovra i nemici, e in paragon mostrarsi:
E da lor tanti fur uomini uccisi,
508 E scudi ed elmi dissipati e sparsi,
E scale tronche, ed arieti incisi;
Che di lor parve quasi un monte farsi:
E mescolati alle ruine alzaro,
512 In vece del caduto, alto riparo.
LXV.
La gente che pur dianzi ardì salire
Al pregio eccelso di mural corona,
Non ch’or d’entrar nella Cittate aspire,
516 Ma sembra alle difese anco mal buona:
E cede al novo assalto, e in preda all’ire
De’ due guerrier le machine abbandona:
Ch’ad altra guerra omai saran mal’atte;
520 Tanto è ‘l furor che le percuote e batte!
LXVI.
L’uno e l’altro Pagan, come il trasporta
L’impeto suo, già più e più trascorre.
Già ‘l foco chiede ai cittadini, e porta
524 Due pini fiammeggianti inver la torre.
Cotali uscir dalla tartarea porta
Sogliono, e sottosopra il mondo porre,
Le ministre di Pluto empie sorelle,
528 Lor ceraste scuotendo e lor facelle.
LXVII.
Ma l’invitto Tancredi, il quale altrove
Confortava all’assalto i suoi Latini,
Tosto che vide le incredibil prove,
532 E la gemina fiamma, e i due gran pini:
Tronca in mezzo le voci, e presto move
A frenar il furor de’ Saracini.
E tal del suo valor dà segno orrendo,
536 Che chi vinse e fugò, fugge or perdendo.
LXVIII.
Così della battaglia or quì lo stato
Col variar della fortuna è volto;
E in questo mezzo il Capitan piagato
540 Nella gran tenda sua già s’è raccolto,
Col buon Sigier, con Baldovino a lato,
Di mesti amici in gran concorso e folto.
Ei che s’affretta, e di tirar s’affanna
544 Della piaga lo stral, rompe la canna.
LXIX.
E la via più vicina e più spedita
Alla cura di lui vuol che si prenda:
Scoprasi ogni latébra alla ferita,
548 E largamente si risechi e fenda.
Rimandatemi in guerra, onde finita
Non sia col dì, prima ch’a lei mi renda.
Così dice; e premendo il lungo cerro
552 D’una gran lancia, offre la gamba al ferro.
LXX.
E già l’antico Erotimo, che nacque
In riva al Po, s’adopra in sua salute:
Il qual dell’erbe e delle nobil’ acque
556 Ben conosceva ogni uso, ogni virtute:
Caro alle Muse ancor; ma si compiacque
Nella gloria minor dell’arti mute:
Sol curò torre a morte i corpi frali,
560 E potea far i nomi anco immortali.
LXXI.
Stassi appoggiato, e con sicura faccia
Freme immobile al pianto il Capitano.
Quegli in gonna succinto, e dalle braccia
564 Ripiegato il vestir leggiero e piano,
Or con l’erbe potenti in van procaccia
Trarne lo strale, or con la dotta mano:
E con la destra il tenta, e col tenace
568 Ferro il va riprendendo, e nulla face.
LXXII.
L’arti sue non seconda, ed al disegno
Par che per nulla via Fortuna arrida:
E nel piagato Eroe giunge a tal segno
572 L’aspro martir, che n’è quasi omicida.
Or quì l’Angel custode, al duol indegno
Mosso di lui, colse dittamo in Ida:
Erba crinita di purpureo fiore,
576 Ch’have in giovani foglie alto valore.
LXXIII.
E ben mastra Natura alle montane
Capre n’insegna la virtù celata,
Qualor vengon percosse, e lor rimane
580 Nel fianco affissa la saetta alata.
Ouesta, benchè da parti assai lontane,
In un momento l’Angelo ha recata:
E, non veduto, entro le mediche onde
584 Degli apprestati bagni il succo infonde.
LXXIV.
E del fonte di Lidia i sacri umori,
E l’odorata panacea vi mesce.
Ne sparge il vecchio la ferita, e fuori
588 Volontario per se lo stral se n’esce,
E si ristagna il sangue: e già i dolori
Fuggono dalla gamba, e
‘l vigor cresce.
Grida Erotimo allor: l’arte maestra
592 Te non risana, o la mortal mia destra;
LXXV.
Maggior virtù ti salva: un Angel, credo,
Medico per te fatto, è sceso in terra;
Chè di celeste mano i segni vedo:
596 Prendi l’arme (che tardi?) e riedi in guerra.
Avido di battaglia il pio Goffredo
Già nell’ostro le gambe avvolge e serra:
E l’asta crolla smisurata, e imbraccia
600 Il già deposto scudo, e l’elmo allaccia.
Maggior virtù ti salva: Un Angel, credo,
Medico per te fatto, è sceso in terra.
LXXVI.
Uscì dal chiuso vallo e si converse,
Con mille dietro, alla Città percossa.
Sopra di polve il Ciel gli si coperse:
604 Tremò sotto la terra al moto scossa:
E lontano appressar le genti avverse
D’alto il miraro, e corse lor per l’ossa
Un tremor freddo, e strinse il sangue in gelo.
608 Ed egli alzò tre fiate il grido al Cielo.
LXXVII.
Conosce il popol suo l’altera voce,
E ‘l grido eccitator della battaglia:
E riprendendo l’impeto veloce
612 Di novo ancora alla tenzon si scaglia.
Ma già la coppia dei Pagan feroce
Nel rotto accolta s’è della muraglia,
Difendendo ostinata il varco fesso
616 Dal buon Tancredi e da chi vien con esso.
LXXVIII.
Quì disdegnoso giunge e minacciante,
Chiuso nell’arme, il Capitan di Francia:
E in su la prima giunta al fero Argante
620 L’asta ferrata fulminando lancia.
Nessuna mural machina si vante
D’avventar con più forza alcuna lancia.
Tuona per l’aria la nodosa trave:
624 V’oppon lo scudo Argante, e nulla pave.
LXXIX.
S’apre lo scudo al frassino pungente:
Nè la dura corazza anco il sostiene;
Chè rompe tutte l’arme, e finalmente
628 Il sangue Saracino a sugger viene.
Ma si svelle il Circasso, e ‘l duol non sente,
Dall’arme il ferro affisso e dalle vene,
E in Goffredo il ritorse: a te, dicendo,
632 Rimando il tronco, e l’armi tue ti rendo.
LXXX.
L’asta ch’offesa or porta, ed or vendetta,
Per lo noto sentier vola e rivola.
Ma già colui non fere ove è diretta;
636 Ch’egli si piega, e ‘l capo al colpo invola.
Coglie il fedel Sigiero, il qual ricetta
Profondamente il ferro entro la gola:
Nè gli rincresce, del suo caro Duce
640 Morendo in vece, abbandonar la luce.
LXXXI.
Quasi in quel punto Soliman percuote
Con una selce il cavalier Normando:
E questi al colpo si contorce e scuote,
644 E cade in giù, come paléo, rotando.
Or più Goffredo sostener non puote
L’ira di tante offese, e impugna il brando:
E sovra la confusa alta ruina
648 Ascende, e move omai guerra vicina.
LXXXII.
E ben ei vi facea mirabil cose,
E contrasti seguiano aspri e mortali;
Ma fuori uscì la notte, e ‘l mondo ascose
652 Sotto il caliginoso orror dell’ali:
E l’ombre sue pacifiche interpose
Fra tante ire de’ miseri mortali:
Sicchè cessò Goffredo, e fè ritorno.
656 Cotal fin ebbe il sanguinoso giorno.
LXXXIII.
Ma pria che ‘l pio Buglione il campo ceda,
Fa indietro riportar gli egri e i languenti:
E già non lascia a’ suoi nemici in preda
660 L’avanzo de’ suoi bellici tormenti.
Pur salva la gran torre avvien che rieda,
Primo terror delle nemiche genti:
Comechè sia dall’orrida tempesta
664 Sdrucita anch’essa in alcun loco, e pesta.
LXXXIV.
Da’ gran periglj uscita ella sen viene
Giungendo a loco omai di sicurezza.
Ma qual nave talor ch’a vele piene
668 Corre il mar procelloso, e l’onde sprezza;
Poscia in vista del porto, o su le arene,
O su i fallaci scoglj un fianco spezza:
O qual destrier passa le dubbie strade,
672 E presso al dolce albergo incespa e cade:
LXXXV.
Tale inciampa la torre; e tal da quella
Parte che volse all’impeto de’ sassi,
Frange due rote debili, sicch’ella
676 Ruinosa pendendo arresta i passi.
Ma le soppone appoggj, e la puntella
Lo stuol che la conduce, e seco stassi,
Insin che i pronti fabbri intorno vanno,
680 Saldando in lei d’ogni sua piaga il danno.
LXXXVI.
Così Goffredo impone, il qual desia
Che si racconci innanzi al nuovo Sole.
Ed occupando questa e quella via,
684 Dispon le guardie intorno all’alta mole;
Ma il suon dalla Città chiaro s’udia
Di fabbrili instrumenti e di parole,
E mille si vedean fiaccole accese,
688 Onde seppesi il tutto, e si comprese.
Canto dodicesimo
ARGOMENTO.
Prima, da un suo fedel, Clorinda ascolta
Del suo natal l’istoria, e poi sen viene
Ignota al campo, a grand’impresa volta.
Questa tragge ella a fine; indi s’avviene
In Tancredi, da cui l’alma l’è tolta;
Ma ben, anzi ‘l morir, battesmo ottiene.
Piange l’estinta il Prence. Argante giura
Di dar a chi l’uccise aspra ventura.
CANTO DUODECIMO.
Era la notte, e non prendean ristoro
Col sonno ancor le faticose genti:
Ma quì, vegghiando, nel fabbril lavoro
4 Stavano i Franchi alla custodia intenti:
E là i Pagani le difese loro
Gían rinforzando tremule e cadenti,
E reintegrando le già rotte mura:
8 E de’ feriti era comun la cura.
II.
Curate alfin le piaghe, e già finita
Dell’opere notturne era qualch’una:
E rallentando l’altre, al sonno invita
12 L’ombra omai fatta più tacita e bruna.
Pur non accheta la Guerriera ardita
L’alma d’onor famelica e digiuna,
E sollecita l’opre, ove altri cessa.
16 Va seco Argante; e dice ella a se stessa:
III.
Ben oggi il Re de’ Turchi, e ‘l buon Argante
Fer maraviglie inusitate e strane:
Chè soli uscir fra tante schiere e tante,
20 E vi spezzar le machine Cristiane.
Io (questo è il sommo pregio onde mi vante)
D’alto, rinchiusa, oprai l’armi lontane,
Sagittaria (nol nego) assai felice.
24 Dunque sol tanto a donna, e più non lice?
IV.
Quanto me’ fora in monte, od in foresta
Alle fere avventar dardi e quadrella;
Ch’ove il maschio valor si manifesta
28 Mostrarmi quì tra’ cavalier donzella.
Chè non riprendo la femminea vesta,
S’io ne son degna, e non mi chiudo in cella?
Così parla tra se; pensa, e risolve
32 Alfin gran cose, ed al guerrier si volve.
V.
Buona pezza è, Signor, che in se raggira
Un non so chè d’insolito e d’audace
&nb
sp; La mia mente inquieta: o Dio l’inspira,
36 O l’uom del suo voler suo Dio si face.
Fuor del vallo nemico accesi mira
I lumi: io là n’andrò con ferro e face,
E la torre arderò: vogl’io che questo
40 Effetto segua, il Ciel poi curi il resto.
VI.
Ma s’egli avverrà pur che mia ventura
Nel mio ritorno mi rinchiuda il passo;
D’uom, che in amor m’è padre, a te la cura
44 E delle fide mie donzelle io lasso.
Tu nell’Egitto rimandar procura
Le donne sconsolate, e ‘l vecchio lasso.
Fallo, per Dio, Signor; chè di pietate
48 Ben è degno quel sesso, e quella etate.
VII.
Stupisce Argante, e ripercosso il petto
Da stimoli di gloria acuti sente.
Tu là n’andrai, rispose, e me negletto
52 Qui lascierai tra la volgare gente?
E da sicura parte avrò diletto
Mirar il fumo e la favilla ardente?
No, no, se fui nell’arme a te consorte,
56 Esser vuò nella gloria e nella morte.
VIII.
Ho core anch’io che morte sprezza, e crede
Che ben si cambi con l’onor la vita.
Ben ne festi, diss’ella, eterna fede
60 Con quella tua sì generosa uscita.
Pure io femmina sono, e nulla riede
Mia morte in danno alla Città smarrita.
Ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augurj)
64 Or chi sarà che più difenda i muri?
IX.
Replicò il Cavaliero: indarno adduci
Al mio fermo voler fallaci scuse.
Seguirò l’orme tue, se mi conduci;
68 Ma le precorrerò, se mi ricuse.
Concordi al Re ne vanno, il qual fra i duci
E fra i più saggj suoi gli accolse e chiuse.
E incominciò Clorinda: o Sire, attendi
72 A ciò che dir voglianti, e in grado il prendi.
X.
Argante quì (nè sarà vano il vanto)
Quella machina eccelsa arder promette.
Io sarò seco: ed aspettiam sol tanto
76 Che stanchezza maggiore il sonno allette.
Sollevò il Re le palme, e un lieto pianto
Giù per le crespe guancie a lui cadette:
E, lodato sia tu, disse, ch’ai servi
80 Tuoi volgi gli occhj, e ‘l regno anco mi servi.
XI.
Nè già sì tosto caderà, se tali
Animi forti in sua difesa or sono.
Ma qual poss’io, coppia onorata, eguali
84 Dar ai meriti vostri o laude o dono?
Laudi la fama voi con immortali
Voci di gloria, e ‘l mondo empia del suono.
Premio v’è l’opra stessa, e premio in parte
88 Vi fia del regno mio non poca parte.
XII.
Sì parla il Re canuto; e si ristringe
Or questa or quel teneramente al seno.