Non di morte sei tu, ma di vivaci
Ceneri albergo, ove è riposto Amore:
E ben sento io da te le usate faci
772 Men dolci si, ma non men calde al core.
Deh prendi i miei sospiri, e questi baci
Prendi ch’io bagno di doglioso umore:
E dagli tu, poich’io non posso, almeno
776 Alle amate reliquie ch’hai nel seno.
XCVIII.
Dagli lor tu: chè se mai gli occhj gira
L’anima bella alle sue belle spoglie;
Tua pietate e mio ardir non avrà in ira,
780 Chè odio o sdegno là su non si raccoglie.
Perdona ella il mio fallo: e sol respira
In questa speme il cor fra tante doglie.
Sa ch’empia è sol la mano: e non l’è noja,
784 Che s’amando lei, vissi; amando moja.
XCIX.
Ed amando morrò: felice giorno,
Quando che sia; ma più felice molto,
Se come errando or vado a te d’intorno,
788 Allor sarò dentro al tuo grembo accolto.
Faccian l’anime amiche in Ciel soggiorno;
Sia l’un cenere e l’altro in un sepolto:
Ciò che ‘l viver non ebbe, abbia la morte.
792 Oh (se sperar ciò lice) altera sorte!
C.
Confusamente si bisbiglia intanto
Del caso reo nella rinchiusa terra.
Poi s’accerta e divulga: e in ogni canto
796 Della Città smarrita il romor erra
Misto di gridi, e di femmineo pianto:
Non altramente che se presa in guerra
Tutta ruini: e ‘l foco, e i nemici empj
800 Volino per le case, e per i tempj.
CI.
Ma tutti gli occhj Arsete in se rivolve,
Miserabil di gemito e d’aspetto.
Ei, come gli altri, in lagrime non solve
804 Il duol, che troppo è d’indurato affetto;
Ma i bianchi crini suoi d’immonda polve
Si sparge e brutta, e fiede il volto e ‘l petto.
Or mentre in lui volte le turbe sono,
808 Va in mezzo Argante, e parla in cotal suono:
CII.
Ben volev’io, quando primier m’accorsi
Che fuor si rimanea la donna forte,
Seguirla immantinente, e ratto corsi
812 Per correr seco una medesma sorte.
Chè non feci, e non dissi? o quai non porsi
Preghiere al Re chè fesse aprir le porte?
Ei me, pregante e contendente invano,
816 Con l’imperio affrenò che ha quì sovrano.
CIII.
Ahi che s’io allora usciva, o dal periglio
Quì ricondotta la guerriera avrei,
O chiusi, ov’ella il terren fè vermiglio,
820 Con memorabil fine i giorni miei.
Ma che poteva io più? Parve al consiglio
Degli uomini altramente, e degli Dei.
Ella morì di fatal morte, ed io
824 Quant’or conviensi a me già non oblio.
CIV.
Odi, Gerusalem, ciò che prometta
Argante: odil tu Cielo: e se in ciò manco,
Fulmina sul mio capo: io la vendetta
828 Giuro di far, nell’omicida Franco,
Che per la costei morte a me s’aspetta:
Nè questa spada mai depor dal fianco,
Insin ch’ella a Tancredi il cor non passi,
832 E ‘l cadavero infame ai corvi lassi.
CV.
Così disse egli: e l’aure popolari
Con applauso seguir le voci estreme.
E immaginando sol, temprò gli amari
836 L’aspettata vendetta in quel che geme.
O vani giuramenti! Ecco contrarj
Seguir tosto gli effetti all’alta speme:
E cader questi, in tenzon pari, estinto
840 Sotto colui ch’ei fa già preso e vinto.
Canto tredicesimo
ARGOMENTO.
A custodir la selva Ismeno caccia
Gli empj Demonj; e questi in strani mostri
Conversi, sol l’aspetto lor discaccia
Quei che van per tagliar gli ombrosi chiostri.
Vavvi Tancredi con sicura faccia;
Ma pietà il tien che ‘l suo valor non mostri.
Il campo, cui soverchia arsura offende,
Copiosa pioggia vigoroso rende.
CANTO DECIMOTERZO.
Ma cade appena in cenere l’immensa
Machina espugnatrice delle mura;
Che in se novi argomenti Ismen ripensa
4 Perchè più resti la Città sicura:
Onde ai Franchi impedir ciò che dispensa
Lor di materia il bosco egli procura:
Tal che, contra Sion battuta e scossa,
8 Torre nova rifarsi indi non possa.
II.
Sorge non lunge alle Cristiane tende
Tra solitarie valli alta foresta,
Foltissima di piante antiche orrende
12 Che spargon d’ogn’intorno ombra funesta.
Quì nell’ora che ‘l Sol più chiaro splende,
È luce incerta e scolorita e mesta;
Quale in nubilo Ciel dubbia si vede,
16 Se ‘l dì alla notte, o s’ella a lui succede.
III.
Ma quando parte il Sol, quì tosto adombra
Notte, nube, caligine, ed orrore
Che rassembra infernal, che gli occhj ingombra
20 Di cecità, ch’empie di tema il core.
Nè quì gregge od armenti, a’ paschi all’ombra
Guida bifolco mai, guida pastore:
Nè v’entra peregrin, se non smarrito,
24 Ma lunge passa, e la dimostra a dito.
IV.
Quì s’adunan le streghe, ed il suo vago
Con ciascuna di lor, notturno, viene:
Vien sovra i nembi, e chi d’un fero drago,
28 E chi forma d’un irco informe tiene.
Concilio infame, che fallace imago
Suol allettar di desiato bene
A celebrar con pompe immonde e sozze
32 I profani conviti e l’empie nozze.
V.
Così credeasi; ed abitante alcuno
Dal fero bosco mai ramo non svelse:
Ma i Franchi il violar; perch’ei sol uno
36 Somministrava lor machine eccelse.
Or quì sen venne il Mago, e l’opportuno
Alto silenzio della notte scelse:
Della notte che prossima successe,
40 E suo cerchio formovvi, e i segni impresse.
VI.
E scinto, e nudo un piè, nel cerchio accolto,
Mormorò potentissime parole.
Girò tre volte all’Oriente il volto,
44 Tre volte ai regni ove dechina il Sole;
E tre scosse la verga, ond’uom sepolto
Trar della tomba e dargli moto suole;
E tre col piede scalzo il suol percosse;
48 Poi con terribil grido il parlar mosse:
VII.
Udite, udite, o voi che dalle stelle
Precipitar giù i folgori tonanti:
Si, voi che le tempeste e le procelle
52 Movete, abitator dell’aria erranti;
Come voi ch’alle inique anime felle
Ministri sete degli eterni pianti:
Cittadini d’Averno, or quì v’invoco,
56 E te, Signor de’ regni empj del foco.
VIII.
Prendete in guardia questa selva, e queste
Piante che, numerate, a voi consegno.
Come il corpo è dell’alma albergo e veste,
60 Così d’alcun di voi sia ciascun legno:
Onde il Franco ne fugga, o almen s’arreste
Ne’ primi colpi e tema il vostro sdegno.
Disse: e quelle ch’aggiunse orribil note,
64 Lingua, s’empia non è, ridir non puote.
IX.
A quel parlar le faci, onde s’adorna
Il seren della notte, egli scolora:
E la Luna si turba, e le sue corna
68 Di nube avvolge, e non appar più fuora.
Irato i gridi a raddoppiar ei torna:
Spirti invocati, or non venite ancora?
Onde tanto indugiar? forse attendete
72 Voci ancor più potenti, o più secrete?
X.
Per lungo disusar già non si scorda
Dell’arti crude il più efficace ajuto:
E so con lingua anch’io di sangue lorda
76 Quel nome proferir grande e temuto,
A cui nè Dite mai ritrosa o sorda,
Nè trascurato in ubbidir fu Pluto.
Che si? che si? volea più dir; ma intanto
80 Conobbe ch’eseguito era l’incanto.
XI.
Veniano innumerabili infiniti
Spirti, parte che in aria alberga ed erra,
Parte di quei che son dal fondo usciti
84 Caliginoso e tetro della terra:
Lenti, e del gran divieto anco smarriti
Che impedì loro il trattar l’arme in guerra:
Ma già venirne quì lor non si toglie,
88 E ne’ tronchi albergare e tra le foglie.
XII.
Il Mago, poi ch’omai nulla più manca
Al suo disegno, al Re lieto sen riede:
Signor, lascia ogni dubbio e ‘l cor rinfranca,
92 Chè omai sicura è la regal tua sede.
Nè potrà rinnovar più l’oste Franca
L’alte machine sue, come ella crede.
Così gli dice, e poi di parte in parte
96 Narra i successi della magica arte.
XIII.
Soggiunse appresso: or cosa aggiungo, a queste
Fatte da me, ch’a me non meno aggrada.
Sappi che tosto nel leon celeste
100 Marte col Sol fia ch’ad unirsi vada.
Nè tempreran le fiamme lor moleste
Aure, o nembi di pioggia, o di rugiada:
Chè quanto in Cielo appar, tutto predice
104 Aridissima arsura ed infelice.
XIV.
Onde quì caldo avrem qual l’hanno appena
Gli adusti Nasamoni o i Garamanti.
Pur a noi fia men grave in Città piena
108 D’acque, e d’ombre sì fresche, e d’agj tanti.
Ma i Franchi, in terra asciutta e non amena,
Già non saranlo a tollerar bastanti:
E pria domi dal Ciel, agevolmente
112 Fian poi sconfitti dall’Egizia gente.
XV.
Tu vincerai sedendo, e la fortuna
Non credo io che tentar più ti convegna.
Ma se ‘l Circasso altier, che posa alcuna
116 Non vuole, e benchè onesta anco la sdegna,
T’affretta, come suole, e t’importuna;
Trova modo pur tu ch’a freno il tegna:
Chè molto non andrà che ‘l Cielo amico
120 A te pace darà, guerra al nemico.
XVI.
Or questo udendo , il Re ben s’assicura,
Sì che non teme le nemiche posse.
Già riparate in parte avea le mura
124 Che de’ montoni l’impeto percosse.
Con tutto ciò non rallentò la cura
Di ristorarle ove sian rotte o smosse.
Le turbe tutte, e cittadine e serve,
128 S’impiegan quì: l’opra continua ferve.
XVII.
Ma in questo mezzo il pio Buglion non vuole
Che la forte Cittade invan si batta,
Se non è prima la maggior sua mole,
132 Ed alcuna altra machina rifatta.
E i fabbri al bosco invia che porger suole
Ad uso tal pronta materia ed atta.
Vanno costor su l’alba alla foresta,
136 Ma timor nuovo al suo apparir gli arresta.
XVIII.
Qual semplice bambin mirar non osa
Dove insolite larve abbia presenti;
O come pave nella notte ombrosa,
140 Immaginando pur mostri e portenti;
Così temean, senza saper qual cosa
Siasi quella però che gli sgomenti:
Se non che ‘l timor forse ai sensi finge
144 Maggior prodigj di Chimera, o Sfinge.
XIX.
Torna la turba, e, timida e smarrita
Varia e confonde sì le cose e i detti,
Ch’ella nel riferir n’è poi schernita,
148 Nè son creduti i mostruosi effetti.
Allor vi manda il Capitano ardita
E forte squadra di guerrieri eletti
Perchè sia scorta all’altra, e in eseguire
152 I magisterj suoi le porga ardire.
XX.
Questi appressando ove lor seggio han posto
Gli empj Demonj in quel selvaggio orrore:
Non rimirar le nere ombre sì tosto,
156 Che lor si scosse e tornò ghiaccio il core.
Pur oltre ancor sen gían, tenendo ascosto
Sotto audaci sembianti il vil timore;
E tanto s’avanzar, che lunge poco
160 Erano omai dall’incantato loco.
XXI.
Esce allor della selva un suon repente
Che par rimbombo di terren che treme.
E ‘l mormorar degli Austri in lui si sente,
164 E ‘l pianto d’onda che fra scoglj geme:
Come rugge il leon, fischia il serpente,
Come urla il lupo, e come l’orso freme,
V’odi; e v’odi le trombe, e v’odi il tuono
168 Tanti e sì fatti suoni esprime un suono!
XXII.
In tutti allor s’impallidir le gote,
E la temenza a mille segni apparse.
Nè disciplina tanto, o ragion puote,
172 Ch’osin di gire innanzi, o di fermarse:
Chè all’occulta virtù che gli percuote,
Son le difese loro anguste e scarse.
Fuggono alfine; e un d’essi, in cotal guisa
176 Scusando il fatto, il pio Buglion n’avvisa.
XXIII.
Signor, non è di noi chi più si vante
Troncar la selva; ch’ella è sì guardata,
Ch’io credo (e ‘l giurerei) che in quelle piante
180 Abbia la reggia sua Pluton traslata.
Ben ha tre volte e più d’aspro diamante
Ricinto il cor chi intrepido la guata:
Nè senso v’ha colui ch’udir s’arrischia
184 Come, tonando, insieme rugge e fischia.
XXIV.
Così costui parlava. Alcasto v’era,
Fra molti che l’udian, presente a sorte:
Uom di temerità stupida e fera:
188 Sprezzator de’ mortali e della morte:
Che non avria temuto orribil fera,
Nè mostro formidabile ad uom forte,
Nè tremoto, nè folgore, nè vento,
192 Nè s’altro ha il mondo più di violento.
XXV.
Crollava il capo, e sorridea dicendo:
Dove costui non osa, io gir confido:
Io sol quel bosco di troncar intendo
196 Che di torbidi sogni è fatto nido.
Già nol mi vieterà fantasma orrendo,
Nè di selva o d’augei fremito o grido.
O pur tra quei sì spaventosi chiostri
200 D’ir nell’inferno il varco a me si mostri.
XXVI.
Cotal si vanta al Capitano; e, tolta
Da lui licenza, il cavalier s’invia:
E rimira la selva, e poscia ascolta
204 Quel che da lei nuovo rimbombo uscia:
Nè però il piede audace indietro volta,
Ma sicuro e sprezzante è come pria.
E già calcato avrebbe il suol difeso;208Ma gl
i s’oppone (o pargli) un foco acceso.
XXVII.
Cresce il gran foco, e in forma d’alte mura
Stende le fiamme torbide e fumanti:
E ne cinge quel bosco, e l’assicura
212 Ch’altri gli alberi suoi non tronchi o schianti.
Le maggiori sue fiamme hanno figura
Di castelli superbi e torreggianti:
E di tormenti bellici ha munite
216 Le rocche sue questa novella Dìte.
XXVIII.
Oh quanti appajon mostri armati in guarda
Degli alti merli, e in che terribil faccia!
De’ quai con occhj biechi altri il riguarda,
220 E dibattendo l’arme altri il minaccia.
Fugge egli alfine: e ben la fuga è tarda,
Qual di leon che si ritiri in caccia.
Ma pure è fuga: e pur gli scuote il petto
224 Timor, sin a quel punto ignoto affetto.
XXIX.
Non s’avvide esso allor d’aver temuto;
Ma fatto poi lontan ben se n’accorse:
E stupor n’ebbe, e sdegno: e dente acuto
228 D’amaro pentimento il cor gli morse.
E di trista vergogna acceso e muto,
Attonito in disparte i passi torse:
Chè quella faccia alzar, già sì orgogliosa,
232 Nella luce degli uomini non osa.
XXX.
Chiamato da Goffredo, indugia, e scuse
Trova all’indugio; e di restarsi agogna.
Pur va, ma lento: e tien le labbra chiuse,
236 O gli ragiona in guisa d’uom che sogna.
Difetto e fuga il Capitan conchiuse
In lui, da quella insolita vergogna,
Poi disse: or ciò che fia? forse prestigj
240 Son questi, o di natura alti prodigj?
XXXI.
Ma s’alcun v’è cui nobil voglia accenda
Di cercar que’ salvatichi soggiorni;
Vadane pure, e la ventura imprenda,
244 E nunzio almen più certo a noi ritorni.
Così diss’egli; e la gran selva orrenda
Tentata fu ne’ tre seguenti giorni
Da i più famosi: e pur alcun non fue
248 Che non fuggisse alle minacce sue.
XXXII.
Era il Prence Tancredi intanto sorto
A sepellir la sua diletta amica:
E benchè in volto sia languido e smorto,
252 E mal atto a portar elmo o lorica,
Nulladimen, poichè ‘l bisogno ha scorto,
Ei non ricusa il rischio o la fatica:
Chè ‘l cor vivace il suo vigor trasfonde
256 Al corpo sì, che par ch’esso n’abbonde.
XXXIII.
Vassene il valoroso, in se ristretto
E tacito e guardingo, al rischio ignoto:
E sostien della selva il fero aspetto,
260 E ‘l gran romor del tuono e del tremoto:
E nulla sbigottisce: e sol nel petto
Sente, ma tosto il seda, un picciol moto.
Trapassa; ed ecco in quel silvestre loco
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