Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 137

by Torquato Tasso


  264 Sorge improvvisa la Città del foco.

  XXXIV.

  Allor s’arretra, e dubbio alquanto resta,

  Fra sè dicendo: or quì che vaglion l’armi?

  Nelle fauci de’ mostri, e in gola a questa

  268 Divoratrice fiamma andrò a gettarmi?

  Non mai la vita, ove cagione onesta

  Del comun pro la chieda, altri risparmi;

  Ma nè prodigo sia d’anima grande

  272 Uom degno; e tale è ben chi quì la spande.

  XXXV.

  Pur l’oste che dirà se indarno i’ riedo?

  Qual’altra selva ha di troncar speranza?

  Nè intentato lasciar vorrà Goffredo

  276 Mai questo varco; or s’oltre alcun s’avanza?

  Forse l’incendio, che quì sorto i’ vedo,

  Fia d’effetto minor che di sembianza.

  Ma seguane che puote: e in questo dire

  280 Dentro saltovvi. O memorando ardire!

  XXXVI.

  Nè sotto l’arme già sentir gli parve

  Caldo o fervor come di foco intenso:

  Ma pur, se fosser vere fiamme o larve,

  284 Mal potè giudicar sì tosto il senso:

  Perchè repente, appena tocco, sparve

  Quel simulacro, e giunse un nuvol denso

  Che portò notte e verno: e ‘l verno ancora,

  288 E l’ombra dileguossi in picciol’ora.

  XXXVII.

  Stupido si, ma intrepido rimane

  Tancredi: e poi che vede il tutto cheto,

  Mette sicuro il piè nelle profane

  292 Soglie, e spia della selva ogni secreto.

  Nè più apparenze inusitate e strane,

  Nè trova alcun fra via scontro o divieto;

  Se non quanto per se ritarda il bosco

  296 La vista e i passi, inviluppato e fosco.

  XXXVIII.

  Alfine un largo spazio in forma scorge

  d’Anfiteatro: e non è pianta in esso;

  Salvo che nel suo mezzo altero sorge,

  300 Quasi eccelsa piramide, un cipresso.

  Colà si drizza; e, nel mirar, s’accorge

  Ch’era di varj segni il tronco impresso,

  Simili a quei che in vece usò di scritto

  304 L’antico già misterioso Egitto.

  XXXIX.

  Fra i segni ignoti, alcune note ha scorte

  Del sermon di Soria ch’ei ben possiede.

  O tu che dentro ai chiostri della morte

  308 Osasti por, guerriero audace, il piede;

  Deh, se non sei crudel quanto sei forte,

  Deh non turbar questa secreta sede.

  Perdona all’alme omai di luce prive:

  312 Non dee guerra co’ morti aver chi vive.

  XL.

  Così dicea quel motto; egli era intento

  Delle brevi parole ai sensi occulti.

  Fremere intanto udia continuo il vento

  316 Tra le frondi del bosco, e tra i virgulti:

  E trarne un suon che flebile concento

  Par d’umani sospiri e di singulti:

  E un non so che confuso instilla al core

  320 Di pietà, di spavento, e di dolore.

  XLI.

  Pur tragge alfin la spada, e con gran forza

  Percuote l’alta pianta. Oh maraviglia!

  Manda fuor sangue la recisa scorza,

  324 E fa la terra intorno a se vermiglia.

  Tutto si raccapriccia, e pur rinforza

  Il colpo, e ‘l fin vederne ei si consiglia.

  Allor, quasi di tomba, uscir ne sente

  328 Un indistinto gemito dolente;

  XLII.

  Che poi distinto in voci: Ahi troppo, disse,

  M’hai tu, Tancredi, offeso: or tanto basti.

  Tu dal corpo, che meco e per me visse,

  332 Felice albergo già, mi discacciasti:

  Perchè il misero tronco, a cui m’affisse

  Il mio duro destino, anco mi guasti?

  Dopo la morte gli avversarj tuoi,

  336 Crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi?

  XLIII.

  Clorinda fui: nè sol quì spirto umano

  Albergo in questa pianta rozza e dura:

  Ma ciascun altro ancor, Franco o Pagano,

  340 Che lassi i membri a piè dell’alte mura,

  Astretto è quì, da novo incanto e strano,

  Non so, s’io dica in corpo, o in sepoltura.

  Son di senso animati i rami e i tronchi,

  344 E micidial sei tu, se legno tronchi.

  XLIV.

  Qual l’infermo talor che in sogno scorge

  Drago, o cinta di fiamme alta Chimera;

  Sebben sospetta, o in parte anco s’accorge

  348 Che ‘l simulacro sia non forma vera;

  Pur desia di fuggir; tanto gli porge

  Spavento la sembianza orrida e fera!

  Tal il timido amante appien non crede

  352 Ai falsi inganni, e pur ne teme, e cede.

  XLV.

  E dentro, il cor gli è in modo tal conquiso

  Da varj affetti, che s’agghiaccia e trema:

  E nel moto potente ed improvviso

  356 Gli cade il ferro: e ‘l manco è in lui la tema.

  Va fuor di se: presente aver gli è avviso

  L’offesa donna sua che plori e gema:

  Nè può soffrir di rimirar quel sangue,

  360 Nè quei gemiti udir d’egro che langue.

  XLVI.

  Così quel contra morte audace core

  Nulla forma turbò d’alto spavento;

  Ma lui, che solo è fievole in amore,

  364 Falsa imago deluse, e van lamento.

  Il suo caduto ferro intanto fuore

  Portò del bosco impetuoso vento;

  Sicchè vinto partissi: e in su la strada

  368 Ritrovò poscia e ripigliò la spada.

  XLVII.

  Pur non tornò, nè ritentando ardío

  Spiar di novo le cagioni ascose.

  E poi che, giunto al sommo Duce, unío

  372 Gli spirti alquanto e l’animo compose:

  Incominciò: Signor, nunzio son io

  Di non credute e non credibil cose.

  Ciò che dicean dello spettacol fero

  376 E del suon paventoso, è tutto vero.

  XLVIII.

  Maraviglioso foco indi m’apparse,

  Senza materia in un istante appreso:

  Che sorse, e, dilatando, un muro farse

  380 Parve, e d’armati mostri esser difeso.

  Pur vi passai: chè nè l’incendio m’arse,

  Nè dal ferro mi fu l’andar conteso.

  Vernò in quel punto, ed annottò: fè il giorno

  384 E la serenità poscia ritorno.

  XLIX.

  Di più dirò; ch’agli alberi dà vita

  Spirito uman che sente e che ragiona.

  Per prova sollo; io n’ho la voce udita

  388 Che nel cor flebilmente anco mi suona.

  Stilla sangue de’ tronchi ogni ferita,

  Quasi di molle carne abbian persona.

  No, no, più non potrei (vinto mi chiamo)

  392 Nè corteccia scorzar, nè sveller ramo.

  L.

  Così dice egli; e ‘l Capitano ondeggia

  In gran tempesta di pensieri intanto.

  Pensa s’egli medesmo andar là deggia

  396 (Chè tal lo stima) a ritentar l’incanto:

  O se pur di materia altra proveggia

  Lontana più, ma non difficil tanto.

  Ma dal profondo de’ pensieri suoi

  400 L’Eremita il rappella, e dice poi:

  LI.

  Lascia il pensier audace; altri conviene

  Che delle piante sue la selva spoglie.

  Già già la fatal nave all’erme arene

  404 La prora accosta, e l’auree vele accoglie.

  Già, rotte le indegnissime catene,

  L’aspettato Guerrier da
l lido scioglie.

  Non è lontana omai l’ora prescritta

  408 Che sia presa Sion, l’oste sconfitta.

  LII.

  Parla ei così, fatto di fiamma in volto,

  E risuona più ch’uomo in sue parole.

  E ‘l pio Goffredo a pensier nuovi è volto;

  412 Chè neghittoso già cessar non vuole.

  Ma nel Cancro celeste omai raccolto

  Apporta arsura inusitata il Sole:

  Ch’a’ suoi disegni, a’ suoi guerrier nemica

  416 Insopportabil rende ogni fatica.

  LIII.

  Spenta è del Cielo ogni benigna lampa,

  Signoreggiano in lui crudeli stelle:

  Onde piove virtù che informa e stampa

  420 L’aria d’impression maligne e felle.

  Cresce l’ardor nocivo, e sempre avvampa

  Più mortalmente in queste parti e in quelle:

  A giorno reo notte più rea succede,

  424 E dì peggior di lei dopo lei vede.

  LIV.

  Non esce il Sol giammai che, asperso e cinto

  Di sanguigni vapori entro e d’intorno,

  Non mostri nella fronte assai distinto

  428 Mesto presagio d’infelice giorno.

  Non parte mai che, in rosse macchie tinto,

  Non minacci egual noja al suo ritorno:

  E non inaspri i già sofferti danni

  432 Con certa tema di futuri affanni.

  LV.

  Mentre egli i raggj poi d’alto diffonde,

  Quanto d’intorno occhio mortal si gira,

  Seccarsi i fiori, e impallidir le fronde,

  436 Assetate languir l’erbe rimira,

  E fendersi la terra, e scemar l’onde,

  Ogni cosa del Ciel soggetta all’ira:

  E le sterili nubi in aria sparse

  440 In sembianza di fiamme altrui mostrarse.

  LVI.

  Sembra il Ciel nell’aspetto atra fornace:

  Nè cosa appar che gli occhj almen ristaure.

  Nelle spelonche sue Zefiro tace:

  444 E in tutto è fermo il vaneggiar dell’aure.

  Solo vi soffia (e par vampa di face)

  Vento che move dalle arene Maure:

  Che gravoso e spiacente, e seno e gote

  448 Co’ densi fiati ad or ad or percuote.

  LVII.

  Non ha poscia la notte ombre più liete,

  Ma del caldo del Sol pajono impresse:

  E di travi di foco, e di comete,

  452 E d’altri fregj ardenti il velo intesse.

  Nè pur, misera terra, alla tua sete

  Son dall’avara Luna almen concesse

  Sue rugiadose stille; e l’erbe e i fiori

  456 Bramano indarno i lor vitali umori.

  LVIII.

  Dalle notti inquiete il dolce sonno

  Bandito fugge: e i languidi mortali,

  Lusingando, ritrarlo a se non ponno;

  460 Ma pur la sete è il pessimo de’ mali:

  Perocchè di Giudea l’iniquo Donno,

  Con veneni e con succhi, aspri e mortali

  Più dell’inferna Stige e d’Acheronte,

  464 Torbido fece e livido ogni fonte.

  LIX.

  E il picciol Siloè, che puro e mondo

  Offria cortese ai Franchi il suo tesoro,

  Or di tepide linfe appena il fondo

  468 Arido copre, e dà scarso ristoro.

  Nè il Po, qualor di Maggio è più profondo,

  Parria soverchio ai desiderj loro:

  Nè il Gange, o ‘l Nilo allor che non s’appaga

  472 De’ sette alberghi, e ‘l verde Egitto allaga.

  LX.

  S’alcun giammai tra frondeggianti rive

  Puro vide stagnar liquido argento:

  O giù precipitose ir acque vive

  476 Per Alpe, o in piaggia erbosa a passo lento;

  Quelle al vago desio forma e descrive,

  E ministra materia al suo tormento;

  Chè l’immagine lor gelida e molle

  480 L’asciuga e scalda, e nel pensier ribolle.

  LXI.

  Vedi le membra de’ guerrier robuste,

  Cui nè cammin per aspra terra preso,

  Nè ferrea salma, onde gir sempre onuste,

  484 Nè domò ferro alla lor morte inteso;

  Ch’or risolute, e dal calore aduste,

  Giacciono a se medesme inutil peso.

  E vive nelle vene occulto foco,

  488 Che pascendo le strugge a poco a poco.

  LXII.

  Langue il corsier già sì feroce, e l’erba

  Che fu suo caro cibo a schifo prende:

  Vacilla il piede infermo, e la superba

  492 Cervice dianzi, or giù dimessa pende.

  Memoria di sue palme or più non serba:

  Nè più nobil di gloria amor l’accende.

  Le vincitrici spoglie e i ricchi fregj

  496 Par che, quasi vil soma, odj e dispregi.

  LXIII.

  Languisce il fido cane, ed ogni cura

  Del caro albergo e del signor oblia:

  Giace disteso, ed alla interna arsura,

  500 Sempre anelando, aure novelle invia.

  Ma se altrui diede il respirar natura,

  Perchè il caldo del cor temprato sia;

  Or nulla o poco refrigerio n’have:504Sì quello, onde si spira, è denso e grave.

  LXIV.

  Così languia la terra, e in tale stato

  Egri giaceansi i miseri mortali:

  E ‘l buon popol fedel, già disperato

  508 Di vittoria, temea gli ultimi mali:

  E risonar s’udia per ogni lato

  Universal lamento in voci tali:

  Che più spera Goffredo? o che più bada?

  512 Sinchè tutto il suo campo a morte vada?

  LXV.

  Deh con quai forze superar si crede

  Gli alti ripari de’ nemici nostri?

  Onde machine attende? ei sol non vede

  516 L’ira del Cielo a tanti segni mostri?

  Della sua mente avversa a noi fan fede

  Mille novi prodigj, e mille mostri:

  Ed arde a noi sì il Sol, che minor uopo

  520 Di refrigerio ha l’Indo e l’Etiópo.

  LXVI.

  Dunque stima costui che nulla importe

  Che n’andiam noi, turba negletta indegna,

  Vili ed inutil alme a dura morte,

  524 Purch’ei lo scettro imperial mantegna?

  Cotanto dunque fortunata sorte

  Rassembra quella di colui che regna,

  Che ritener si cerca avidamente

  528 A danno ancor della soggetta gente?

  LXVII.

  Or mira d’uom c’ha il titolo di pio,

  Provvidenza pietosa, animo umano;

  La salute de’ suoi porre in oblio,

  532 Per conservarsi onor dannoso e vano.

  E veggendo a noi secchi i fonti e ‘l rio,

  Per se l’acque condur fin dal Giordano:

  E fra pochi sedendo a mensa lieta

  536 Mescolar l’onde fresche al vin di Creta.

  LXVIII.

  Così i Franchi dicean; ma ‘l Duce Greco

  Che il lor vessillo è di seguir già stanco,

  Perchè morir quì, disse, e perchè meco

  540 Far che la schiera mia ne vegna manco?

  Se nella sua follia Goffredo è cieco,

  Siasi in suo danno, e del suo popol Franco:

  A noi che nuoce? E senza tor licenza,

  544 Notturna fece e tacita partenza.

  LXIX.

  Mosse l’esempio assai, come al dì chiaro

  Fu noto: e d’imitarlo alcun risolve.

  Quei che seguir Clotareo, ed Ademaro,

  548 E gli altri Duci ch’or son ossa e polve,

  Poi che la fede che a color giuraro,

  Ha disciolto colei che tutto solve,

  Già trattano di fuga: e già q
ualch’uno

  552 Parte furtivamente all’aer bruno.

  LXX.

  Ben se l’ode Goffredo, e ben se ‘l vede:

  E i più aspri rimedj avria ben pronti;

  Ma gli schiva ed abborre: e con la fede

  556 Che faria stare i fiumi, e gir i monti,

  Devotamente al Re del mondo chiede

  Che gli apra omai della sua grazia i fonti;

  Giunge le palme, e fiammeggianti in zelo

  560 Gli occhj rivolge e le parole al Cielo.

  LXXI.

  Padre e Signor, se al popol tuo piovesti

  Già le dolci rugiade entro al deserto:

  Se a mortal mano già virtù porgesti

  564 Romper le pietre, e trar del monte aperto

  Un vivo fiume; or rinnovella in questi

  Gli stessi esempj: e se ineguale è il merto,

  Adempi di tua grazia i lor difetti:568E giovi lor che tuoi guerrier sian detti.

  LXXII.

  Tarde non furon già queste preghiere,

  Che derivar da giusto umil desio;

  Ma sen volaro al Ciel pronte e leggiere,

  572 Come pennuti augelli, innanzi a Dio.

  Le accolse il Padre eterno, ed alle schiere

  Fedeli sue rivolse il guardo pio:

  E di sì gravi lor rischj e fatiche

  576 Gl’increbbe, e disse con parole amiche:

  LXXIII.

  Abbia sin quì sue dure e perigliose

  Avversità sofferto il campo amato:

  E contra lui, con armi ed arti ascose,

  580 Siasi l’inferno e siasi il mondo armato.

  Or cominci novello ordin di cose,

  E gli si volga prospero e beato:

  Piova, e ritorni il suo Guerriero invitto;584E venga, a gloria sua, l’oste d’Egitto.

  LXXIV.

  Così dicendo, il capo mosse: e gli ampj

  Cieli tremaro, e i lumi erranti, e i fissi:

  E tremò l’aria riverente, e i campi

  588 Dell’Oceano, e i monti, e i ciechi abissi.

  Fiammeggiare a sinistra accesi lampi

  Fur visti, e chiaro tuono insieme udissi.

  Accompagnan le genti il lampo e ‘l tuono

  592 Con allegro di voci ed alto suono.

  LXXV.

  Ecco subite nubi; e non di terra

  Già, per virtù del Sole, in alto ascese;

  Ma giù dal Ciel, che tutte apre e disserra

  596 Le porte sue, veloci in giù discese.

  Ecco notte improvvisa il giorno serra

  Nell’ombre sue, che d’ogni intorno ha stese.

  Segue la pioggia impetuosa, e cresce

  600 Il rio così, che fuor del letto n’esce.

  LXXVI.

  Come talor nella stagione estiva,

  Se dal Ciel pioggia desiata scende,

  Stuol d’anitre loquaci in secca riva

  604 Con rauco mormorar lieto l’attende:

  E spiega l’ali al freddo umor, nè schiva

  Alcuna di bagnarsi in lui si rende:

  E là ‘ve in maggior copia ei si raccoglia,

  608 Si tuffa, e spegne l’assetata voglia;

 

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