Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 138

by Torquato Tasso


  LXXVII.

  Così gridando, la cadente piova,

  Che la destra del Ciel pietosa versa,

  Lieti salutan questi: a ciascun giova

  612 La chioma averne, non che ‘l manto, aspersa.

  Chi bee ne’ vetri, e chi negli elmi a prova:

  Chi tien la man nella fresca onda immersa:

  Chi se ne spruzza il volto, e chi le tempie:

  616 Chi scaltro a miglior uso i vasi n’empie.

  LXXVIII.

  Nè pur l’umana gente or si rallegra,

  E de’ suoi danni a ristorar si viene;

  Ma la terra, che dianzi afflitta ed egra

  620 Di fessure le membra avea ripiene,

  La pioggia in se raccoglie, e si rintegra,

  E la comparte alle più interne vene:

  E largamente i nutritivi umori

  624 Alle piante ministra, all’erbe, ai fiori.

  LXXIX.

  Ed inferma somiglia, a cui vitale

  Succo l’interne parti arse rinfresca:

  E disgombrando la cagion del male,

  628 A cui le membra sue fur cibo ed esca;

  La rinfranca, e ristora, e rende quale

  Fu nella sua stagion più verde e fresca:

  Tal ch’obliando i suoi passati affanni

  632 Le ghirlande ripiglia, e i lieti panni.

  LXXX.

  Cessa la pioggia alfine, e torna il Sole:

  Ma dolce spiega e temperato il raggio,

  Pien di maschio valor, siccome suole

  636 Tra ‘l fin d’Aprile, e il cominciar di Maggio.

  Oh fidanza gentil! chi Dio ben cole,

  L’aria sgombrar d’ogni mortale oltraggio:

  Cangiare alle stagioni ordine e stato:

  640 Vincer la rabbia delle stelle, e ‘l fato.

  Canto quattordicesimo

  ARGOMENTO.

  Intende in sogno il Capitan Francese

  Come Dio vuol che si richiami all’oste

  Il buon Rinaldo: ond’egli poi cortese

  De’ Principi risponde alle proposte.

  Ma Piero che già prima il tutto intese,

  I messi invia là dov’han cortese oste

  Un mago; il qual lor pria d’Armida scopre

  Gli occulti inganni, indi gli ajuta all’opre.

  CANTO DECIMOQUARTO.

  Usciva omai dal molle e fresco grembo

  Della gran madre sua la notte oscura;

  Aure lievi portando, e largo nembo

  4 Di sua rugiada preziosa e pura:

  E scuotendo del vel l’umido lembo

  Ne spargeva i fioretti e la verdura:

  E i venticelli, dibattendo l’ali,

  8 Lusingavano il sonno de’ mortali.

  II.

  Ed essi ogni pensier, che ‘l dì conduce,

  Tuffato aveano in dolce oblio profondo.

  Ma vigilando nell’eterna luce

  12 Sedeva al suo governo il Re del mondo:

  E rivolgea dal Cielo al Franco Duce

  Lo sguardo favorevole e giocondo.

  Quinci a lui n’inviava un sogno cheto,

  16 Perchè gli rivelasse alto decreto.

  III.

  Non lunge all’auree porte ond’esce il Sole,

  È cristallina porta in Oriente

  Che, per costume, innanzi aprir si suole

  20 Che si dischiuda l’uscio al dì nascente.

  Da questa escono i sogni, i quai Dio vuole

  Mandar per grazia a pura e casta mente.

  Da questa or quel ch’al pio Buglion discende,

  24 L’ali dorate inverso lui distende.

  IV.

  Nulla mai vision nel sonno offerse

  Altrui sì vaghe immagini o sì belle,

  Come ora questa a lui, la qual gli aperse

  28 I secreti del Cielo e delle stelle.

  Onde, siccome entro uno speglio, ei scerse

  Ciò che là suso è veramente in elle.

  Pareagli esser traslato in un sereno

  32 Candido, e d’auree fiamme adorno e pieno.

  V.

  E mentre ammira in quell’eccelso loco

  L’ampiezza, i moti, i lumi, e l’armonia:

  Ecco, cinto di rai cinto di foco,

  36 Un cavaliero incontra a lui venia.

  E in suono, a lato a cui sarebbe roco

  Qual più dolce è qua giù, parlar l’udia:

  Goffredo, non m’accogli? e non ragione

  40 Al fido amico? or non conosci Ugone?

  VI.

  Ed ei gli rispondea: quel nuovo aspetto

  Che par d’un Sol mirabilmente adorno,

  Dall’antica notizia il mio intelletto

  44 Sviato ha sì, che tardi a lui ritorno.

  Gli stendea poi con dolce amico affetto

  Tre fiate le braccia al collo intorno:

  E tre fiate invan cinta l’imago

  48 Fuggia, qual leve sogno od aer vago.

  VII.

  Sorridea quegli: e, non già come credi,

  Dicea, son cinto di terrena veste:

  Semplice forma, e nudo spirto vedi

  52 Quì, cittadin della Città celeste.

  Questo è tempio di Dio: quì son le sedi

  De’ suoi guerrieri, e tu avrai loco in queste.

  Quando ciò fia? rispose; il mortal laccio

  56 Sciolgasi omai, s’al restar quì m’è impaccio.

  VIII.

  Ben, replicogli Ugon, tosto raccolto

  Nella gloria sarai de’ trionfanti.

  Pur, militando, converrà che molto

  60 Sangue e sudor là giù tu versi innanti.

  Da te prima ai Pagani esser ritolto

  Deve l’imperio de’ paesi santi:

  E stabilirsi in lor Cristiana reggia,

  64 In cui regnare il tuo fratel poi deggia.

  IX.

  Ma perchè più lo tuo desir s’avvive

  Nell’amor di qua su, più fiso or mira

  Questi lucidi alberghi e queste vive

  68 Fiamme, che mente eterna informa e gira:

  E in angeliche tempre odi le dive

  Sirene, e ‘l suon di lor celeste lira.

  China (poi disse, e gli additò la terra)

  72 Gli occhj a ciò che quel globo ultimo serra.

  X.

  Quanto è vil la cagion ch’alla virtude

  Umana è colà giù premio e contrasto!

  In che picciolo cerchio, e fra che nude

  76 Solitudini è stretto il vostro fasto!

  Lei, come isola, il mare intorno chiude;

  E lui, ch’or Ocean chiamate or vasto,

  Nulla eguale a tai nomi ha in sè di magno;

  80 Ma è bassa palude, e breve stagno.

  XI.

  Così l’un disse; e l’altro in giuso i lumi

  Volse, quasi sdegnando, e ne sorrise;

  Chè vide un punto sol, mar, terre, e fiumi,

  84 Che quì pajon distinti in tante guise:

  Ed ammirò che pur all’ombre, ai fumi,

  La nostra folle umanità s’affise,

  Servo imperio cercando, e muta fama:

  88 Nè miri il Ciel che a se n’invita e chiama.

  XII.

  Onde rispose: poiche Dio non piace

  Del mio carcer terreno anco disciorme;

  Prego che del cammin ch’è men fallace

  92 Fra gli errori del mondo or tu m’informe.

  È, replicogli Ugon, la via verace

  Questa che tieni: ondi non torcer l’orme.

  Sol che richiami dal lontano esiglio

  96 Il figliuol di Bertoldo, io ti consiglio.

  XIII.

  Perchè se l’alta provvidenza elesse

  Te dell’impresa sommo Capitano;

  Destinò insieme ch’egli esser dovesse

  100 De’ tuoi consiglj esecutor soprano.

  A te le prime parti, a lui concesse

  Son le seconde: tu sei capo, ei mano

  Di questo campo: e sostener sua vec
e

  104 Altrui non puote, e farlo a te non lece.

  XIV.

  A lui sol di troncar non fia disdetto

  Il bosco che ha gl’incanti in sua difesa:

  E da lui il campo tuo che, per difetto

  108 Di gente, inabil sembra a tanta impresa,

  E par che sia di ritirarsi astretto,

  Prenderà maggior forza a nova impresa.

  E i rinforzati muri e d’Oriente

  112 Supererà l’esercito possente.

  XV.

  Tacque; e ‘l Buglion rispose: o quanto grato

  Fora a me che tornasse il cavaliero!

  Voi, che vedete ogni pensier celato,

  116 Sapete s’amo lui, se dico il vero.

  Ma dì, con quai proposte, od in qual lato

  Si deve a lui mandarne il messaggiero?

  Vuoi ch’io preghi, o comandi? E come questo

  120 Atto sarà legittimo ed onesto?

  XVI.

  Allor ripigliò l’altro: il Rege eterno,

  Che te di tante somme grazie onora,

  Vuol che da quegli, onde ti diè il governo,

  124 Tu sia onorato e riverito ancora.

  Però non chieder tu (nè senza scherno

  Forse del sommo imperio il chieder fora)

  Ma richiesto concedi, ed al perdono

  128 Scendi degli altrui preghi al primo suono.

  XVII.

  Guelfo ti pregherà (Dio sì l’inspira)

  Ch’assolva il fier garzon di quell’errore

  In cui trascorse per soverchio d’ira;

  132 Sicchè al campo egli torni, ed al suo onore:

  E bench’or lunge il giovine delira,

  E vaneggia nell’ozio e nell’amore;

  Non dubitar però che in pochi giorni,

  136 Opportuno al grand’uopo, ei non ritorni.

  XVIII.

  Chè ‘l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte

  L’alta notizia de’ secreti sui,

  Saprà drizzare i messaggieri in parte

  140 Ove certe novelle avran di lui.

  E sarà lor dimostro il modo e l’arte

  Di liberarlo, e di condurlo a vui.

  Così alfin tutti i tuoi compagni erranti

  144 Ridurrà il Ciel sotto i tuoi segni santi.

  XIX.

  Or chiuderò il mio dir con una breve

  Conclusion che so ch’a te fia cara.

  Sarà il tuo sangue al suo commisto: e deve

  148 Progenie uscirne gloriosa e chiara.

  Quì tacque, e sparve come fumo leve

  Al vento, o nebbia al Sole arida e rara:

  E sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto

  152 Di gioja e di stupor confuso affetto.

  XX.

  Apre allora le luci il pio Buglione,

  E nato vede e già cresciuto il giorno:

  Onde lascia i riposi, e sovrappone

  156 L’arme alle membra faticose intorno.

  E poco stante a lui nel padiglione

  Veniano i duci al solito soggiorno,

  Ove a consiglio siedono, e per uso

  160 Ciò ch’altrove si fa, quivi è concluso.

  XXI.

  Quivi il buon Guelfo, che il novel pensiero

  Infuso avea nell’inspirata mente,

  Incominciando a ragionar primiero,

  164 Disse a Goffredo: o principe clemente,

  Perdono a chieder ne vegn’io, che in vero

  È perdon di peccato anco recente:

  Onde potrà parer, per avventura,

  168 Frettolosa dimanda ed immatura.

  XXII.

  Ma pensando che chiesto al pio Goffredo

  Per lo forte Rinaldo è tal perdono:

  E riguardando a me che in grazia il chiedo,

  172 Che vile affatto intercessor non sono;

  Agevolmente d’impetrar mi credo

  Questo ch’a tutti fia giovevol dono.

  Deh consenti ch’ei rieda, e che, in ammenda

  176 Del fallo, in pro comune il sangue spenda.

  XXIII.

  E chi sarà, s’egli non è, quel forte

  Ch’osi troncar le spaventose piante?

  Chi girà incontra ai rischj della morte

  180 Con più intrepido petto e più costante?

  Scuoter le mura, ed atterrar le porte

  Vedrailo, e salir solo a tutti innante.

  Rendi al tuo campo omai rendi, per Dio,

  184 Lui ch’è sua alta speme e suo desio.

  XXIV.

  Rendi il nipote a me sì valoroso,

  E pronto esecutor rendi a te stesso:

  Nè soffrir ch’egli torpa in vil riposo;

  188 Ma rendi insieme la sua gloria ad esso.

  Segua il vessillo tuo vittorioso:

  Sia testimonio a sua virtù concesso:

  Faccia opre di se degne in chiara luce,

  192 E rimirando te maestro e duce.

  XXV.

  Così pregava; e ciascun altro i preghi,

  Con favorevol fremito, seguia.

  Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi

  196 La mente a cosa non pensata in pria,

  Come esser può, dicea, che grazia i’ neghi

  Che da voi si dimanda e si desia?

  Ceda il rigore: e sia ragione e legge

  200 Ciò che il consenso universale elegge.

  XXVI.

  Torni Rinaldo, e da quì innanzi affrene

  Più moderato l’impeto dell’ire:

  E risponda con l’opre all’alta spene

  204 Di lui concetta, ed al comun desire.

  Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te conviene:

  Frettoloso egli fia, credo, al venire.

  Tu scegli il messo, e tu l’indrizza dove

  208 Pensi che ‘l fero giovine si trove.

  XXVII.

  Tacque; e disse sorgendo il guerrier Dano:

  Esser io chieggio il messaggier che vada;

  Nè ricuso cammin dubbio o lontano,

  212 Per far il don dell’onorata spada.

  Questi è di cor fortissimo e di mano,

  Onde al buon Guelfo assai l’offerta aggrada.

  Vuol ch’ei sia l’un de’ messi, e che sia l’altro

  216 Ubaldo, uom cauto, ed avveduto, e scaltro.

  XXVIII.

  Veduti Ubaldo, in giovinezza, e cerchi

  Varj costumi avea, varj paesi,

  Peregrinando dai più freddi cerchj

  220 Del nostro mondo agli Etiópi accesi:

  E com’uom che virtute e senno merchi,

  Le favelle, le usanze, e i riti appresi.

  Poscia, in matura età, da Guelfo accolto

  224 Fu tra’ compagni, e caro a lui fu molto.

  XXIX.

  A tai messaggj l’onorata cura

  Di richiamar l’alto campion si diede:

  E gl’indrizzava Guelfo a quelle mura

  228 Tra cui Boemondo ha la sua regia sede;

  Chè per pubblica fama, e per sicura

  Opinion ch’egli vi sia si crede.

  Ma ‘l buon Romito che lor mal diretti

  232 Conosce, entra fra loro, e tronca i detti;

  XXX.

  E dice: o cavalier, seguendo il grido

  Della fallace opinion volgare,

  Duce seguite temerario e infido

  236 Che vi fa gire indarno, e traviare.

  Or d’Ascalona nel propinquo lido

  Itene, dove un fiume entra nel mare.

  Quivi fia che v’appaja uom nostro amico;

  240 Credete a lui: ciò ch’ei diravvi, io ‘l dico.

  XXXI.

  Ei molto per se vede; e molto intese

  Del preveduto vostro alto viaggio,

  Già gran tempo ha, da me: so che cortese

  244 Altrettanto vi fia quanto egli è saggio.

  Così lor disse; e più da lui non chiese

  Carlo, o l’altro che seco iva messaggio;

  Ma furo ubbidienti alle parole

  248 Ch
e spirito divin dettar gli suole.

  XXXII.

  Preser commiato, e sì il desio gli sprona

  Che, senza indugio alcun posti in cammino,

  Drizzaro il lor corso ad Ascalona,

  252 Dove ai lidi si frange il mar vicino.

  E non udian ancor come risuona

  Il roco ed alto fremito marino,

  Quando giunsero a un fiume, il qual di nuova

  256 Acqua accresciuto è per novella piova;

  XXXIII.

  Sicchè non può capir dentro al suo letto,

  E sen va più che stral corrente e presto.

  Mentre essi stan sospesi, a lor, d’aspetto

  260 Venerabile, appare un vecchio onesto

  Coronato di faggio, in lungo e schietto

  Vestir che di lin candido è contesto:

  Scuote questi una verga, e il fiume calca

  264 Co’ piedi asciutti, e contra il corso il valca.

  XXXIV.

  Siccome soglion là vicino al polo,

  S’avvien che ‘l verno i fiumi agghiacci e indure,

  Correr sul Ren le villanelle a stuolo

  268 Con lunghi striscj, e sdrucciolar sicure,

  Tal ei ne vien sovra l’instabil suolo

  Di queste acque non gelide e non dure:

  E tosto colà giunse, onde in lui fisse

  272 Tenean le luci i due guerrieri, e disse:

  XXXV.

  Amici, dura e faticosa inchiesta

  Seguite: e d’uopo è ben ch’altri vi guidi;

  Chè il cercato guerrier lunge è da questa

  276 Terra in paesi inospiti ed infidi.

  Quanto, o quanto dell’opra anco vi resta!

  Quanti mar correrete, e quanti lidi!

  E convien che si stenda il cercar vostro

  280 Oltre i confini ancor del mondo nostro.

  XXXVI.

  Ma non vi spiaccia entrar nelle nascose

  Spelonche ov’ho la mia secreta sede:

  Chè ivi udrete da me non lievi cose,

  284 E ciò ch’a voi saper più si richiede.

  Disse; e che lor dia loco all’acqua impose;

  Ed ella tosto si ritira e cede:

  E quinci e quindi, di montagna in guisa,

  288 Curvata pende, e in mezzo appar divisa.

  XXXVII.

  Ei, presigli per man, nelle più interne

  Profondità sotto quel rio lor mena.

  Debile e incerta luce ivi si scerne,

  292 Qual tra’ boschi di Cintia ancor non piena:

  Ma pur gravide d’acque ampie caverne

  Veggiono, onde tra noi sorge ogni vena,

  La qual zampilli in fonte, o in fiume vago

  296 Discorra, o stagni, o si dilati in lago.

  XXXVIII.

  E veder ponno onde il Po nasca, ed onde

  Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi:

  Onde esca pria la Tana: e non asconde

  300 Gli occulti suoi principj il Nilo quivi.

  Trovano un rio più sotto, il qual diffonde

  Vivaci zolfi, e vaghi argenti e vivi.

 

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