LXXVII.
Così gridando, la cadente piova,
Che la destra del Ciel pietosa versa,
Lieti salutan questi: a ciascun giova
612 La chioma averne, non che ‘l manto, aspersa.
Chi bee ne’ vetri, e chi negli elmi a prova:
Chi tien la man nella fresca onda immersa:
Chi se ne spruzza il volto, e chi le tempie:
616 Chi scaltro a miglior uso i vasi n’empie.
LXXVIII.
Nè pur l’umana gente or si rallegra,
E de’ suoi danni a ristorar si viene;
Ma la terra, che dianzi afflitta ed egra
620 Di fessure le membra avea ripiene,
La pioggia in se raccoglie, e si rintegra,
E la comparte alle più interne vene:
E largamente i nutritivi umori
624 Alle piante ministra, all’erbe, ai fiori.
LXXIX.
Ed inferma somiglia, a cui vitale
Succo l’interne parti arse rinfresca:
E disgombrando la cagion del male,
628 A cui le membra sue fur cibo ed esca;
La rinfranca, e ristora, e rende quale
Fu nella sua stagion più verde e fresca:
Tal ch’obliando i suoi passati affanni
632 Le ghirlande ripiglia, e i lieti panni.
LXXX.
Cessa la pioggia alfine, e torna il Sole:
Ma dolce spiega e temperato il raggio,
Pien di maschio valor, siccome suole
636 Tra ‘l fin d’Aprile, e il cominciar di Maggio.
Oh fidanza gentil! chi Dio ben cole,
L’aria sgombrar d’ogni mortale oltraggio:
Cangiare alle stagioni ordine e stato:
640 Vincer la rabbia delle stelle, e ‘l fato.
Canto quattordicesimo
ARGOMENTO.
Intende in sogno il Capitan Francese
Come Dio vuol che si richiami all’oste
Il buon Rinaldo: ond’egli poi cortese
De’ Principi risponde alle proposte.
Ma Piero che già prima il tutto intese,
I messi invia là dov’han cortese oste
Un mago; il qual lor pria d’Armida scopre
Gli occulti inganni, indi gli ajuta all’opre.
CANTO DECIMOQUARTO.
Usciva omai dal molle e fresco grembo
Della gran madre sua la notte oscura;
Aure lievi portando, e largo nembo
4 Di sua rugiada preziosa e pura:
E scuotendo del vel l’umido lembo
Ne spargeva i fioretti e la verdura:
E i venticelli, dibattendo l’ali,
8 Lusingavano il sonno de’ mortali.
II.
Ed essi ogni pensier, che ‘l dì conduce,
Tuffato aveano in dolce oblio profondo.
Ma vigilando nell’eterna luce
12 Sedeva al suo governo il Re del mondo:
E rivolgea dal Cielo al Franco Duce
Lo sguardo favorevole e giocondo.
Quinci a lui n’inviava un sogno cheto,
16 Perchè gli rivelasse alto decreto.
III.
Non lunge all’auree porte ond’esce il Sole,
È cristallina porta in Oriente
Che, per costume, innanzi aprir si suole
20 Che si dischiuda l’uscio al dì nascente.
Da questa escono i sogni, i quai Dio vuole
Mandar per grazia a pura e casta mente.
Da questa or quel ch’al pio Buglion discende,
24 L’ali dorate inverso lui distende.
IV.
Nulla mai vision nel sonno offerse
Altrui sì vaghe immagini o sì belle,
Come ora questa a lui, la qual gli aperse
28 I secreti del Cielo e delle stelle.
Onde, siccome entro uno speglio, ei scerse
Ciò che là suso è veramente in elle.
Pareagli esser traslato in un sereno
32 Candido, e d’auree fiamme adorno e pieno.
V.
E mentre ammira in quell’eccelso loco
L’ampiezza, i moti, i lumi, e l’armonia:
Ecco, cinto di rai cinto di foco,
36 Un cavaliero incontra a lui venia.
E in suono, a lato a cui sarebbe roco
Qual più dolce è qua giù, parlar l’udia:
Goffredo, non m’accogli? e non ragione
40 Al fido amico? or non conosci Ugone?
VI.
Ed ei gli rispondea: quel nuovo aspetto
Che par d’un Sol mirabilmente adorno,
Dall’antica notizia il mio intelletto
44 Sviato ha sì, che tardi a lui ritorno.
Gli stendea poi con dolce amico affetto
Tre fiate le braccia al collo intorno:
E tre fiate invan cinta l’imago
48 Fuggia, qual leve sogno od aer vago.
VII.
Sorridea quegli: e, non già come credi,
Dicea, son cinto di terrena veste:
Semplice forma, e nudo spirto vedi
52 Quì, cittadin della Città celeste.
Questo è tempio di Dio: quì son le sedi
De’ suoi guerrieri, e tu avrai loco in queste.
Quando ciò fia? rispose; il mortal laccio
56 Sciolgasi omai, s’al restar quì m’è impaccio.
VIII.
Ben, replicogli Ugon, tosto raccolto
Nella gloria sarai de’ trionfanti.
Pur, militando, converrà che molto
60 Sangue e sudor là giù tu versi innanti.
Da te prima ai Pagani esser ritolto
Deve l’imperio de’ paesi santi:
E stabilirsi in lor Cristiana reggia,
64 In cui regnare il tuo fratel poi deggia.
IX.
Ma perchè più lo tuo desir s’avvive
Nell’amor di qua su, più fiso or mira
Questi lucidi alberghi e queste vive
68 Fiamme, che mente eterna informa e gira:
E in angeliche tempre odi le dive
Sirene, e ‘l suon di lor celeste lira.
China (poi disse, e gli additò la terra)
72 Gli occhj a ciò che quel globo ultimo serra.
X.
Quanto è vil la cagion ch’alla virtude
Umana è colà giù premio e contrasto!
In che picciolo cerchio, e fra che nude
76 Solitudini è stretto il vostro fasto!
Lei, come isola, il mare intorno chiude;
E lui, ch’or Ocean chiamate or vasto,
Nulla eguale a tai nomi ha in sè di magno;
80 Ma è bassa palude, e breve stagno.
XI.
Così l’un disse; e l’altro in giuso i lumi
Volse, quasi sdegnando, e ne sorrise;
Chè vide un punto sol, mar, terre, e fiumi,
84 Che quì pajon distinti in tante guise:
Ed ammirò che pur all’ombre, ai fumi,
La nostra folle umanità s’affise,
Servo imperio cercando, e muta fama:
88 Nè miri il Ciel che a se n’invita e chiama.
XII.
Onde rispose: poiche Dio non piace
Del mio carcer terreno anco disciorme;
Prego che del cammin ch’è men fallace
92 Fra gli errori del mondo or tu m’informe.
È, replicogli Ugon, la via verace
Questa che tieni: ondi non torcer l’orme.
Sol che richiami dal lontano esiglio
96 Il figliuol di Bertoldo, io ti consiglio.
XIII.
Perchè se l’alta provvidenza elesse
Te dell’impresa sommo Capitano;
Destinò insieme ch’egli esser dovesse
100 De’ tuoi consiglj esecutor soprano.
A te le prime parti, a lui concesse
Son le seconde: tu sei capo, ei mano
Di questo campo: e sostener sua vec
e
104 Altrui non puote, e farlo a te non lece.
XIV.
A lui sol di troncar non fia disdetto
Il bosco che ha gl’incanti in sua difesa:
E da lui il campo tuo che, per difetto
108 Di gente, inabil sembra a tanta impresa,
E par che sia di ritirarsi astretto,
Prenderà maggior forza a nova impresa.
E i rinforzati muri e d’Oriente
112 Supererà l’esercito possente.
XV.
Tacque; e ‘l Buglion rispose: o quanto grato
Fora a me che tornasse il cavaliero!
Voi, che vedete ogni pensier celato,
116 Sapete s’amo lui, se dico il vero.
Ma dì, con quai proposte, od in qual lato
Si deve a lui mandarne il messaggiero?
Vuoi ch’io preghi, o comandi? E come questo
120 Atto sarà legittimo ed onesto?
XVI.
Allor ripigliò l’altro: il Rege eterno,
Che te di tante somme grazie onora,
Vuol che da quegli, onde ti diè il governo,
124 Tu sia onorato e riverito ancora.
Però non chieder tu (nè senza scherno
Forse del sommo imperio il chieder fora)
Ma richiesto concedi, ed al perdono
128 Scendi degli altrui preghi al primo suono.
XVII.
Guelfo ti pregherà (Dio sì l’inspira)
Ch’assolva il fier garzon di quell’errore
In cui trascorse per soverchio d’ira;
132 Sicchè al campo egli torni, ed al suo onore:
E bench’or lunge il giovine delira,
E vaneggia nell’ozio e nell’amore;
Non dubitar però che in pochi giorni,
136 Opportuno al grand’uopo, ei non ritorni.
XVIII.
Chè ‘l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte
L’alta notizia de’ secreti sui,
Saprà drizzare i messaggieri in parte
140 Ove certe novelle avran di lui.
E sarà lor dimostro il modo e l’arte
Di liberarlo, e di condurlo a vui.
Così alfin tutti i tuoi compagni erranti
144 Ridurrà il Ciel sotto i tuoi segni santi.
XIX.
Or chiuderò il mio dir con una breve
Conclusion che so ch’a te fia cara.
Sarà il tuo sangue al suo commisto: e deve
148 Progenie uscirne gloriosa e chiara.
Quì tacque, e sparve come fumo leve
Al vento, o nebbia al Sole arida e rara:
E sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto
152 Di gioja e di stupor confuso affetto.
XX.
Apre allora le luci il pio Buglione,
E nato vede e già cresciuto il giorno:
Onde lascia i riposi, e sovrappone
156 L’arme alle membra faticose intorno.
E poco stante a lui nel padiglione
Veniano i duci al solito soggiorno,
Ove a consiglio siedono, e per uso
160 Ciò ch’altrove si fa, quivi è concluso.
XXI.
Quivi il buon Guelfo, che il novel pensiero
Infuso avea nell’inspirata mente,
Incominciando a ragionar primiero,
164 Disse a Goffredo: o principe clemente,
Perdono a chieder ne vegn’io, che in vero
È perdon di peccato anco recente:
Onde potrà parer, per avventura,
168 Frettolosa dimanda ed immatura.
XXII.
Ma pensando che chiesto al pio Goffredo
Per lo forte Rinaldo è tal perdono:
E riguardando a me che in grazia il chiedo,
172 Che vile affatto intercessor non sono;
Agevolmente d’impetrar mi credo
Questo ch’a tutti fia giovevol dono.
Deh consenti ch’ei rieda, e che, in ammenda
176 Del fallo, in pro comune il sangue spenda.
XXIII.
E chi sarà, s’egli non è, quel forte
Ch’osi troncar le spaventose piante?
Chi girà incontra ai rischj della morte
180 Con più intrepido petto e più costante?
Scuoter le mura, ed atterrar le porte
Vedrailo, e salir solo a tutti innante.
Rendi al tuo campo omai rendi, per Dio,
184 Lui ch’è sua alta speme e suo desio.
XXIV.
Rendi il nipote a me sì valoroso,
E pronto esecutor rendi a te stesso:
Nè soffrir ch’egli torpa in vil riposo;
188 Ma rendi insieme la sua gloria ad esso.
Segua il vessillo tuo vittorioso:
Sia testimonio a sua virtù concesso:
Faccia opre di se degne in chiara luce,
192 E rimirando te maestro e duce.
XXV.
Così pregava; e ciascun altro i preghi,
Con favorevol fremito, seguia.
Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi
196 La mente a cosa non pensata in pria,
Come esser può, dicea, che grazia i’ neghi
Che da voi si dimanda e si desia?
Ceda il rigore: e sia ragione e legge
200 Ciò che il consenso universale elegge.
XXVI.
Torni Rinaldo, e da quì innanzi affrene
Più moderato l’impeto dell’ire:
E risponda con l’opre all’alta spene
204 Di lui concetta, ed al comun desire.
Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te conviene:
Frettoloso egli fia, credo, al venire.
Tu scegli il messo, e tu l’indrizza dove
208 Pensi che ‘l fero giovine si trove.
XXVII.
Tacque; e disse sorgendo il guerrier Dano:
Esser io chieggio il messaggier che vada;
Nè ricuso cammin dubbio o lontano,
212 Per far il don dell’onorata spada.
Questi è di cor fortissimo e di mano,
Onde al buon Guelfo assai l’offerta aggrada.
Vuol ch’ei sia l’un de’ messi, e che sia l’altro
216 Ubaldo, uom cauto, ed avveduto, e scaltro.
XXVIII.
Veduti Ubaldo, in giovinezza, e cerchi
Varj costumi avea, varj paesi,
Peregrinando dai più freddi cerchj
220 Del nostro mondo agli Etiópi accesi:
E com’uom che virtute e senno merchi,
Le favelle, le usanze, e i riti appresi.
Poscia, in matura età, da Guelfo accolto
224 Fu tra’ compagni, e caro a lui fu molto.
XXIX.
A tai messaggj l’onorata cura
Di richiamar l’alto campion si diede:
E gl’indrizzava Guelfo a quelle mura
228 Tra cui Boemondo ha la sua regia sede;
Chè per pubblica fama, e per sicura
Opinion ch’egli vi sia si crede.
Ma ‘l buon Romito che lor mal diretti
232 Conosce, entra fra loro, e tronca i detti;
XXX.
E dice: o cavalier, seguendo il grido
Della fallace opinion volgare,
Duce seguite temerario e infido
236 Che vi fa gire indarno, e traviare.
Or d’Ascalona nel propinquo lido
Itene, dove un fiume entra nel mare.
Quivi fia che v’appaja uom nostro amico;
240 Credete a lui: ciò ch’ei diravvi, io ‘l dico.
XXXI.
Ei molto per se vede; e molto intese
Del preveduto vostro alto viaggio,
Già gran tempo ha, da me: so che cortese
244 Altrettanto vi fia quanto egli è saggio.
Così lor disse; e più da lui non chiese
Carlo, o l’altro che seco iva messaggio;
Ma furo ubbidienti alle parole
248 Ch
e spirito divin dettar gli suole.
XXXII.
Preser commiato, e sì il desio gli sprona
Che, senza indugio alcun posti in cammino,
Drizzaro il lor corso ad Ascalona,
252 Dove ai lidi si frange il mar vicino.
E non udian ancor come risuona
Il roco ed alto fremito marino,
Quando giunsero a un fiume, il qual di nuova
256 Acqua accresciuto è per novella piova;
XXXIII.
Sicchè non può capir dentro al suo letto,
E sen va più che stral corrente e presto.
Mentre essi stan sospesi, a lor, d’aspetto
260 Venerabile, appare un vecchio onesto
Coronato di faggio, in lungo e schietto
Vestir che di lin candido è contesto:
Scuote questi una verga, e il fiume calca
264 Co’ piedi asciutti, e contra il corso il valca.
XXXIV.
Siccome soglion là vicino al polo,
S’avvien che ‘l verno i fiumi agghiacci e indure,
Correr sul Ren le villanelle a stuolo
268 Con lunghi striscj, e sdrucciolar sicure,
Tal ei ne vien sovra l’instabil suolo
Di queste acque non gelide e non dure:
E tosto colà giunse, onde in lui fisse
272 Tenean le luci i due guerrieri, e disse:
XXXV.
Amici, dura e faticosa inchiesta
Seguite: e d’uopo è ben ch’altri vi guidi;
Chè il cercato guerrier lunge è da questa
276 Terra in paesi inospiti ed infidi.
Quanto, o quanto dell’opra anco vi resta!
Quanti mar correrete, e quanti lidi!
E convien che si stenda il cercar vostro
280 Oltre i confini ancor del mondo nostro.
XXXVI.
Ma non vi spiaccia entrar nelle nascose
Spelonche ov’ho la mia secreta sede:
Chè ivi udrete da me non lievi cose,
284 E ciò ch’a voi saper più si richiede.
Disse; e che lor dia loco all’acqua impose;
Ed ella tosto si ritira e cede:
E quinci e quindi, di montagna in guisa,
288 Curvata pende, e in mezzo appar divisa.
XXXVII.
Ei, presigli per man, nelle più interne
Profondità sotto quel rio lor mena.
Debile e incerta luce ivi si scerne,
292 Qual tra’ boschi di Cintia ancor non piena:
Ma pur gravide d’acque ampie caverne
Veggiono, onde tra noi sorge ogni vena,
La qual zampilli in fonte, o in fiume vago
296 Discorra, o stagni, o si dilati in lago.
XXXVIII.
E veder ponno onde il Po nasca, ed onde
Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi:
Onde esca pria la Tana: e non asconde
300 Gli occulti suoi principj il Nilo quivi.
Trovano un rio più sotto, il qual diffonde
Vivaci zolfi, e vaghi argenti e vivi.
Jerusalem Delivered Page 138