Della regal milizia; e v’ha quei tutti,
Che con larga mercè, con degno onore,
228 E per guerra e per pace eran condutti:
Ch’armati a sicurezza, ed a terrore
Vengono in su destrier possenti instrutti:
E de’ purpurei manti, e della luce
232 Dell’acciajo e dell’oro il Ciel riluce.
XXX.
Fra questi è il crudo Alarco, ed Odemaro
Ordinator di squadre, ed Idraorte:
E Rimedon, che per l’audacia è chiaro,
236 Sprezzator de’ mortali, e della morte:
E Tigrane, e Rapoldo il gran corsaro,
Già de’ mari tiranno, e Ormondo il forte,
E Marlabusto Arabico, a chi il nome
240 L’Arabie dier, che ribellanti ha dome.
XXXI.
Evvi Orindo, Arimon, Pirga, Brimarte
Espugnator delle Città, Suifante
Domator de’ cavalli, e tu dell’arte
244 Della lotta maestro, Aridamante,
E Tisaferno il folgore di Marte,
A cui non è chi d’agguagliar si vante,
O se in arcione, o se pedon contrasta,
248 O se rota la spada, o corre l’asta.
XXXII.
Guida un Armen la squadra, il qual tragitto
Al Paganesmo nell’età novella
Fè dalla vera fede: ed ove ditto
252 Fu già Clemente, ora Emiren s’appella:
Per altro uom fido, e caro al Re d’Egitto
Sovra quanti per lui calcar mai sella;
E duce insieme, e cavalier soprano
256 Per cor, per senno, e per valor di mano.
XXXIII.
Nessun più rimanea; quando improvvisa
Armida apparve, e dimostrò sua schiera.
Venia sublime in un gran carro assisa,
260 Succinta in gonna, e faretrata arciera.
E mescolato il novo sdegno in guisa
Col natío dolce in quel bel volto s’era,
Che vigor dalle; e cruda ed acerbetta
264 Par che minacci, e minacciando alletta.
XXXIV.
Somiglia il carro a quel che porta il giorno,
Lucido di pirópi e di giacinti:
E frena il dotto auriga al giogo adorno
268 Quattro unicorni a coppia a coppia avvinti:
Cento donzelle e cento paggj intorno
Pur di faretra gli omeri van cinti,
Ed a bianchi destrier premono il dorso,
272 Che sono al giro pronti, e lievi al corso.
XXXV.
Segue il suo stuolo, ed Aradin con quello
Ch’Idraote assoldò nella Soria.
Come allor che ‘l rinato unico augello
276 I suo’ Etiópi a visitar s’invia,
Vario e vago la piuma, e ricco e bello
Di monil, di corona aurea natía;
Stupisce il mondo, e va dietro ed ai lati,
280 Maravigliando, esercito d’alati:
XXXVI.
Così passa costei, maravigliosa
D’abito, di maniere, e di sembiante.
Non è allor sì inumana o sì ritrosa
284 Alma d’Amor, che non divenga amante.
Veduta appena, e in gravità sdegnosa,
Invaghir può genti sì varie e tante!
Che sarà poi quando, in più lieto viso,
288 Co’ begli occhj lusinghi e col bel riso?
XXXVII.
Ma poi ch’ella è passata, il Re de’ Regi
Comanda ch’Emireno a se nè vegna:
Chè lui preporre a tutti i duci egregj,
292 E duce farlo universal disegna.
Quel, già presago, ai meritati pregj
Con fronte vien che ben del grado è degna:
La guardia de’ Circassi in due si fende
296 E gli fa strada al seggio, ed ei v’ascende.
XXXVIII.
E chino il capo e le ginocchia, al petto
Giunge la destra; e’l Re così gli dice:
Tè questo scettro; a te, Emiren, commetto
300 Le genti, e tu sostieni in lor mia vice:
E porta, liberando il Re soggetto,
Su’ Franchi l’ira mia vendicatrice.
Và, vedi, e vinci: e non lasciar de’ vinti
304 Avanzo, e mena presi i non estinti.
XXXIX.
Così parlò il Tiranno; e del soprano
Imperio il cavalier la verga prese.
Prendo scettro, Signor, d’invitta mano,
308 Disse, e vo co’ tuo’ auspicj all’alte imprese:
E spero in tua virtù, tuo capitano,
Dell’Asia vendicar le gravi offese.
Nè tornerò, se vincitor non torno;
312 E la perdita avrà morte, non scorno.
XL.
Ben prego il Ciel che, s’ordinato male
(Ch’io già nol credo) di là su minaccia;
Tutta sul capo mio quella fatale
316 Tempesta accolta di sfogar gli piaccia:
E salvo rieda il campo, e in trionfale
Più che in funebre pompa il duce giaccia.
Tacque; e seguì co’ popolari accenti
320 Misto un gran suon di barbari instrumenti.
XLI.
E fra le grida e i suoni, in mezzo a densa
Nobile turba, il Re de’ Re si parte:
E giunto alla gran tenda, a lieta mensa
324 Raccoglie i duci, e siede egli in disparte:
Ond’or cibo, or parole altrui dispensa;
Nè lascia inonorata alcuna parte.
Armida all’arte sue ben trova loco
328 Quivi opportun, fra l’allegrezza e ‘l gioco.
XLII.
Ma già tolte le mense, ella che vede
Tutte le viste in se fisse ed intente:
E che a’ segni ben noti omai s’avvede
332 Che sparso è il suo velen per ogni mente:
Sorge, e si volge al Re dalla sua sede
Con atto insieme altero e riverente:
E quanto può, magnanima e feroce
336 Cerca parer nel volto e nella voce.
XLIII.
O Re supremo, dice, anch’io ne vegno
Per la fe, per la patria ad impiegarmi.
Donna son’io; ma regal donna: indegno
340 Già di Reina il guerreggiar non parmi.
Usi ogn’arte regal chi vuole il regno:
Dansi all’istessa man lo scettro, e l’armi.
Saprà la mia (nè torpe al ferro, o langue)
344 Ferire, e trar delle ferite il sangue.
XLIV.
Nè creder che sia questo il dì primiero,
Ch’a ciò nobil m’invoglia alta vaghezza;
Chè in pro di nostra legge, e del tuo impero
348 Son’io già prima a militar avvezza.
Ben rammentar dei tu s’io dico il vero;
Chè d’alcun’opra nostra hai pur contezza:
E sai, che molti de’ maggior campioni
352 Che dispieghin la Croce, io fei prigioni.
XLV.
Da me presi ed avvinti, e da me furo
In magnifico dono a te mandati:
Ed ancor si stariano in fondo oscuro
356 Di perpetua prigion per te guardati:
E saresti ora tu via più sicuro
Di terminar, vincendo, i tuoi gran piati;
Se non che ‘l fier Rinaldo, il qual uccise
360 I miei guerrieri, in libertà gli mise.
XLVI.
Chi sia Rinaldo è noto: e quì di lui
Lunga istoria di cose anco si conta:
Questi è il crudele, ond’aspramente i’ fui
364 Offesa poi, nè vendicata ho l’onta.
Onde sdegno a ragione aggiunge i sui
Stimoli, e più mi rende all’arme pronta.
Ma qual sia la mia ingiuria, a lungo detta
368 Saravvi: or tanto basti. Io vuò vendetta
.
XLVII.
E la procurerò: chè non invano
Soglion portarne ogni saetta i venti.
E la destra del Ciel di giusta mano
372 Drizza l’arme talor contra i nocenti.
Ma s’alcun fia ch’al barbaro inumano
Tronchi il capo odioso, e me ‘l presenti,
A grado avrò questa vendetta ancora;
376 Benchè fatta da me più nobil fora.
XLVIII.
A grado sì, che gli sarà concessa
Quella ch’io posso dar maggior mercede.
Me d’un tesor dotata, e di me stessa,
380 In moglie avrà, se in guiderdon mi chiede.
Così ne faccio quì stabil promessa:
Così ne giuro inviolabil fede:
Or s’alcuno è che stimi i premj nostri
384 Degni del rischio, parli e si dimostri.
XLIX.
Mentre la donna in guisa tal favella,
Adrasto affigge in lei cupidi gli occhj.
Tolga il Ciel, dice poi, che le quadrella
388 Nel barbaro omicida unqua tu scocchi:
Chè non è degno un cor villano, o bella
Saettatrice, che tuo colpo il tocchi.
Atto, dell’ira tua, ministro io sono:
392 Ed io del capo suo ti farò dono.
L.
Io sterperogli il core: io darò in pasto
Le membra lacerate agli avoltoj.
Così parlava l’Indiano Adrasto:
396 Nè soffrì Tisaferno i vanti suoi.
E chi sei, disse, tu che sì gran fasto
Mostri, presente il Re, presenti noi?
Forse è quì tal ch’ogni tuo vanto audace
400 Supererà co’ fatti, e pur si tace.
LI.
Rispose l’Indo fero: io mi sono uno
Ch’appo l’opre il parlare ho scarso e scemo.
Ma s’altrove che quì così importuno
404 Parlavi tu, parlavi il detto estremo.
Seguíto avrian; ma raffrenò ciascuno,
Distendendo la destra, il Re supremo.
Disse ad Armida poi: Donna gentile,
408 Ben hai tu cor magnanimo e virile;
LII.
E ben sei degna, a cui suoi sdegni ed ire
L’uno e l’altro di lor conceda e done:
Perchè tu poscia a voglia tua le gire
412 Contra quel forte predator fellone.
Là fian meglio impiegate; e ‘l loro ardire
Là può chiaro mostrarsi in paragone.
Tacque ciò detto; e quegli offerta nova
416 Fecero a lei di vendicarla a prova.
LIII.
Nè quelli pur, ma qual più in guerra è chiaro
La lingua al vanto ha baldanzosa e presta.
S’offerser tutti a lei: tutti giuraro
420 Vendetta far sull’esecrabil testa:
Tante contra il guerrier, ch’ebbe sì caro,
Arme or costei commove, e sdegni desta!
Ma esso, poi ch’abbandonò la riva,
424 Felicemente al gran corso veniva.
LIV.
Per le medesme vie, che in prima corse,
La navicella in dietro si raggira:
E l’aura ch’alle vele il volo porse,
428 Non men seconda al ritornar vi spira.
Il giovinetto or guarda il Polo, e l’Orse,
Ed or le stelle rilucenti mira,
Via dell’opaca notte; or fiumi, or monti
432 Che sporgono sul mar le alpestre fronti.
LV.
Or lo stato del campo, or il costume
Di varie genti investigando intende.
E tanto van per le salate spume,
436 Che lor dall’Orto il quarto Sol risplende.
E quando omai n’è disparito il lume,
La nave terra finalmente prende.
Disse la donna allor: le Palestine
440 Piaggie son quì: quì del viaggio è il fine.
LVI.
Quinci i tre cavalier sul lido spose,
E sparve in men che non si forma un detto.
Sorgea la notte intanto, e delle cose
444 Confondea i varj aspetti un solo aspetto.
E in quelle solitudini arenose
Essi veder non ponno o muro o tetto:
Nè d’uomo, o di destriero appajon l’orme;
448 Od altro pur, che del cammin gl’informe.
LVII.
Poi che stati sospesi alquanto foro,
Mossero i passi, e dier le spalle al mare:
Ed ecco di lontano agli occhj loro
452 Un non so che di luminoso appare,
Che con raggj d’argento e lampi d’oro
La notte illustra, e fa l’ombre più rare.
Essi ne vanno allor contra la luce:
456 E già veggion chè sia quel che sì luce.
LVIII.
Veggiono a un grosso tronco armi novelle,
Incontra i raggj della Luna, appese:
E fiammeggiar, più che nel Ciel le stelle,
460 Gemme nell’elmo aurato e nell’arnese:
E scoprono a quel lume immagin belle
Nel grande scudo in lungo ordine stese.
Presso, quasi custode, un vecchio siede,
464 Che contra lor sen va, come gli vede.
LIX.
Ben è dai due guerrier riconosciuto
Del saggio amico il venerabil volto.
Ma poi ch’ei ricevè lieto saluto,
468 E ch’ebbe lor cortesemente accolto;
Al giovinetto, il qual tacito e muto
Il riguardava, il ragionar rivolto:
Signor, te sol, gli disse, io quì soletto
472 In cotal’ ora desiando aspetto.
LX.
Chè, se no’l sai, ti sono amico: e quanto
Curi le cose tue chiedilo a questi:
Ch’essi, scorti da me, vinser l’incanto
476 Ove tu vita misera traesti.
Or odi i detti miei contrarj al canto
Delle Sirene, e non ti sian molesti;
Ma gli serba nel cor, fin che distingua
480 Meglio a te il ver più saggia e santa lingua.
LXI.
Signor, non sotto l’ombra in piaggia molle
Tra fonti e fior, tra Ninfe e tra Sirene;
Ma in cima all’erto e faticoso colle
484 Della virtù riposto è il nostro bene.
Chi non gela, e non suda, e non s’estolle
Dalle vie del piacer, là non perviene.
Or vorrai tu lungi dall’alte cime
488 Giacer, quasi tra valli augel sublime?
LXII.
T’alzò Natura inverso il Ciel la fronte,
E ti diè spirti generosi ed alti,
Perchè in su miri: e con illustri e conte
492 Opre, te stesso al sommo pregio esalti.
E ti diè l’ire ancor veloci e pronte;
Non perchè l’usi ne’ civili assalti:
Nè perchè sian di desiderj ingordi
496 Elle ministre, ed a ragion discordi;
LXIII.
Ma perchè il tuo valore, armato d’esse,
Più fero assalga gli avversarj esterni;
E sian con maggior forza indi ripresse
500 Le cupidigie, empj nemici interni.
Dunque nell’uso per cui fur concesse,
Le impieghi il saggio duce, e le governi:
Ed a suo senno or tepide or ardenti
504 Le faccia: ed or le affretti ed or le allenti.
LXIV.
Così parlava; e l’altro attento e cheto
Alle parole sue d’alto consiglio,
Fea de’ detti conserva: e mansueto
508 Volgeva a terra e vergognoso il ciglio.
Ben vide il saggio Veglio il suo secreto,
E gli soggiunse: alza la fronte, o figlio:
E in questo scudo affissa gli occhj omai,
512 Ch’ivi de’ tuoi maggior l’
opre vedrai.
LXV.
Vedrai degli avi il divulgato onore,
Lunge precorso in luogo erto e solingo:
Tu dietro anco riman, lento cursore,
516 Per questo della gloria illustre arringo.
Su su, te stesso incíta: al tuo valore
Sia sferza e spron quel ch’io colà dipingo.
Così diceva; e ‘l cavaliero affisse
520 Lo sguardo là, mentre colui sì disse.
LXVI.
Con sottil magistero, in campo angusto,
Forme infinite espresse il fabbro dotto.
Del sangue d’Azzio glorioso augusto
524 L’ordin vi si vedea nulla interrotto.
Vedeasi dal Roman fonte vetusto
I suoi rivi dedur puro e incorrotto.
Stan coronati i Principi d’alloro:
528 Mostra il Vecchio le guerre, e i pregj loro.
LXVII.
Mostragli Cajo, allor ch’a strane genti
Va prima in preda il già inclinato impero,
Prendere il fren de’ popoli volenti,
532 E farsi d’Este il Principe primiero;
Ed a lui ricovrarsi i men potenti
Vicini, a cui rettor facea mestiero;
Poscia quando ripassa il varco noto
536 Agl’inviti d’Onorio il fero Goto;
LXVIII.
E quando sembra che più avvampi e ferva
Di barbarico incendio Italia tutta:
E quando Roma, prigioniera e serva,
540 Sin dal suo fondo teme esser distrutta;
Mostra ch’Aurelio in libertà conserva
La gente sotto al suo scettro ridutta.
Mostragli poi Foresto che s’oppone
544 All’Unno regnator dell’Aquilone.
LXIX.
Ben si conosce al volto Attila il fello,
Che con occhj di drago par che guati:
Ed ha faccia di cane, ed a vedello
548 Dirai che ringhi, e udir credi i latrati.
Poi vinto il fiero in singolar duello
Mirasi rifuggir tra gli altri armati:
E la difesa d’Aquilea poi torre
552 Il buon Foresto dell’Italia Ettorre.
LXX.
Altrove è la sua morte; e ‘l suo destino
È destin della patria. Ecco l’erede
Del padre grande il gran figlio Acarino,
556 Che all’Italico onor campion succede.
Cedeva ai fati, e non agli Unni Altino:
Poi riparava in più secura sede:
Poi raccoglieva una Città di mille
560 In val di Po case disperse in ville.
LXXI.
Contra il gran fiume, che in diluvio ondeggia,
Muniasi, e quindi la Città sorgea
Che ne’ futuri secoli la reggia
564 De’ magnanimi Estensi esser dovea.
Par che rompa gli Alani: e che si veggia
Contra Odoacro aver poi sorte rea:
E morir per l’Italia. O nobil morte,
568 Che dell’onor paterno il fa consorte!
LXXII.
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