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Paradiso (The Divine Comedy series Book 3)

Page 32

by Dante


  ma chi s’avvede che i vivi suggelli

  d’ogne bellezza più fanno più suso,

  135

  e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,

  escusar puommi di quel ch’io m’accuso

  per escusarmi, e vedermi dir vero:

  ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,

  139

  perché si fa, montando, più sincero.

  PARADISO XV

  Benigna volontade in che si liqua → → →

  sempre l’amor che drittamente spira,

  3

  come cupidità fa ne la iniqua,

  silenzio puose a quella dolce lira, →

  e fece quïetar le sante corde

  6

  che la destra del cielo allenta e tira.

  Come saranno a’ giusti preghi sorde →

  quelle sustanze che, per darmi voglia →

  9

  ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

  Bene è che sanza termine si doglia

  chi, per amor di cosa che non duri

  12

  etternalmente, quello amor si spoglia. →

  Quale per li seren tranquilli e puri →

  discorre ad ora ad or sùbito foco,

  15

  movendo li occhi che stavan sicuri,

  e pare stella che tramuti loco,

  se non che da la parte ond’ e’ s’accende

  18

  nulla sen perde, ed esso dura poco:

  tale dal corno che ’n destro si stende

  a piè di quella croce corse un astro

  21

  de la costellazion che lì resplende;

  né si partì la gemma dal suo nastro, →

  ma per la lista radïal trascorse,

  24

  che parve foco dietro ad alabastro. →

  Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse, →

  se fede merta nostra maggior musa, →

  27

  quando in Eliso del figlio s’accorse.

  “O sanguis meus, O superinfusa → →

  gratïa Deï, sicut tibi cui →

  30

  bis unquam celi ianüa reclusa?” →

  Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui; →

  poscia rivolsi a la mia donna il viso, →

  33

  e quinci e quindi stupefatto fui;

  ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso →

  tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo

  36

  de la mia gloria e del mio paradiso.

  Indi, a udire e a veder giocondo, →

  giunse lo spirto al suo principio cose,

  39

  ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo; →

  né per elezïon mi si nascose, →

  ma per necessità, ché ’l suo concetto

  42

  al segno d’i mortal si soprapuose.

  E quando l’arco de l’ardente affetto →

  fu sì sfogato, che ’l parlar discese

  45

  inver’ lo segno del nostro intelletto,

  la prima cosa che per me s’intese,

  “Benedetto sia tu,” fu, “trino e uno,

  48

  che nel mio seme se’ tanto cortese!” →

  E seguì: “Grato e lontano digiuno,

  tratto leggendo del magno volume → →

  51

  du’ non si muta mai bianco né bruno, →

  solvuto hai, figlio, dentro a questo lume

  in ch’io ti parlo, mercé di colei

  54

  ch’a l’alto volo ti vestì le piume. →

  Tu credi che a me tuo pensier mei →

  da quel ch’è primo, così come raia →

  57

  da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;

  e però ch’io mi sia e perch’ io paia

  più gaudïoso a te, non mi domandi,

  60

  che alcun altro in questa turba gaia.

  Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi

  di questa vita miran ne lo speglio

  63

  in che, prima che pensi, il pensier pandi;

  ma perché ’l sacro amore in che io veglio

  con perpetüa vista e che m’asseta

  66

  di dolce disïar, s’adempia meglio,

  la voce tua sicura, balda e lieta

  suoni la volontà, suoni ’l disio, →

  69

  a che la mia risposta è già decreta!”

  Io mi volsi a Beatrice, e quella udio

  pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno

  72

  che fece crescer l’ali al voler mio. →

  Poi cominciai così: “L’affetto e ’l senno, →

  come la prima equalità v’apparse, →

  75

  d’un peso per ciascun di voi si fenno,

  però che ’l sol che v’allumò e arse,

  col caldo e con la luce è sì iguali,

  78

  che tutte simiglianze sono scarse.

  Ma voglia e argomento ne’ mortali,

  per la cagion ch’a voi è manifesta,

  81

  diversamente son pennuti in ali; →

  ond’ io, che son mortal, mi sento in questa

  disagguaglianza, e però non ringrazio

  84

  se non col core a la paterna festa.

  Ben supplico io a te, vivo topazio →

  che questa gioia prezïosa ingemmi,

  87

  perché mi facci del tuo nome sazio.” →

  “O fronda mia in che io compiacemmi → →

  pur aspettando, io fui la tua radice”:

  90

  cotal principio, rispondendo, femmi.

  Poscia mi disse: “Quel da cui si dice →

  tua cognazione e che cent’ anni e piùe

  93

  girato ha ’l monte in la prima cornice,

  mio figlio fu e tuo bisavol fue:

  ben si convien che la lunga fatica →

  96

  tu li raccorci con l’opere tue.

  Fiorenza dentro da la cerchia antica, →

  ond’ ella toglie ancora e terza e nona,

  99

  si stava in pace, sobria e pudica.

  Non avea catenella, non corona, →

  non gonne contigiate, non cintura

  102

  che fosse a veder più che la persona.

  Non faceva, nascendo, ancor paura →

  la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote

  105

  non fuggien quinci e quindi la misura.

  Non avea case di famiglia vòte; →

  non v’era giunto ancor Sardanapalo →

  108

  a mostrar ciò che ’n camera si puote.

  Non era vinto ancora Montemalo →

  dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto

  111

  nel montar sù, così sarà nel calo.

  Bellincion Berti vid’ io andar cinto →

  di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio

  114

  la donna sua sanza ’l viso dipinto; →

  e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio →

  esser contenti a la pelle scoperta,

  117

  e le sue donne al fuso e al pennecchio.

  Oh fortunate! ciascuna era certa →

  de la sua sepultura, e ancor nulla

  120

  era per Francia nel letto diserta.

  L’una vegghiava a studio de la culla, →

  e, consolando, usava l’idïoma

  123

  che prima i padri e le madri trastulla;

  l’altra, traendo a la rocca la chioma, →

  favoleggiava con la sua famiglia →

  126

  d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

  Saria tenuta allor tal maraviglia →

  una Cianghella, un Lapo Salterello,

  129r />
  qual or saria Cincinnato e Corniglia.

  A così riposato, a così bello → →

  viver di cittadini, a così fida

  132

  cittadinanza, a così dolce ostello,

  Maria mi diè, chiamata in alte grida; →

  e ne l’antico vostro Batisteo

  135

  insieme fui cristiano e Cacciaguida.

  Moronto fu mio frate ed Eliseo; →

  mia donna venne a me di val di Pado, →

  138

  e quindi il sopranome tuo si feo.

  Poi seguitai lo ’mperador Currado; →

  ed el mi cinse de la sua milizia,

  141

  tanto per bene ovrar li venni in grado.

  Dietro li andai incontro a la nequizia

  di quella legge il cui popolo usurpa,

  144

  per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

  Quivi fu’ io da quella gente turpa →

  disviluppato dal mondo fallace,

  lo cui amor molt’anime deturpa;

  148

  e venni dal martiro a questa pace.”

  PARADISO XVI

  O poca nostra nobiltà di sangue, →

  se glorïar di te la gente fai

  3

  qua giù dove l’affetto nostro langue,

  mirabil cosa non mi sarà mai:

  ché là dove appetito non si torce,

  6

  dico nel cielo, io me ne gloriai.

  Ben se’ tu manto che tosto raccorce: →

  sì che, se non s’appon di dì in die,

  9

  lo tempo va dintorno con le force.

  Dal “voi” che prima a Roma s’offerie, →

  in che la sua famiglia men persevra,

  12

  ricominciaron le parole mie;

  onde Beatrice, ch’era un poco scevra, →

  ridendo, parve quella che tossio

  15

  al primo fallo scritto di Ginevra.

  Io cominciai: “Voi siete il padre mio; → →

  voi mi date a parlar tutta baldezza; →

  18

  voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

  Per tanti rivi s’empie d’allegrezza →

  la mente mia, che di sé fa letizia

  21

  perché può sostener che non si spezza.

  Ditemi dunque, cara mia primizia, →

  quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni

  24

  che si segnaro in vostra püerizia;

  ditemi de l’ovil di San Giovanni

  quanto era allora, e chi eran le genti

  27

  tra esso degne di più alti scanni.”

  Come s’avviva a lo spirar d’i venti →

  carbone in fiamma, così vid’ io quella

  30

  luce risplendere a’ miei blandimenti;

  e come a li occhi miei si fé più bella,

  così con voce più dolce e soave,

  33

  ma non con questa moderna favella, →

  dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘Ave’ →

  al parto in che mia madre, ch’è or santa,

  36

  s’allevïò di me ond’ era grave,

  al suo Leon cinquecento cinquanta →

  e trenta fiate venne questo foco

  39

  a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

  Li antichi miei e io nacqui nel loco →

  dove si truova pria l’ultimo sesto

  42

  da quei che corre il vostro annüal gioco. →

  Basti d’i miei maggiori udirne questo: →

  chi ei si fosser e onde venner quivi,

  45

  più è tacer che ragionare onesto.

  Tutti color ch’a quel tempo eran ivi →

  da poter arme tra Marte e ’l Batista, →

  48

  erano il quinto di quei ch’or son vivi.

  Ma la cittadinanza, ch’è or mista

  di Campi, di Certaldo e di Fegghine, →

  51

  pura vediesi ne l’ultimo artista. →

  Oh quanto fora meglio esser vicine →

  quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo

  54

  e a Trespiano aver vostro confine,

  che averle dentro e sostener lo puzzo

  del villan d’Aguglion, di quel da Signa,

  57

  che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

  Se la gente ch’al mondo più traligna →

  non fosse stata a Cesare noverca, →

  60

  ma come madre a suo figlio benigna,

  tal fatto è fiorentino e cambia e merca, →

  che si sarebbe vòlto a Simifonti,

  63

  là dove andava l’avolo a la cerca;

  sariesi Montemurlo ancor de’ Conti; →

  sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,

  66

  e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

  Sempre la confusion de le persone →

  principio fu del mal de la cittade,

  69

  come del vostro il cibo che s’appone;

  e cieco toro più avaccio cade

  che cieco agnello; e molte volte taglia

  72

  più e meglio una che le cinque spade.

  Se tu riguardi Luni e Orbisaglia →

  come sono ite, e come se ne vanno

  75

  di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

  udir come le schiatte si disfanno

  non ti parrà nova cosa né forte,

  78

  poscia che le cittadi termine hanno.

  Le vostre cose tutte hanno lor morte,

  sì come voi; ma celasi in alcuna

  81

  che dura molto, e le vite son corte.

  E come ’l volger del ciel de la luna →

  cuopre e discuopre i liti sanza posa,

  84

  così fa di Fiorenza la Fortuna:

  per che non dee parer mirabil cosa

  ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini

  87

  onde è la fama nel tempo nascosa.

  Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, →

  Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,

  90

  già nel calare, illustri cittadini;

  e vidi così grandi come antichi,

  con quel de la Sannella, quel de l’Arca,

  93

  e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

  Sovra la porta ch’al presente è carca →

  di nova fellonia di tanto peso

  96

  che tosto fia iattura de la barca,

  erano i Ravignani, ond’ è disceso

  il conte Guido e qualunque del nome

  99

  de l’alto Bellincione ha poscia preso.

  Quel de la Pressa sapeva già come

  regger si vuole, e avea Galigaio →

  102

  dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

  Grand’ era già la colonna del Vaio, →

  Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci

  105

  e Galli e quei ch’arrossan per lo staio. →

  Lo ceppo di che nacquero i Calfucci

  era già grande, e già eran tratti

  108

  a le curule Sizii e Arrigucci.

  Oh quali io vidi quei che son disfatti →

  per lor superbia! e le palle de l’oro

  111

  fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

  Così facieno i padri di coloro →

  che, sempre che la vostra chiesa vaca,

  114

  si fanno grassi stando a consistoro.

  L’oltracotata schiatta che s’indraca →

  dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente

  117

  o ver la borsa, com’ agnel si placa,

  già venìa sù, ma di piccio
la gente;

  sì che non piacque ad Ubertin Donato

  120

  che poï il suocero il fé lor parente.

  Già era ’l Caponsacco nel mercato

  disceso giù da Fiesole, e già era

  123

  buon cittadino Giuda e Infangato.

  Io dirò cosa incredibile e vera: →

  nel picciol cerchio s’entrava per porta

  126

  che si nomava da quei de la Pera.

  Ciascun che de la bella insegna porta →

  del gran barone il cui nome e ’l cui pregio

  129

  la festa di Tommaso riconforta,

  da esso ebbe milizia e privilegio;

  avvegna che con popol si rauni

  132

  oggi colui che la fascia col fregio.

  Già eran Gualterotti e Importuni; →

  e ancor saria Borgo più quïeto,

  135

  se di novi vicin fosser digiuni.

  La casa di che nacque il vostro fleto, → →

  per lo giusto disdegno che v’ha morti

  138

  e puose fine al vostro viver lieto,

  era onorata, essa e suoi consorti: →

  o Buondelmonte, quanto mal fuggisti

  141

  le nozze süe per li altrui conforti!

  Molti sarebber lieti, che son tristi,

  se Dio t’avesse conceduto ad Ema

  144

  la prima volta ch’a città venisti.

  Ma conveniesi, a quella pietra scema →

  che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse

  147

  vittima ne la sua pace postrema.

  Con queste genti, e con altre con esse, →

  vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,

 

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