02 Hold Me. Qui

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02 Hold Me. Qui Page 6

by Kathinka Engel


  Non sono molto brava a fare le valigie, perché non so mai in anticipo cosa vorrò indossare. I vestiti sono il riflesso del mio umore, li cambio spessissimo, anche più della biancheria intima. E, quindi, l’unica soluzione è buttare tutto in valigia. Anche scegliere cosa indossare oggi è un problema, perché non ho idea se i vestiti che questa mattina sono perfettamente intonati al mio umore lo saranno ancora stasera.

  Ho appena finito di vestirmi, quando sento suonare il citofono. Presumo che oggi sarà una bella giornata, perciò ho scelto colori accesi. Apro la finestra, che si affaccia sulla strada, e vedo Malik in piedi accanto a un’auto rossa.

  «Un minuto e scendo», grido, facendogli un cenno con la mano.

  Lui alza la testa: «Non c’è problema!»

  Il suo sorriso raggiante mi colpisce fin quassù, mettendomi subito di buonumore. Ogni residuo dei dubbi di poco fa viene spazzato via, sul viso di Malik non vedo falsità, né malizia. È sincero e allegro, in un modo che mi tranquillizza.

  Prendo la borsa da viaggio, infilo ai piedi le Dr. Martens e la giacca vintage di pelle che ho comprato un paio di settimane fa insieme a Tamsin, in un negozio fighissimo che vende abiti di seconda mano, un giorno in cui i miei genitori erano stati di nuovo insopportabili. Poi vado in cucina e apro il freezer.

  «Pronta per il grande viaggio?» mi chiede una voce roca e assonnata dal corridoio. È Leon, che dev’essersi appena svegliato.

  «Prontissima!» rispondo, salutandolo con un abbraccio.

  Sulla porta mi viene in mente un’ultima cosa. Torno in camera e infilo nella tasca della giacca i due flaconcini di smalto che tengo sul comodino. Esprimo i miei sentimenti e il mio umore tramite i colori, e ho cominciato a farlo proprio con gli smalti. È stata la mia prima ribellione, per così dire. E, da allora, raramente esco di casa senza portarmene dietro almeno un paio, così ho sempre la possibilità di modificare il mio aspetto a seconda dei cambi di umore. Un po’ come un camaleonte.

  Finalmente, esco dall’appartamento, scendendo le scale con passo leggero e spensierato.

  6

  Malik

  ZELDA esce dal portone e batte un paio di volte le palpebre a causa della luce del sole. Poi fruga nella giacca di pelle e tira fuori un paio di occhiali scuri. Le lenti sono a forma di cuore e la montatura arcobaleno. Su qualsiasi altra persona sembrerebbero strani, invece a lei stanno curiosamente bene, si intonano al suo look. Le grosse scarpe nere che ha ai piedi sembrano ancora più grandi in contrasto con le sue gambe sottili, che danno quasi l’impressione di potersi spezzare, avvolte in leggings gialli di nylon, sopra i quali indossa dei pantaloncini neri. Vederla mi rende allegro, il che sicuramente mi fa bene, dopo la prima brutale settimana di lavoro al Fairmont.

  «Malik!» esclama entusiasta, agitando una mano. «Ciao!» Per salutarmi mi getta le braccia al collo. È piccolina – e in confronto alla mia stazza lo è ancora di più –, perciò mi devo chinare per ricambiare il suo abbraccio.

  «Ciao», la saluto, affondando il naso tra i suoi capelli rosa. Ha un buon profumo.

  Ci separiamo e lei mi guarda dal basso verso l’alto, da dietro le lenti a forma di cuore.

  «Le hai portate le coppette di cristallo?»

  Scoppio a ridere. «Oh no! Sapevo di aver dimenticato qualcosa!»

  «Allora dovremo arrangiarci», afferma lei, tirando fuori dalla borsa un pacchetto ghiacciato.

  «Hai davvero portato del sorbetto?» chiedo, aggrottando la fronte. «Pensavo scherzassi.»

  «Sul sorbetto non scherzo mai. È una faccenda seria, anzi, direi tragica.»

  Sorrido, prendo la borsa di Zelda e la metto nel bagagliaio, accanto alla mia. Noto che sta osservando la macchina, ma non per criticarla, sembra sinceramente interessata.

  «Me l’ha procurata Amy. Non posso permettermene una più nuova con il mio stipendio attuale», dico per giustificarmi.

  «Mi piace», dichiara Zelda. «La mia giacca e la tua macchina hanno più o meno la stessa età.»

  Sono sollevato che sia così rilassata, non avrei dovuto preoccuparmi fin dall’inizio. Zelda non è una persona complicata, è molto diversa dalle altre ragazze che conosco. O meglio, che conoscevo. E non solo perché è bianca. È come se per lei gli status sociali non contassero niente.

  Da quando sono uscito di prigione, le mie relazioni si sono limitate alla mia famiglia, Rhys e Amy. Cerco di tenermi alla larga dalle persone che frequentavo prima, perché non ho nessuna voglia di perdermi in droghe o alcol, non voglio sapere chi è finito in galera e quanti bambini stanno crescendo senza un padre.

  Dopo aver chiuso con forza il bagagliaio, visto che la chiusura automatica non funziona, giro intorno alla macchina e la apro dal lato del passeggero.

  Zelda scoppia a ridere e sale. «Davvero sei venuto ad aprirmi la portiera?»

  Che idiota! Non so perché l’ho fatto.

  «Be’, immagino che chi porta del sorbetto abbia diritto a un trattamento speciale», continua lei, ridendo a crepapelle. Mi sento avvampare le guance.

  Ma quando mi siedo accanto a lei, davanti al volante, mi è passata e spero di poter dimenticare rapidamente questo imbarazzante episodio. Avvio il motore e parto.

  «Dobbiamo sbrigarci a mangiare il sorbetto, o ci ritroveremo con un frullato zuccheroso», mi informa Zelda, tirando fuori due cucchiai dalla tasca della giacca. «Ho immaginato che ti saresti dimenticato anche le posate d’argento.»

  Con la coda dell’occhio la vedo sorridere. Non riesco a scorgere la fossetta che le si forma sulla guancia quando lo fa, ma so che c’è. Apre il pacchetto ghiacciato e comincia a mangiare. Mi porge un cucchiaio, ma io devo concentrarmi sul traffico e declino l’offerta.

  «Ma come? Non va bene. Non ho voglia di mangiare da sola, ho anche preso il gusto più noioso, limone, così poi possiamo lamentarcene.» Dal tono della sua voce intuisco che sta facendo una smorfia. «Okay, ti imbocco io.»

  Non so cosa stia succedendo, quella ragazza è un vulcano di idee e io non ho nessuna possibilità di oppormi. Un istante dopo mi ritrovo con un cucchiaio di sorbetto in bocca.

  «Allora?» chiede, ostentando una smorfia di disgusto. A dir la verità non lo trovo così male, ma decido di compiacerla.

  «Hai ragione, il sorbetto al limone è davvero noioso.»

  Lei fa un risolino di gioia e manda giù un’altra cucchiaiata.

  Ci fermiamo a un incrocio. «Aspettami un attimo», dice Zelda, quindi apre la portiera e scende con il sorbetto. Faccio per avvisarla che tra poco scatterà il verde, ma lei si è già allontanata. Che accidenti ha in mente?

  Sento suonare i primi clacson dietro di me, e faccio cenno alle auto di passarmi accanto. In questo momento vorrei seppellirmi. Qualche anno fa, Darius mi ha consigliato di tenermi alla larga dalle ragazze bianche, perché portano solo guai, ma non credo avesse in mente una cosa del genere.

  Zelda è sul marciapiede e sta parlando con un uomo rannicchiato per terra. Davanti a lui c’è un pezzo di cartone, è un reduce di guerra e chiede la carità. Lei gli porge il sorbetto e un cucchiaio, l’uomo sorride con la bocca sdentata e alza il pollice.

  «Non dovevano darvi il permesso di prendere la patente», tuona all’improvviso un tizio a bordo di un Suv bianco splendente alla mia sinistra.

  «Mi scusi, sto aspettando la mia amica», provo a spiegare. Mi rendo conto di essere un ostacolo per tutti.

  «Ah, e ti porti anche a letto una delle nostre ragazze?» dice il tizio, scuotendo la testa. Sento qualcosa agitarsi dentro di me. Ma che gli salta in testa? Come si permette? Sto quasi per rispondergli che non mi porto affatto Zelda a letto, ma in realtà non sono affari suoi. E non lo sarebbero nemmeno se volessi farlo!

  In quel momento, lei risale in macchina, probabilmente era già a portata di orecchio quando il tizio ha fatto il suo commento. «Come? Abbiamo solo fatto una buona azione, idiota», dice al tizio del Suv. «Non ti scaldare.»

  Stringo più forte il volante, non voglio far capire a quel tipo che la sua affermazione mi ha ferito. Perché so benissimo cosa intendeva. Però non voglio neanche che Zelda si intrometta nelle m
ie battaglie, che evidentemente non la riguardano.

  «Che gente che c’è in giro», afferma lei. «Arriverà a casa con un paio di minuti di ritardo, e allora? Andy, laggiù, ha gradito moltissimo il sorbetto.»

  Per Zelda la faccenda è chiusa, probabilmente non si è accorta che entrambi i commenti di quel tizio erano razzisti. Mi succede in continuazione e, anche se cerco di mantenere la calma, sento sempre qualcosa agitarsi dentro di me. Provo un senso di nausea, e mi viene voglia di spaccare tutto. Ma la sensazione peggiore è l’impotenza, perché so bene che qualsiasi cosa faccia mi si ritorcerebbe contro. Per gli altri, invece, le conseguenze non esistono. Quindi ricaccio indietro la rabbia, tutte le volte.

  Mi schiarisco la voce, come per segnare la fine della questione. «Lo sai che abbiamo davanti tre ore di viaggio senza niente da mangiare, vero?»

  Zelda ride. «Lo sai che è molto scortese dare giudizi affrettati sull’abilità delle persone di preparare provviste per i viaggi?» Si china a frugare nella borsa e mi tira addosso, uno dopo l’altro, un pacchetto di orsetti gommosi, uno di biscotti, una scatola di mini muffin e due lattine di Coca-Cola.

  «La smetti? Devo guidare!» la sgrido con una punta di panico nella voce, più accentuata di quanto vorrei.

  «Se ti lamenti, ti tireranno addosso qualcosa. È una regola scolpita nella pietra», risponde lei, poi comincia a raccogliere il cibo dal mio grembo e tra le mie gambe. «Okay, forse non ho pensato che il mio gesto mi avrebbe messa in una situazione così delicata», ammette sorridendo, dopo aver sfiorato per sbaglio un punto particolarmente sensibile. «Scusami, non succederà più.»

  Sento di nuovo il mio viso avvampare. Mi servirebbe proprio una pausa, a questo punto.

  Come se avesse letto nei miei pensieri, Zelda continua: «E ora, dopo questo momento imbarazzante, per un po’ me ne starò ferma e zitta». Accende lo stereo e subito parte Express Yourself di N.W.A.

  «Fichissimo!» esclama lei, portandosi poi una mano davanti alla bocca. «Forse stare zitta sarà più difficile del previsto.» Tira fuori dalla borsa un flaconcino di smalto, lo apre e comincia a stenderselo sulle unghie. L’odore riempie tutta la macchina. «Magari puoi raccontare qualcosa tu», propone.

  «Uhm.» Non so bene cosa dire, ma l’idea di farla stare ferma per cinque minuti è allettante, quindi decido di raccontarle qualcosa sulla canzone che stiamo ascoltando. «La conosci? Parla della censura che ostacolava la libertà di espressione dei rapper. Per un sacco di tempo molte stazioni radio si sono rifiutate di trasmettere canzoni che contenevano parolacce. Un paio di versi sono rivolti ai rapper che rinunciavano a dirle pur di andare in onda.»

  «Quindi è una canzone politica», dice Zelda.

  «E hanno avuto la geniale idea di campionare la famosissima canzone di Charles Wright, per rendere il pezzo più adatto al pubblico di massa.»

  «E non hanno annacquato un po’ il messaggio, facendo così? Per smuovere le coscienze non bisogna prima di tutto provocare?»

  Ci rifletto un momento. È una domanda interessante. «Credo che servano entrambe le cose. I radicali duri e puri svegliano la gente e portano nuove idee, che poi vengono assorbite dalla cultura pop e piano piano diventano accettabili. E, quando succede, nella migliore delle ipotesi la società si è già un po’ adattata.»

  «Vero. Per cambiare le cose bisogna coinvolgere le masse. Gli annunci importanti non servono a niente se li si fa solo tra gente che sta già dalla parte giusta.»

  «In che senso ‘dalla parte giusta’?» chiedo.

  «Ah, certo, potrebbe anche essere la parte sbagliata! Provo a essere più neutra: dalla stessa parte. Meglio adesso?» Abbassa gli occhiali sulla punta del naso e mi guarda da sopra le lenti, in attesa di una risposta.

  «Sì, decisamente.»

  «Direi che mi sono guadagnata un biscotto. Tu ne vuoi uno?»

  «Ti premi da sola?» chiedo, ridendo.

  «Se non ci penso io, non lo fa nessuno», risponde infilandomi in bocca un biscotto, e poi addentando il suo.

  Il resto del viaggio fila liscio. Zelda chiacchiera e ogni tanto rifornisce entrambi di cibo.

  Dopo circa due ore e mezza lasciamo l’autostrada e imbocchiamo una stradina secondaria. Zelda ha tirato fuori il cellulare e mi guida con il navigatore.

  «Adesso devi girare a destra. La strada che si inoltra fra gli alberi.»

  La casa è a nord-est di Pearley, in mezzo a un bosco. A giudicare dalla cartina, dovremmo essere vicinissimi a un piccolo lago.

  La vegetazione, qui, è molto diversa.

  Il clima è abbastanza secco tutto l’anno, perciò le colline sono terrose e ricoperte di cespugli e alberi a foglie piccole. Ci siamo spostati molto verso l’interno, dove la campagna è punteggiata da boschi e colline verdi. E, visto che siamo più a nord, c’è meno umidità.

  La strada asfaltata si riduce da due a una corsia, e dopo un paio di chilometri l’asfalto viene sostituito dalla ghiaia. Dal finestrino aperto entra un penetrante odore di muschio, tipico dei boschi. L’aria tra gli alberi è molto più fresca, i versi degli uccelli risuonano nel silenzio già disturbato dal motore dell’auto. Dopo un po’ la strada comincia a salire, svolta a sinistra, poi a destra, e infine si apre in una radura, dove ci fermiamo. Davanti a noi c’è una grande baita, a sinistra della quale le acque di un laghetto scintillano sotto i raggi del sole. C’è anche un piccolo pontile, di circa un paio di metri.

  Non mi stupisce che Rhys e Tamsin volessero arrivare il prima possibile.

  Davanti alla casa c’è una Mini, evidentemente è quella che ha prestato loro Zelda. Quindi è abituata a ben altro comfort. Ci parcheggio dietro la mia carretta.

  «Aspetta un attimo», dice Zelda, scendendo dalla macchina. Fa il giro e apre la mia portiera. «Scenda, buon uomo», mi invita.

  «Molto spiritosa», rispondo mentre esco dall’auto. Mi sgranchisco le gambe e inspiro l’aria fresca del bosco.

  Il suono del motore ha annunciato il nostro arrivo, e un attimo dopo la porta della baita si apre. Tamsin esce a piedi nudi e corre incontro a Zelda, che la stringe. Dietro di loro Rhys alza una mano in un cenno di saluto, che io ricambio. Subito dopo, Tamsin saluta anche me con un abbraccio.

  «Sono contenta che siate arrivati, non è bellissimo qui?» chiede.

  «Un sogno», risponde Zelda.

  Prendiamo le valigie dal bagagliaio e seguiamo Tamsin in casa. L’ingresso dà direttamente su un grande salone con sala da pranzo e angolo cottura. I mobili in stile rustico sono di legno chiaro, e nello spazio adibito a soggiorno regnano i colori caldi: divani e poltrone rossi, tappeto multicolore, uno scaffale pieno di libri e giochi da tavolo.

  «Le camere da letto sono al piano di sopra. Accanto alla nostra ce n’è un’altra matrimoniale con il bagno, e nella mansarda una singola molto confortevole. Adesso potete cominciare a litigare su chi prende quale.»

  «Io prendo la matrimoniale», annuncia subito Zelda, con un sorriso impertinente.

  «Chissà perché me lo immaginavo», rispondo. Per me è uguale. Questo posto è così accogliente che dormirei anche sul divano, perciò prendo la mia borsa e la porto di sopra.

  7

  Zelda

  LA mia camera è davvero confortevole, il letto è di legno scuro, decorato con intagli su testiera e pediera. Mi ci lancio sopra, il materasso è rigonfio di piume, perciò mi godo la sensazione di rimbalzare su e giù. Il copriletto rosso scuro riprende il colore delle tende appese alle finestrelle della stanza.

  Seguo l’esempio di Tamsin e mi tolgo calze e scarpe, questo posto è fatto per stare a piedi nudi. Affondo le dita dei piedi nel tappeto folto e mi sdraio sul letto a pancia in su. Che pace che c’è qui, ho la sensazione che al mondo non esista più nulla di brutto. So che è una sciocchezza, ma questo fine settimana voglio lasciarmi alle spalle tutte le cose negative.

  Il viaggio insieme a Malik mi ha fatta sentire già in vacanza. È così facile parlare con lui. Qualsiasi cosa gli sia successa, sembra non aver lasciato danni. Vicino a lui mi sento bene, e poi sopporta con grande stoicismo tutte le mie pazzie. Forse dovrei ringraziar
lo di nuovo, so bene che ogni tanto esagero. A volte neanche io mi sopporto. Ma i pensieri spuntano come fuochi d’artificio nella mia testa e ho sempre voglia di provare tutto e subito. Dev’essere una forma di compensazione per la vita triste a cui sono destinata.

  Sento dei passi sopra di me, Malik cammina avanti e indietro nella sua stanza, immagino la sua figura imponente che si muove con insospettata agilità. Chissà come dev’essere il mondo dalla sua prospettiva. Probabilmente vede molte più cose di me, perché tutto ciò che accade sopra la mia testa mi rimane spesso invisibile. Quanta roba mi perdo!

  Sento bussare alla porta.

  «Sì?» dico.

  «Ciao.» Tamsin si affaccia sulla soglia. «Ti va di fare una passeggiata? O vuoi prima sistemarti?»

  «Passeggiata!» rispondo subito. «Voglio sfruttare ogni secondo di questa vacanza!»

  Per un po’ camminiamo lungo il laghetto. Alla nostra destra c’è un folto canneto, a sinistra il bosco. Dopo un po’ svoltiamo su un sentierino che si inoltra fra gli alberi. Fa molto fresco qui, e i suoni sono più intensi, perché si disperdono meno nell’aria. Un sassolino che rotola, un rametto che si spezza, il verso di un uccellino, ogni rumore risuona dentro di me. Il verde degli alberi è accentuato dai raggi del sole, che arrivano fino al terreno ricoperto di muschio. Faccio dei respiri profondi, l’aria umida e profumata mi riempie i polmoni. Mi sembra di purificarmi, è una sorta di catarsi naturale. La terrificante bellezza di questo posto mi fa venire la pelle d’oca.

  Tamsin e Rhys sono andati avanti, Malik, invece, è rimasto a un paio di passi da me. Cammino più lentamente perché voglio assorbire tutto, come una spugna: gli odori, i rumori, la luce. Poi mi accorgo che tra me e Malik la distanza è aumentata e corro verso di lui.

 

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