02 Hold Me. Qui
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«Ragazze, vestitevi», grido in direzione del salotto, «e prendete i vostri seggiolini.»
Le grida di giubilo ricominciano.
«Grazie mille, Malik. Spero di non aver rovinato il tuo sabato», dice mia madre.
«No, coinvolgerò loro tre nei miei programmi.» Non voglio assolutamente che lei pensi di avermi messo un peso sulle spalle, deve sapere che su di me può sempre contare.
«Cos’hai in mente di fare? Uscire con loro?» Le ultime parole le pronuncia a voce più alta, per sgridare Esther, che sta picchiando suo fratello con una scarpa.
«Mi aiuteranno a fare una cosa», rispondo, sedendomi tra i due bambini e aiutando Esther a infilarsi le scarpe.
«Che cosa?» chiede Ellie, con uno sguardo curioso.
«A fare una sorpresa a una ragazza», le rispondo con un sorriso un po’ imbarazzato.
«Ooooh», esclama mamma in tono eloquente. «Avete sentito, piccoli combinaguai? Dovete impegnarvi, altrimenti Malik sarà costretto ad affidarsi solo al suo fascino, e non funzionerebbe mai.»
«Molto divertente. Ma si dà il caso che il mio fascino abbia già funzionato.» Alzo la testa per guardarla.
«Ma è ovvio», dice lei, chinandosi per darmi un buffetto sulla guancia. «Adesso andatevene via!»
Per prima cosa ci fermiamo in un supermercato. Ho una lunga lista di ingredienti, per preparare a Zelda un menu con diverse portate.
Sistemo le gemelline dentro un carrello, in modo che non possano andarsene in giro, e dico a Theo di non allontanarsi, dopodiché cominciamo ad avanzare tra gli scaffali.
«Theo, tu leggi quello che ci serve; Ellie ed Esther, voi dovete controllare che sia tutto sistemato per bene nel carrello.» È importante dare qualcosa da fare alle piccole, altrimenti si annoiano e cominciano a litigare.
«Frutta v.», legge Theo dalla lista che gli ho dato.
«La v. sta per ‘varia’», spiego, spingendo il carrello nel reparto frutta e verdura.
Le gemelle osservano con entusiasmo le arance, i kiwi, le banane e l’uva che finiscono nel carrello. Io le trasporto da un corridoio all’altro, e man mano le seppellisco sotto una montagna di cibo. Loro ridono come matte, perché a un certo punto non riescono quasi più a muoversi, mentre Theo svolge il suo compito con zelo impareggiabile. Alla fine, per premiarli, metto nel carrello una barretta di cioccolato a testa.
Quando torniamo in macchina, Ellie chiede: «Chi è la ragazza per cui devi cucinare, Malik?»
«Non la conoscete. Si chiama Zelda.»
«Sei innamorato di lei?» vuole sapere Esther.
«Vi sposate?» rincara Ellie.
Non riesco a evitare di sorridere. «È ancora presto per dirlo», spiego. «Prima dobbiamo conoscerci meglio.»
«Cioè ancora non la conosci?» interviene Theo, con aria sbalordita.
«La conosco un pochino, abbastanza da sapere che voglio conoscerla di più.»
A quanto pare la mia risposta ha soddisfatto i tre bambini, perché per qualche istante rimangono in silenzio. Ma potrebbe anche dipendere dal fatto che hanno appena scartato le loro barrette di cioccolato.
Una volta a casa, Theo mi aiuta a sistemare la spesa, mentre Ellie ed Esther vanno in camera mia a fare un disegno per Zelda. Non so se gli scarabocchi di due bambine di tre anni le piaceranno, ma sono contento che si stiano impegnando tanto.
«Malik?» chiede Ellie, affacciandosi sulla porta della cucina.
«Che c’è?» chiedo accovacciandomi davanti a lei.
«Come fai a entrare nel tuo letto?»
«Uhm, in realtà non ci entro benissimo. Mi devo rannicchiare come una palla, oppure far penzolare i piedi fuori.»
«Fammi vedere.»
Mi prende per mano e mi trascina in camera. Prima d’ora non mi è mai venuto in mente di sistemarla, ma quando vedo la mia sorellina accovacciata sul malconcio pavimento di legno scuro, mi rendo conto che non fa certo una bella impressione. Il letto di metallo, il vecchio comodino, il tavolo traballante e macchiato di vernice accostato alla finestra… è uno spettacolo abbastanza desolante. È qui che voglio invitare Zelda?
Mi sdraio sul letto e lascio penzolare i piedi fuori.
«Sei troppo grosso», dichiara Esther. Poi solleva uno dei miei piedi e prova a spingerlo sopra al materasso, ridacchiando, perché io oppongo resistenza. «Aiutami, Ellie.»
La sorella accorre subito in soccorso, e insieme cercano di farmi entrare nel letto. Theo è in piedi sulla soglia e ci fissa, con lo sguardo perso nel vuoto. Sta di nuovo fantasticando e in quella posa è davvero carino, con indosso una salopette e una felpa sformata.
Mentre le gemelle sono impegnate a spingere i miei piedi, io rifletto sul da farsi. Zelda sarà qui domani, abbiamo parlato dell’ipotesi di andare a letto insieme. Solo il pensiero mi fa fremere in tutto il corpo. Non credo di aver mai voluto così tanto qualcosa. Ma non voglio che la nostra prima volta sia in questo letto cigolante! Deve ricordarla come l’esperienza più bella della sua vita, non come la più scomoda. O più rumorosa. O quella in cui nel letto non c’era abbastanza spazio per due. Non va bene. Assolutamente no! A essere sinceri, le possibilità che qui accada qualcosa sono pari a zero.
«Bambini», dico quindi, «che ne pensate di andare a trovare Rhys al lavoro? Vi offro il dolce.»
«Sìììììì!» esclamano i tre all’unisono. La parola «dolce» è stata capace di risvegliare persino Theo.
Dalle vetrine del bar arriva una bella luce calda, in questa giornata grigia. Il sole è coperto da nuvole scure, che aspettano solo di scaricarci addosso la pioggia. Già da fuori vedo Amy e Jeannie sedute a un tavolino. Una sta lavorando al computer e l’altra legge un libro. Sono contento di vederle. All’inizio Amy mi rendeva nervoso, la consapevolezza di dipendere da lei era un po’ opprimente, ma con il tempo ci siamo conosciuti meglio, e ho capito che non c’è niente di male a dipendere dall’aiuto degli altri e ad accettarlo.
Quando entriamo, lei alza lo sguardo dal computer e mi saluta. «Oggi sei in giro con tutta la squadra?»
Aiuto Ellie ed Esther a togliersi le giacche e gliele appendo all’attaccapanni.
«Volete sedervi con noi?» chiede Amy. Poi, senza aspettare una risposta, avvicina due tavoli e prende altre sedie.
«Grazie», dico, spingendo avanti Theo e le gemelle. «Sedetevi, vado a prendere qualcosa da bere.»
«E il dolce», gracchia Esther.
«Sì, anche il dolce.»
Mi avvicino al bancone e vedo Rhys uscire dalla cucina.
«Un attimo, Malik», dice, portando due piatti a un tavolino davanti alla vetrina, dove sono sedute due signore anziane. Quando ritorna, gli ordino della cioccolata calda per i bambini e tre muffin, io invece prendo un caffè macchiato.
«Posso chiederti un favore?» chiedo poi a Rhys.
«Certo, cosa ti serve?»
«Potresti prestarmi le lanterne e l’imbottitura con cui hai arredato il tetto?»
Quando è arrivata la notizia che Jeannie sarebbe rimasta con Amy, Rhys ha organizzato una festa di benvenuto, sul tetto di un palazzo abbandonato di fronte al bar. È stato fantastico. Ha usato delle tavole di legno per farci delle panche, che poi ha rivestito di coperte e cuscini, il tutto immerso nella luce magica di un sacco di lanterne. Spero di riuscire a riprodurre quella stessa atmosfera in camera mia.
«Trovi tutto in una cassa accanto alla porta che dà sul tetto. Alcune delle lanterne vanno a energia solare, attento a non prendere quelle», dice Rhys sorridendo. Di sicuro ha capito cosa ho in mente.
«Grazie vecchio mio, sei un mito.»
Mentre Rhys prepara la cioccolata calda, mi appoggio al bancone e osservo le mie sorelle e mio fratello. Le gemelle sono dolcissime con le loro treccine, e per Theo ho sempre avuto un debole, forse perché oltre a me è l’unico maschio. Adoro le mie sorelle e voglio essere un buon esempio per loro, ma il modo in cui Theo mi guarda ha qualcosa di speciale. Si è seduto vicino a Jeannie e si sta facendo raccontare da lei il libro che sta leggendo. Ellie ed Esther, invece, chiacchierano animatamente con Amy.
«Posso toccarti i capelli?�
� le ha appena chiesto Ellie. È ossessionata dai capelli biondi e afferra quelli di Amy senza aspettare una risposta. Lei ha un sussulto, ma poi le lascia fare, con un’espressione lievemente sofferente in viso.
«Sei bella», interviene Esther. La sincerità dei bambini è una cosa impareggiabile, e in ogni caso ha ragione. Non avevo mai considerato Amy da questo punto di vista, per me è sempre stata soltanto una persona da stimare e basta, ma ora, guardandola da lontano, devo dire che con i suoi capelli lunghi e biondi, che porta legati in una coda, le labbra rosse e la minuscola fessura tra i denti, è davvero carina.
Rhys ridacchia. «Le tue sorelle ci stanno provando con la tua assistente sociale, vecchio mio. C’è qualcosa che non va.»
«Adesso ci penso io», rispondo, portando i muffin al tavolo. I bambini ci si lanciano sopra come falchi.
«Allora, Malik, che mi dici di nuovo? Come va al lavoro?» chiede Amy.
«È faticoso, ma bello», rispondo. Non voglio che sappia quanto è difficile per me stare lì, e poi ho paura che le bambine possano dire qualcosa a casa, se ora gliene parlo. I miei genitori non devono assolutamente saperlo, non devono preoccuparsi per me.
«Stai imparando molte cose sulla cucina?»
«Sì, un sacco», cerco di divagare, «è molto divertente.»
«Malik deve cucinare per una ragazza», spiffera Ellie.
«Ah, questo sì che è interessante», commenta Amy, sorridendo e mostrando la fessura tra i denti.
«Grazie mille, Ellie», dico, tappandole la bocca. Lei squittisce e mi morde un dito.
«Siamo andati a fare la spesa!» esclama Esther.
Con l’altra mano provo a far tacere anche lei, che scoppia a ridere.
«Ah! E quando sarebbe questo appuntamento romantico?» chiede Amy.
«Domani», rispondo io, passandomi una mano tra i capelli per l’imbarazzo.
«Eccitante. È il tuo primo appuntamento da quando sei uscito?»
«Ehm.» Questa conversazione mi sta mettendo a disagio. «Sì.»
«E sei nervoso?» insiste Amy.
Ci penso su un attimo. Lo sono? In realtà no. Non vedo l’ora, questo sì, sono eccitato all’idea di rivederla. Ma nervoso, no. «No, direi di no», rispondo.
«Puoi essere fiero di te, Malik», dice Amy, dandomi una pacca sulla spalla. «Tra il ragazzo che sono andata a trovare in prigione un paio di mesi fa e quello che vedo adesso c’è un oceano di differenza.»
Abbasso gli occhi, imbarazzato. Sentire Amy parlare di me mi fa sempre vergognare un po’. Anche perché non ho un bel ricordo del nostro primo incontro, non è stato certo un successo. In prigione mi sentivo avvolto da una nebbia scura che mi toglieva il fiato, e in quell’occasione non sono riuscito a dire neanche una parola. È stata una fortuna che lei mi abbia comunque selezionato per il suo programma.
«Grazie», dico. «Senza il tuo aiuto non ce l’avrei mai fatta.»
«Hai fatto tutto da solo», mi contraddice lei, e io sento il petto traboccare di orgoglio.
17
Zelda
QUANDO Miloš viene a prendermi, alle quattro in punto, la mia trasformazione è già completata.
«Sta benissimo, signorina Zelda», si complimenta, aprendomi la portiera dell’auto.
«Per l’ennesima volta, Miloš, sono solo Zelda», rispondo. Devo ricordargli in continuazione che siamo amici.
«‘Solo’ mi sembra un po’ riduttivo», mi corregge lui, sistemando lo specchietto retrovisore in modo da potermi guardare. Mi fa l’occhiolino.
«Grazie per essere venuto a prendermi.» Vedere il suo volto familiare durante il viaggio aiuta a rendere un po’ meno pesante questa uscita.
«Non c’è di che», risponde, lanciandosi nel traffico.
Mi siedo a gambe incrociate sul sedile posteriore, dopo essermi tolta i sandali con il tacco alto, e mi faccio raccontare da Miloš che novità ci sono a casa Redstone-Laurie (nulla di rilevante), come stanno gli altri domestici (gira voce che Agnes sia innamorata del giardiniere) e se sua moglie sta prendendo molto peso in gravidanza (non più che nelle due precedenti).
«E lei come sta?» chiede lui, lanciandomi uno sguardo curioso dallo specchietto.
«Bene, Miloš, lo sa come sono fatta.»
«Le piace lo studio?»
«Sì, mi piace», rispondo un po’ esitante. Non riesco a ingannarlo, sa benissimo che non gli sto dicendo qualcosa.
«Le va di parlarne?»
«A lei piace il suo lavoro?» gli chiedo, invece di rispondere.
«Sono contento di poter passare un po’ di tempo con lei stasera, e di poter mantenere la mia famiglia. Insomma, non mi lamento.»
Adesso mi sento stupida. Preoccuparsi della propria autorealizzazione è già un privilegio.
«Credo di avere dei problemi un po’ egocentrici.»
«È suo diritto averne», dice Miloš. «Vuole parlare con me dei suoi problemi egocentrici?»
«Il fatto è che non so dove sto andando», rispondo. «Mi interessa tutto, e allo stesso tempo niente. Tutti quelli che conosco hanno una passione, tranne me. Mi sento una banderuola.»
Miloš mi sorride dallo specchietto. «Non penso che debba preoccuparsi troppo, è così giovane. Ha ancora un sacco di tempo per trovare la sua passione. Spero solo che, quando arriverà il momento, non si farà influenzare nelle sue decisioni.»
Lo spero anch’io. Annuisco, ma sento un enorme groppo in gola. Mi sembra tutto così sbagliato. Sto sprecando il mio tempo in cose che non mi interessano. Vado ad appuntamenti al buio con perfetti sconosciuti perché, se lo faccio, i miei genitori continueranno a finanziare i miei studi senza veri obiettivi. E nel frattempo, quando penso a Malik, ho quasi l’impressione che il cuore mi balzi fuori dal petto. Sto ingannando lui, me stessa e i miei genitori. E solo loro non mi pesano sulla coscienza.
«Questa se la ricorda ancora?» chiede Miloš, accendendo lo stereo della macchina. Non appena risuonano i primi accordi di Take on me, degli A-ha, non possiamo fare a meno di sorridere. È la nostra canzone. Quando Miloš veniva a prendermi a scuola la sentivamo tutti i giorni, a tutto volume e cantando a squarciagola. Lo rifacciamo adesso.
Non riusciamo mai a beccare le note più alte del ritornello, ma non importa. Il punto è goderci questo momento di leggerezza insieme e dimenticare lo studio, i problemi familiari e i galà di beneficenza.
Dopo una mezz’ora di viaggio arriviamo a destinazione, un hotel a cinque stelle nel mezzo del nulla, che ha tutta l’aria di essere un edificio storico.
Miloš scende e fa il giro della macchina per venire ad aprire la portiera. Detesto queste formalità, ma non c’è verso di convincerlo a smettere, e non voglio certo fare una scenata. Avanzo sul tappeto rosso con i miei sandali dai tacchi a spillo verso l’atrio illuminato da una luce calda. Mancano solo giornalisti e fotografi che gridano il mio nome.
Sono così impegnata a non inciampare nel vestito che quando alzo la testa è già troppo tardi.
«Sorellina», dice una voce nota.
Davanti alla porta a vetri c’è mio fratello Sebastian, sta fumando.
«Non sapevo ci fossi anche tu.» Sono un po’ sorpresa. Era già abbastanza tragico dover passare la serata in compagnia di mia madre e di chissà quanti presuntuosi commensali.
«Sono l’accompagnatore di mamma», dice lui. «È andata nel pallone perché papà non poteva venire. O forse non voleva.»
«Che ti ha promesso in cambio?» chiedo. So benissimo che Sebastian non fa mai niente per niente.
Lui dà un tiro alla sigaretta e sorride. «Il numero di cellulare di Lauren Fitzgerald.»
Alzo gli occhi al cielo. Lauren Fitzgerald è una modella, figlia di un conoscente alla lontana di mia madre.
«Belle tette», commenta lanciando un’occhiata al mio decolleté. «Stasera ti giochi il tutto per tutto, eh?»
«Chiudi il becco», gli intimo, resistendo alla tentazione di dargli una borsettata. Invece, gli passo davanti ed entro.
«Ma sì, meglio se vai. Del resto è piuttosto scortese privare il tuo futuro marito di un tale spettacolo.»
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sp; Nell’atrio seguo il cartello su cui sta scritto in grandi lettere piene di ghirigori: GALÀ DI BENEFICENZA DELLA FAMIGLIA FORSYTH.
Entro nell’enorme sala da ballo e devo battere le palpebre un paio di volte prima di abituarmi alla luce abbagliante. Le decorazioni sono bianche, i tavoli tondi sono coperti da tovaglie bianche, con sopra fiori bianchi e candele bianche dentro candelabri d’argento. Anche le sedie sono rivestite di stoffa bianca, così come gli sgabelli alti ai lati della sala. Il pavimento di legno lucido risplende alla luce dei lampadari, mentre sul palco una band suona musica swing. Non era l’atmosfera che mi aspettavo, pensavo di dover fare i conti con il solito quartetto d’archi.
Vicino alla porta c’è un cavalletto con sopra appoggiato lo schema dei tavoli. Mi ci vuole un momento per orientarmi. I nomi degli ospiti sono in ordine alfabetico, e ognuno ha accanto il numero del suo tavolo. I tavoli in totale sono venti, con dieci persone ciascuno, e scorrendo la lista riconosco alcuni cognomi noti. La famiglia Redstone-Laurie è al tavolo sette.
Mi faccio strada tra le donne in abito da sera e gli uomini in smoking, che si scambiano entusiastiche cordialità. Già da lontano intravedo mia madre di spalle, si è tirata su i capelli in un complicato chignon e al suo collo lungo e sottile c’è una collana di perle. Il vestito nero e stretto, decorato intorno alla vita con delle perle, mette in risalto la sua silhouette.
«Ciao mamma», dico quando arrivo al tavolo.
«Hai trovato traffico?» chiede lei, voltandosi per squadrarmi da capo a piedi.
«No, abbiamo fatto presto.»
«Allora avresti dovuto essere qui già dieci minuti fa», ribatte lei, piccata. «Almeno hai seguito il mio consiglio.» Annuisce soddisfatta e indugia un po’ troppo con lo sguardo sul mio decolleté. Tutte queste occhiate al mio seno mi mettono a disagio, vorrei potermi coprire.
Allo schienale della sedia a sinistra di mia madre è appesa una giacca, ciò vuol dire che la sedia subito accanto è la mia e che il proprietario della giacca sarà il mio compagno di tavolo. Ovvero il cavaliere che mia madre ha selezionato per me.
Mentre lancio una rapida occhiata al menu, qualcuno sposta premurosamente la mia sedia. Alzo lo sguardo, e il mio cuore si ferma.