02 Hold Me. Qui
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«Jason?» Il mio nemico numero uno, quello con cui litigo ogni settimana sui più svariati temi politici, si è appena seduto accanto a me.
«Ciao», mi saluta lui, sorridendo. «Sembri… diversa.»
Esattamente come mio fratello e mia madre, anche lui fa scivolare lentamente lo sguardo dai miei capelli, al mio viso, alla scollatura, dove si sofferma per un istante.
«Di certo il cambiamento non mi dispiace», commenta infine.
«Di certo la tua opinione non mi interessa», rispondo, afferrando la flûte di champagne che qualcuno a cui sarò sempre grata ha appena deposto davanti a me.
«Ehi», dice lui alzando il bicchiere per brindare, «non essere così scontrosa. A questa bella serata.»
«Cheers», rispondo buttando giù una bella sorsata. Non riesco a credere che il mio appuntamento al buio sia con lui. Questo miscuglio tra la mia vita da studentessa e la mia vita familiare mi fa venire la nausea. Lui sa troppe cose su di me. Come diavolo fa a conoscere mia madre?
«Vi conoscete già?» si intromette lei, proprio in quel momento.
«Anche io studio all’università di Pearley, abbiamo un corso in comune», spiega Jason. «Lei mi dà del filo da torcere», aggiunge posandomi una mano sulla spalla e sogghignando. Noto che ha una dentatura perfetta. E che è decisamente troppo vicino.
«Oh, lo credo bene, Jason», ride mia madre. «Zelda è una ragazza… originale.»
Bevo un altro sorso di champagne, e Jason ripete: «Sì, davvero originale». Poi ridacchia, come se non avesse preso sul serio quello che ha detto mia madre. O almeno credo.
«E come mai è finito all’università di Pearley?» chiede mia madre.
«Vuole dire che essendo figlio dei miei genitori avrei dovuto scegliere un’università migliore?» replica Jason. Il suo modo diretto di ribattere quasi mi piace. «Pearley ha un’eccellente squadra di football, e per me questa era una priorità.»
Mia madre annuisce. «Interessante.» E poi: «Scusatemi un momento». Probabilmente ha appena visto una delle sue insopportabili amiche, con cui vantarsi di aver perso un altro paio di chili.
«Posso riempirle il bicchiere?» chiede uno dei camerieri alle nostre spalle.
«Quando vuole», rispondo. «Non c’è bisogno di chiedere, se lo vede vuoto, lo riempia.»
«Sa una cosa?» dice Jason. «Lasci pure qui la bottiglia.» Annuisce cordialmente al cameriere, che ci riempie i bicchieri e poi lascia la bottiglia tra noi due.
«Non ti facevo così lungimirante. In genere preferisci soluzioni del cavolo di breve periodo.»
«Ricorda, Zelda, mai sottovalutarmi», dice ridendo e facendo un altro brindisi. «Adesso raccontami un po’ di questo cambio di look… Come mai all’università sembri una senzatetto caduta in un secchio di vernice?»
«Per mantenere la pace a questo tavolo, sorvolerò sull’estrema maleducazione della tua domanda e della sua formulazione. Tutto questo, caro Jason, è tanto lontano dalla mia personalità quanto potrebbe esserlo una politica di sostegno incondizionato al reddito dai tuoi ideali. Facciamo passare questa serata e poi dimentichiamo di esserci incontrati qui.»
Lui mi guarda perplesso. «Scusa, non avevo cattive intenzioni, volevo solo fare una battuta. Non ti arrabbiare. Per quanto mi riguarda, non dobbiamo per forza dimenticare di esserci incontrati. E potremmo provare a comportarci in maniera civile.»
«Questo lo vedremo», rispondo concedendomi un altro goccio di champagne. Poi penso a Malik e al nostro appuntamento di domani. Devo solo resistere fino a mezzanotte, poi Miloš mi riporterà a casa.
Viene servito l’antipasto e tutti tornano al proprio tavolo. Mia madre e Sebastian sono impegnati in una stupidissima conversazione sui suoi studi, le altre persone sedute al nostro tavolo – che io non ho mai visto prima, ma che a quanto pare conoscono mia madre – si presentano e poi si dedicano ai rispettivi accompagnatori. Mi rimane solo Jason con cui fare conversazione, e in realtà lui si rivela molto più cordiale e simpatico di quanto pensassi. È divertente e affascinante, e a un certo punto ci mettiamo a confrontare gli eventi più noiosi a cui siamo stati costretti a partecipare. La gara la vince nettamente lui con un tè da sua nonna, in compagnia delle sue amiche, durante il quale si è parlato ininterrottamente solo dei domestici di casa, finché Jason non si è addormentato con la testa sul tavolo. Per le risate quasi mi va di traverso la terrine di foie gras con tartufo marinato.
«Spero non ti dispiaccia troppo dover passare la serata con me», dice Jason tutto a un tratto, mentre mangiamo la portata principale. «Sei rimasta di stucco quando mi sono seduto.»
«Ah», faccio, un po’ imbarazzata. «No, è tutto okay. È che non mi aspettavo di vederti qui.»
Mi accorgo di essere arrossita, mi vergogno un po’ di essere stata così scortese con lui. D’altro canto, non potevo sapere che era capace di essere simpatico, finora mi era sempre sembrato un cretino pieno di sé.
«‘Tutto okay’ è sempre meglio di niente.» Mi fa l’occhiolino.
«No, non intendevo questo. È solo che odio serate del genere.»
«Allora perché ci vieni?» chiede lui, e mi sembra sinceramente interessato a saperlo. «Immagino sia per evitare conflitti», aggiunge annuendo.
Come dolce, come se potesse essere altrimenti, c’è un sorbetto. Per la precisione, un sorbetto al mango e alla vodka, con una spruzzata di pepe nero.
«Non è nemmeno un vero sorbetto», dico ad alta voce. «In realtà si presenta un po’ meglio.»
«Come, scusa?» chiede Jason.
«Ah, niente», ripeto, e mi appunto mentalmente di raccontarlo a Malik. Un istante dopo, mi rendo dolorosamente conto che devo scegliere con cura cosa dirgli, per evitare di ferirlo.
«Ti va di ballare?» mi chiede Jason quando finiamo il dolce.
«Dici che me ne pentirò?»
«C’è un solo modo per scoprirlo», risponde lui con un ghigno da playboy. Poi si alza e mi porge la mano.
La band sta suonando La vie en rose e con passi eleganti Jason mi trascina sulla pista, dove anche mia madre sta ballando, con un avvocato amico di mio padre.
Jason conduce, e devo dire che sa quello che fa. È agile, muove bene i fianchi e sembra farlo senza doversi concentrare troppo. Mi fa roteare prima a sinistra e poi a destra con grande nonchalance. La pressione della sua mano sulla mia schiena è salda, ma non spiacevole.
«Wow», dico. «Non pensavo che sapessi ballare.»
«Vedi? Sono pieno di sorprese.»
Le mie riserve su di lui sono svanite del tutto, anzi, trovo quasi liberatorio che ci sia qualcuno che conosce il mio segreto e che come me vive in due mondi diversi. Per Jason, probabilmente, la divisione tra l’uno e l’altro non è così profonda, ma io ho comunque la sensazione di poter essere un po’ di più me stessa, in questo ambiente in cui contano solo le apparenze.
Balliamo altre due canzoni e devo dire che mi diverto, anche se in generale sono più il tipo che salta di qua e di là in piena libertà, invece di farsi condurre.
Quando la band attacca una versione lenta di Dream a little dream of me, decido di tornare a sedermi. Voglio bere un altro goccio di vino e mettere un po’ di distanza tra me e Jason, ma lui mi stringe a sé. Chiudo gli occhi per un istante e cerco di capire se questa cosa mi piace oppure no. In realtà mi sento a mio agio, e dopotutto si tratta solo di un ballo. Provo comunque ad allontanarmi un po’ da lui, ma dopo qualche giravolta siamo di nuovo stretti l’uno all’altro.
«Siamo troppo vicini», lo informo.
«Nei lenti è così», dice Jason con un sorriso.
Sento il vino che mi sale alla testa. Non troppo, non sono ubriaca, ma ho il sospetto che se fossi sobria sarei seduta al mio tavolo già da un bel pezzo.
«Questo però è l’ultimo ballo», lo avviso. «Poi mi serve una pausa.»
«Come vuoi.» Jason fa scivolare la mano un po’ più in basso lungo la mia schiena.
«E questo che significa?» chiedo un po’ innervosita.
«Che vuoi dire?» risponde lui fingendo un’aria innocente.
«Sai benissimo cosa
intendo», sibilo. «La mano.»
«Questa qui dici?» chiede lui in tono sfacciato, facendola scivolare ancora un po’. Lentamente e deliberatamente. Probabilmente fa così con tutte le sue compagne di ballo.
«Toglimi la mano dal sedere o ti do un calcio nelle palle», dico serrando i denti, ma con un tono di voce calmissimo.
Lui mi lascia andare, fa due passi indietro e poi mima il gesto delle jazz hands, facendomi ridere.
«Sai qual è il tuo problema, Jason?» chiedo quando lui torna a poggiare la mano sulla mia schiena, in un posto appropriato, questa volta.
«Qual è?»
«Che sei un arrogante pallone gonfiato, a cui nessuno ha mai spiegato che esistono dei limiti.»
«A parte te», mi sussurra all’orecchio, quando finisco di nuovo tra le sue braccia dopo l’ennesima giravolta.
La canzone finisce, e io ne sono molto felice. Mi libero dall’abbraccio di Jason e torno di corsa al tavolo.
«Siete una bella coppia», commenta mia madre con un sorriso sulle labbra che trasuda soddisfazione.
«Non ti entusiasmare troppo, mamma», le consiglio. Poi bevo un altro sorso di vino.
Il galà volge al termine, i Forsyth si lanciano in un noiosissimo discorso sulla propria fondazione e io mando un messaggio a Miloš. Tra cinque minuti verrà a prendermi all’ingresso. Sono più che sollevata che questa serata da incubo sia finita. Ho i piedi coperti di vesciche e la cute che mi formicola sotto la parrucca.
Saluto mia madre e Sebastian, che nemmeno se ne accorge perché è impegnato a chiacchierare con una biondina sul cui viso è rimasto ben poco di naturale.
«Ti accompagno fuori», dice Jason.
«Non c’è bisogno, ce la faccio.»
«Lo so, ma in qualità di tuo cavaliere mi preoccupo che tu non rimanga da sola al freddo, nel caso ci sia fila e il tuo autista ci metta un po’ ad arrivare.»
Controvoglia, mi lascio prendere sottobraccio e condurre fuori. In effetti fa abbastanza freddo, e lui mi mette la sua giacca sulle spalle.
«Grazie», mormoro. Cerco Miloš, ma Jason aveva ragione, non sono l’unica invitata che ha deciso di andarsene prima della conclusione ufficiale.
«Senti, Zelda», dice lui. «Mi dispiace per prima, non volevo invadere i tuoi spazi. Non sono così. Il ballo mi ha reso un po’ troppo audace.»
«E come saresti, allora?» chiedo ostentando un certo disinteresse.
«Potrei fartelo scoprire», risponde sorridendo.
Grazie al cielo in quel momento arriva Miloš, e io restituisco la giacca a Jason.
«Non è una buona idea», replico, mentre lui mi tiene aperta la portiera dell’auto.
«Perché no?»
«Perché domani ho un appuntamento»
«Oh, ho capito. Peccato.» Sembra davvero deluso. «Allora spero che il tizio con cui esci si riveli un idiota.» Detto questo, mi dà un bacio sulla guancia, sfiorandomi l’angolo della bocca. Non so se l’abbia fatto apposta, ma non mi fermo a rifletterci.
«Io invece spero che il ragazzo con cui esce domani non sia un idiota», dice Miloš quando richiudo la portiera. «E spero che passi una splendida serata.»
«Grazie», rispondo. «In realtà, ha già dimostrato di non esserlo.» Sorrido con aria sognante mentre penso a Malik.
Nel giro di trenta secondi mi libero dei sandali e della parrucca, mi scompiglio un po’ i capelli e vedo Miloš che mi sorride dallo specchietto.
«Che bello rivederla. Ha passato una bella serata?»
Sbuffo. «Perché non cantiamo un altro po’?» propongo. Ed è esattamente quello che facciamo.
18
Malik
GIÀ dalla mattina mi aggiro nell’appartamento con uno stupido sorriso stampato in faccia. Ieri sera Zelda mi ha mandato un messaggio in cui esprimeva in maniera inconfondibile la sua gioia per la prospettiva del nostro appuntamento. C’era scritto soltanto: Domani!
Oggi è domenica, e io dovrei andare a letto presto per essere pronto ad affrontare l’orrore del lunedì mattina in hotel, quindi abbiamo deciso di anticipare l’appuntamento.
Perciò sono in cucina da ore, voglio che sia tutto perfetto per Zelda. Ho anche sfrattato Rhys, in modo da avere un po’ di tranquillità. Era agitato quasi quanto me, non faceva che affacciarsi in cucina ogni cinque minuti e darmi consigli che non ho nessuna intenzione di seguire. Alla decima volta gli ho spiegato, con calma e moderazione, che se proprio voleva aiutarmi, la cosa migliore era trovarsi qualcosa da fare. Dopodiché lui è tornato altre tre volte, e allora l’ho amichevolmente buttato fuori e gli ho fatto capire in maniera inequivocabile che fino a domattina non è più il benvenuto.
Finisco di preparare l’ultima portata e mi cambio. Il mio armadio non offre poi tanta scelta, ma me la cavo con dei jeans e una camicia bianca. Non voglio strafare, del resto credo che non sia necessario, però vorrei dimostrare a Zelda che non mi sono impegnato solo a cucinare, o ad apparecchiare la tavola e a decorarla con delle rose arancioni, ma ho pensato anche al mio look. Il tocco finale consiste nel mandare avanti di quattro ore le lancette dell’orologio, così saranno le sette e mezza e il nostro sembrerà un normale appuntamento per cena.
Lei dovrebbe arrivare tra un quarto d’ora, ma io sono già seduto in cucina e batto il piede a terra per il nervosismo. È passata solo una settimana dall’ultima volta che ci siamo visti, ma mi sembra un’eternità. Non ho paura che le cose tra di noi siano cambiate, quello che provavamo l’uno per l’altra era troppo evidente, però qualche piccolo dubbio ce l’ho. E più resto seduto qui a non fare nulla, più il mio cuore accelera per l’impazienza. I palmi delle mani cominciano a sudare, perciò vado in bagno a lavarmele… finché non arriva Zelda le terrò ferme sul tavolo. Non voglio accoglierla con le mani umidicce!
Quando finalmente sento suonare il campanello, il cuore mi fa un balzo nel petto. Deglutisco, faccio un bel respiro e apro la porta. Man mano che sento i suoi passi salire le scale, mi agito sempre di più, non vedo l’ora di rivederla, finalmente. Lei compare da dietro l’angolo e si ferma sul pianerottolo del piano inferiore. Alza la testa e vederla di nuovo è uno spettacolo mozzafiato. Mi sorride un po’ imbarazzata, ed ecco ricomparire anche la fossetta sulla sua guancia. Ha i capelli un po’ arruffati dal vento, ma li ha raccolti in due treccine disordinate ai lati della testa, in modo che non le coprano il viso. È meravigliosa. Sotto la giacca di pelle indossa uno scamiciato a scacchi bianchi e neri e dei leggings rosa che si intonano perfettamente ai suoi capelli.
«Ciao», dice da là sotto, passandosi una mano tra i capelli con fare esitante.
«Ciao», rispondo io, e mi rendo conto di averle rivolto un sorriso raggiante. «Che fai, non sali?»
«Sto riflettendo su come farlo», risponde, e io scuoto la testa divertito. «E se salissi di corsa gli ultimi gradini e ti saltassi sulla schiena?»
«Puoi fare tutto quello che vuoi.» Questo suo pizzico di follia suscita in me una tenerezza infinita.
«Okay, allora pronti, via!» grida Zelda con il sorriso sulle labbra, lasciando scivolare a terra la sua borsa di iuta. Fa un paio di passi indietro per prendere la rincorsa, si lancia su per i dieci gradini che la separano da me, e con un ultimo balzo atterra tra le mie braccia. Mentre la prendo al volo, rimango sorpreso che una persona così piccola sia capace di saltare così in alto. Lei stringe le gambe intorno alla mia vita e le braccia intorno al mio collo. È senza fiato per lo sforzo e accosta il viso al mio, e per un istante rimaniamo così, immobili, sul pianerottolo. Chiudo gli occhi e sento il battito del suo cuore, ancora più rapido del mio. Con una mano la stringo di più a me, l’altra invece la lascio vagare sulla sua schiena.
«Sono felice di rivederti», mi sussurra all’orecchio. Ha il fiato corto e mi solletica il collo.
«A dir la verità non mi stai guardando», rifletto.
«È che già soltanto rivedere la tua schiena mi rende incredibilmente felice. Ho paura di esplodere se ti guardo in faccia.»
Affondo il naso tra i suoi capelli. Il suo profumo mi inebria, lo inspiro avidamente. La remota preoccupazione che la nostra attra
zione potesse essere venuta meno in questa settimana di lontananza viene soffocata sul nascere dall’entusiasmo di Zelda, e sostituita da un sentimento di affetto infinito e incontrollabile, che fa quasi male e mi prende alla bocca dello stomaco.
Lei scioglie il suo abbraccio e mi sorride, i suoi occhi azzurri riflettono esattamente ciò che provo anch’io: felicità, confusione, desiderio e un’inspiegabile connessione. Con il naso mi accarezza dolcemente gli occhi chiusi, sfiorandomi allo stesso tempo con le labbra. Poi allenta la presa delle gambe intorno alla mia vita e io la lascio scivolare a terra.
«Che bello che sei qui», dico, ancora pervaso da un fremito.
«Grazie per avermi invitata», risponde lei, scendendo i gradini per recuperare la sua borsa. Infine, mi porge una bottiglia di vino rosso, io le faccio cenno di entrare e la indirizzo subito verso la cucina. La vedo dare un’occhiata alla stanza, piccola e non particolarmente arredata, e mi gratto imbarazzato la testa, perché nonostante tutti i miei sforzi la cucina deve apparire piuttosto misera agli occhi di un estraneo.
«È carina», commenta invece lei, passando una mano sulla tovaglia bianca che ho preso in prestito sempre da Rhys, e che fa parte della dotazione del tetto.
«Ti va un aperitivo?» chiedo. Spero ardentemente che avere un bicchiere in mano mi aiuti a contenere l’agitazione.
«Volentieri.»
Non ho i calici adatti, perciò verso il prosecco – corretto con un po’ di liquore alle pesche – in due normali bicchieri da cocktail. Gliene porgo uno e brindiamo.
«Alla tua, perché sei venuta a trovarmi.»
«Alla tua, per esserti fatto trovare. Mi sarei sentita un po’ a disagio da sola in una cucina sconosciuta.»
Beviamo un sorso, il prosecco è piacevolmente frizzante, anche se questo tipo di vino non è tra i miei preferiti. Ma l’aggiunta del liquore gli ha dato un tocco interessante.
Prendo la mano di Zelda, che sembra minuscola nella mia, e l’accompagno al tavolo, poi scosto la sedia per farla sedere.