02 Hold Me. Qui
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«Signorina Zelda?» mi chiama Agnes da fuori.
Mi tiro la coperta di lana sopra la testa.
«Signorina Zelda, è sveglia?»
Rispondo con un brontolio.
«I suoi genitori l’aspettano di sotto. L’atmosfera è un po’… tesa.»
Le sono grata per l’avvertimento, anche se ovviamente non mi sorprende.
«Grazie, Agnes», rispondo, sempre da sotto la coperta. «Scendo subito.»
In casa regna un silenzio di tomba. L’unico rumore che sento, mentre scendo al piano di sotto dopo essermi fatta una doccia, è il ticchettare del grande orologio a pendolo dell’ingresso.
Prima di entrare nella sala da pranzo, dove i miei genitori stanno facendo colazione, faccio un respiro profondo.
«Buongiorno», dico appena entrata.
Gelo. Mio padre alza a malapena lo sguardo dal giornale, mentre mia madre beve dalla sua tazza.
«Mmm, che buon odore di caffè.» Non ho idea del perché mi ostini a parlare, forse sto solo cercando di dissimulare il mio nervosismo.
«Siediti», ordina mia madre senza guardarmi in faccia, indicando una sedia sul lato lungo del tavolo.
Mi siedo, mi sistemo il tovagliolo in grembo e osservo la tavola imbandita per la colazione, come se avessi intenzione di mangiare. Agnes mi versa del caffè e io le mormoro un «Grazie».
Infine, mio padre ripiega il giornale. Lo fa con estrema concentrazione, come se stesse realizzando un origami. È un’operazione molto lunga, ma quando finalmente finisce sposta lo sguardo da mia madre a me, e si schiarisce la voce.
«Zelda», esordisce, «tua madre mi ha informato del tuo comportamento di ieri sera. Non credo ci sia bisogno di dirti, per l’ennesima volta, quanto ci hai delusi. Non vogliamo che accada mai più niente del genere.»
Deglutisco. «So di non essermi comportata come vi aspettavate», dico, sperando di poter difendere in qualche modo la mia posizione. «Ma non volevo fare del male a nessuno.»
«E invece lo hai fatto», ribatte mia madre.
«Io e tua madre abbiamo disdetto la vacanza. Resteremo qui, finché non avremo deciso cosa fare. E anche tu.»
«Come?»
«Hai capito bene. Resterai qui, a casa nostra, dove possiamo tenerti d’occhio.»
«E come faccio con le lezioni?»
«Te la sei cercata, Zelda. Credimi, anche io avevo di meglio da fare che rinunciare alla mia vacanza per badare a te», sibila mio padre. «Ma questa cosa va al di là di te e di me, c’è di mezzo la famiglia e la nostra reputazione, che tu non fai altro che trascinare nel fango. Avremmo dovuto adottare una linea più dura già da un bel pezzo, il che vuol dire che quella che ti stiamo offrendo è la tua ultima occasione.»
«Ma io non la voglio!» esclamo. «A Pearley ho una vita, degli amici!»
«Sì, abbiamo presente di che amici si tratta», dice mio padre, «e non sono compagnie appropriate per una Redstone-Laurie. Fine della discussione.»
Mia madre esce dalla stanza e ritorna poco dopo con il mio cellulare.
«Adesso scriveremo dei messaggi a queste persone, in modo che non si preoccupino. Chi sono?»
Deglutisco. «Tamsin», rispondo. «E i miei coinquilini, Leon e Arush.» Non mi fido a dire loro il nome di Malik. Poi però mi viene un’idea. «E anche Jasmine», aggiungo. Magari farà leggere il messaggio a Malik e lui capirà cosa significa.
«Sblocca il telefono», ordina mia madre. Me lo porge e io eseguo. La loro decisione mi ha lasciata paralizzata. Lei digita qualcosa e legge ad alta voce il messaggio prima di mandarlo ai miei amici: «Ho deciso di rimanere dai miei genitori per un po’, non vi preoccupate». Poi alza lo sguardo e aggiunge severa: «Non devono sapere altro».
Infine, porta di nuovo via il cellulare e dal rumore intuisco che l’abbia messo nella cassaforte.
«È una follia, papà», affermo. Spero che chiamarlo così lo ammorbidisca un po’. «Non potete sequestrarmi!»
«È per il tuo bene», risponde lui freddo, riaprendo il giornale. Faccio per aggiungere qualcosa, ma lui alza un dito. «Questa conversazione è terminata.»
Mi alzo da tavola e torno in camera mia, dove mi lascio cadere sul letto. Non riesco a credere a quello che mi stanno facendo. Mi tengono reclusa. Sono prigioniera in casa dei miei genitori! Senza cellulare e senza portafogli non posso nemmeno procurarmi un taxi, e se provassi a scendere a piedi fino a Paloma Bay, di sicuro si accorgerebbero della mia assenza. Non posso contattare nessuno per chiedere aiuto, e comunque che cosa potrei dire? «I miei genitori mi hanno sequestrata»? Ridicolo.
E pensare che dovevo solo resistere per una serata, poi loro sarebbero partiti e io avrei potuto riorganizzare la mia vita. Ho fallito. Non sono riuscita a resistere a Malik e ho rovinato entrambi per sempre.
Il mio cuore accelera e i miei pensieri si accavallano l’uno sull’altro. Devo concentrarmi, devo trovare il modo di tirarmi fuori da questa situazione. Ma non so davvero come. Non riesco a pensare, sono troppo furiosa. Se almeno sapessi che lui sta bene… Rimango a fissare la coperta bianca sul letto, che purtroppo non può darmi alcuna risposta.
38
Malik
MI sveglio da un sonno inquieto, ho l’impressione di aver passato al massimo un paio d’ore a rigirarmi sotto le coperte, ma i raggi del sole che penetrano dalla mia finestra dicono il contrario. Batto le palpebre per abituarmi alla luce e ci metto un po’ a recuperare il senso dell’orientamento. Poi, di colpo, mi tornano alla mente gli eventi di ieri sera e la morsa allo stomaco ricomincia a serrarmi le viscere.
Sento delle voci in cucina, mi tappo le orecchie per escludere quei suoni attutiti, ma non serve a niente. L’idea dei volti felici di Tamsin e Rhys è insopportabile; tuttavia, una delle cose che ho imparato in prigione è che esiste uno stimolo più forte del desiderio di rimanere a letto: la natura se ne infischia sia della nebbia, sia dello stomaco contratto. Ma non ho le forze nemmeno per sorridere a questo pensiero ironico.
Mi alzo a fatica e mi trascino fuori dalla mia stanza, con le spalle curve. Tutto a un tratto sento le voci in cucina ammutolire.
«Malik?» mi chiama qualcuno.
È Jasmine. Che diavolo ci fa qui? I miei genitori l’hanno buttata fuori di casa? Occuparmi di un’adolescente è davvero l’ultima cosa che mi serve. Mi fermo e mi appoggio un momento alla parete, perché ho le vertigini. Quand’è stata l’ultima volta che ho mangiato? Non me lo ricordo. Ma in realtà non ho molto appetito.
Dalla cucina sento il rumore di una sedia che viene spostata e mi aspetto di vedere da un momento all’altro il viso di Jasmine che si affaccia alla porta. Invece da dietro l’angolo compare Lenny.
«Ehi, Malik», dice. «Buongiorno.»
«Che ci fai qui?» chiedo a bassa voce. Sono confuso.
«Vieni, siediti con noi», mi invita con aria seria.
«Arrivo subito», mormoro, oltrepassando la porta della cucina – senza azzardarmi a guardare chi altro c’è – in direzione del bagno. Non appena chiudo la porta, sento il chiacchiericcio ripartire. Ovviamente stanno parlando di me, di quello che ho combinato ieri. Forse ho sbagliato a tornare a casa, avrei dovuto annegarmi in mare, sarebbe stata la fine appropriata per una vita sprecata come la mia. E invece eccomi qui, a far pesare il mio ennesimo fallimento sulle spalle dei miei amici e della mia famiglia. Sono un buono a nulla.
Quando entro in cucina rimango impietrito nel vedere tre paia di occhi puntati su di me, colmi di sgomento e perplessità. Il mio cuore, o almeno ciò che ne rimane, ha un sussulto. Che significa?
«Che ci fate qui?» chiedo con voce strozzata.
«Vale solo per me: io ci abito», risponde Rhys, accennando un sorriso. «Vieni, siediti.»
Mi accascio sulla sedia rimasta libera, la plastica scricchiola sotto il mio peso.
«Mi dispiace, Malik», inizia Lenny. «Paco mi ha raccontato cosa è successo, lui l’ha saputo da Clément. Ho lavorato bene con te, eri l’unica persona gentile in quella gabbia di matti.» Lenny deglutisce, io non ho il coraggio di guardarlo. «Clément era fuori di sé, ti ha licenziato in tronco. La letter
a ce l’ho io, non mi andava che ti arrivasse per posta, ho pensato che fosse meglio così.»
Annuisco. «Grazie, amico mio», dico con voce tremante.
«E devo anche riprendermi la divisa. Sai come funziona al Fairmont… Maledizione, Malik, è davvero triste. Spero che tu non te la prenda troppo. Troverai di sicuro qualcos’altro. Ne sono certo.»
Sono grato a Lenny per le sue parole, anche se non servono a niente. Con i miei precedenti era stato già un miracolo aver trovato quel posto. E non credo che Amy sarà disposta a metterci di nuovo una buona parola, dopo quello che è successo. Puoi essere fiero di te, Malik, sento la sua voce nella testa. Hai fatto tutto da solo. Già, proprio così. Sono stato io a mandare tutto all’aria, da solo. Ho sprecato le possibilità che mi sono state date, e arriverà presto il giorno in cui nessuno me ne offrirà più.
«Grazie, Lenny», riesco a dire con grande fatica. Devo sforzarmi tantissimo per non scoppiare a piangere. Ma non posso cadere ancora più in basso di dove sono adesso, non lo sopporterei. «Ti preparo la divisa.»
Vado in camera e piego ordinatamente i pantaloni, la camicia, la giacca e il papillon, poi infilo tutto in una busta di plastica che ho trovato nell’armadio. In bagno ci sono una giacca da cuoco e due grembiuli che volevo lavare oggi e lasciare nel mio armadietto lunedì, per il prossimo turno. Infilo nella busta anche quelli.
«Ecco», dico quando ritorno in cucina. «Il resto è nel mio armadietto.»
«Mi scrivi la combinazione?» chiede timidamente Lenny, diventando tutto rosso. È evidente che questa situazione lo mette in imbarazzo, anche se di certo non quanto lo sono io. «Altrimenti dovrebbero forzarlo. Così se dentro c’è qualche tuo oggetto personale te lo porto.»
Annuisco e appunto la combinazione su un foglietto.
«A proposito, prima che mi dimentichi», riprende Lenny, recuperando qualcosa da sotto il tavolo, «ho preso io le tue cose.» Tira fuori dalla borsa il mio portafogli, le chiavi e il cellulare. Premo un tasto, ma lo schermo rimane nero. Batteria scarica.
«Adesso me ne vado. Fatti sentire, okay Malik? Mi piacerebbe restare in contatto.»
Annuisco.
Prima di andare, Lenny mi dà una pacca sulla spalla. Il suo è un gesto impacciato, ma io gli sono grato per tutto quello che ha fatto per me.
Jasmine mi prende una mano. «Ma cosa è successo?» chiede. «Lenny non ci ha raccontato quasi niente. Ha solo detto che ieri alla festa hai incontrato per caso una tua ex.» Mi guarda con aria perplessa, ma io non reagisco. «Rhys mi ha detto che tu e Zelda vi siete presi una pausa. È vero?»
Annuisco per l’ennesima volta.
«E non mi hai detto niente?» Adesso la sua voce si è fatta più acuta.
«Scusami, non mi andava di parlarne. Dopo quel pranzo…»
«Avete deciso di prendervi una pausa dopo il pranzo da noi? Per via di quello che hanno detto mamma e papà?» Mi dà un pugno sulla spalla.
«Ahia!» dico, massaggiandomi il punto dolorante.
«Sei un idiota, Malik. Prima di tutto dovevi dirmelo, e poi lo sai benissimo che mamma e papà hanno torto.»
«Non è stato per quello…» comincio, ma Rhys mi interrompe.
«Ieri sera», dice. Lui sa già della festa, e io sono contento di poter ritardare la resa dei conti con Jasmine.
«Era il compleanno di Zelda.»
«Cazzo.»
«E i suoi genitori sono i proprietari del Fairmont.»
«Cazzo», ripete Rhys, questa volta a voce più alta.
«Noi… ci siamo baciati», mi sfugge di bocca. Ho la gola chiusa e non riesco a nascondere le emozioni che mi scatena il ricordo di ieri. «Sua madre ci ha scoperti e mi ha buttato fuori.»
Per un istante nessuno dice una parola. È un silenzio insostenibile, e io vorrei solo ritornarmene a letto. Chiudere bottega. Allontanarmi da questa situazione, e magari dal mondo.
«Ho fatto un casino», dico infine. «Mi dispiace.» Queste ultime parole sono per Jasmine, anche se non la guardo in faccia mentre le pronuncio. E sono anche per Theo, Ebony, Ellie ed Esther. E per i miei genitori. Mi dispiace infinitamente per tutti loro.
«Ma davvero?» sbotta Jasmine. «Ma che razza di persone sono? Non devi scusarti, Malik, di sicuro non è colpa tua. E poi rimani mio fratello, qualsiasi cosa tu faccia. Puoi dirmi ancora una cosa, però?»
La reazione di Jasmine mi commuove, so che è assolutamente sincera. Eppure non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione di fallimento.
«Cosa?» chiedo, osando per la prima volta alzare lo sguardo. Nei suoi occhi scuri e vivaci leggo un’espressione perplessa. Preoccupata. Ma pur sempre affettuosa.
«Che significa questo messaggio?» Mi porge il cellulare.
Fisso lo schermo e le parole mi si incrociano davanti agli occhi, al punto che devo aggrapparmi al bordo del tavolo. È un messaggio di Zelda per Jasmine.
Ho deciso di rimanere dai miei genitori per un po’, non vi preoccupate.
«Ha a che fare con quello che è successo ieri?» domanda Rhys.
Non riesco a rispondere e mi passo una mano sul viso. Rimane dai suoi genitori. Santo cielo. Probabilmente sta provando a calmare le acque. È normale. Quella è la sua famiglia. Non importa quanto lei non li sopporti, e che razza di persone siano. È suo dovere tentare di aggiustare le cose. Cos’è che mi ha detto? Che ho una bella famiglia. E non ne ho una di scorta. Lo stesso vale per lei, anche se la sua magari non è così bella e affettuosa. La sua è una decisione giusta, logica.
«Significa che…» dico con voce rotta. Deglutisco e mi schiarisco la gola, poi faccio un respiro profondo. «Significa che ha scelto la sua famiglia.»
Prendo le mie cose, mi alzo in piedi e quasi perdo l’equilibrio. Mi aggrappo alla porta e giro l’angolo del corridoio, lentamente. Poso portafogli e chiavi sulla credenza nel corridoio, il cellulare mi cade di mano e finisce per terra. Non mi chino a raccoglierlo, gli do un calcio e lo faccio finire sotto il mobile. Poi appoggio una mano alla parete e mi passo l’altra tra i capelli. È come se non avessi più il controllo del mio corpo, è un miracolo che le gambe riescano a riportarmi fino al letto.
Mi sdraio e chiudo gli occhi, che non bruciano più. Sono troppo turbato per reagire, la minuscola scintilla di speranza riaccesa dalla reazione di Jasmine si è già spenta. Non mi rimane più niente. Mi sento avvolgere dal gelo che mi paralizza il cuore e mi offusca la mente. Mi sento un peso gigantesco addosso, un peso che mi opprime mentre affondo, sempre più giù. Intorno a me c’è solo freddo e oscurità, niente a cui aggrapparmi, nessuno spiraglio. Nessuna luce alla fine del tunnel. Ho perso tutto. Ed è stata solo colpa della mia stupidità.
39
Zelda
I GIORNI passano in un miscuglio di tristezza, nostalgia e noia assoluta. All’inizio mi affacciavo più spesso in cucina, dove tutti erano molto gentili con me, pur mantenendo le distanze. Ma l’ultima volta Agnes mi ha pregata di non venire più. Quando le ho chiesto perché, si è guardata intorno e poi ha detto: «Ai suoi genitori non piace. Ci hanno minacciati, chiunque l’aiuti verrà licenziato. Lei ci conosce, sa cosa abbiamo da perdere». Annuisco ed esco dalla cucina, con la sensazione di non avere più neanche un amico al mondo. Non ho mai avuto il cuore così pesante.
Adesso passo le giornate a vagare per la casa e per il giardino, cercando di evitare i miei genitori, che tuttavia mi aspettano in sala da pranzo a ogni pasto. Mia madre tenta di fare conversazione, mio padre grugnisce e io giocherello con il cibo che ho nel piatto.
Non mi sono mai sentita così sola in vita mia. Sono un’estranea in casa dei miei genitori, una prigioniera senza possibilità di contatti con il mondo esterno. E i miei pensieri non fanno che girare intorno a Malik. Come sta? Che cosa sta facendo? Mi sta pensando? Ricorda il nostro bacio? Quel bacio così meraviglioso, finito così male? Sarebbe da ingenui affermare di non rimpiangere niente, perché tutto quello che è successo dopo quel bacio è stato un vero e proprio incubo. Ma quando ripenso alle labbra di Malik sulle mie, alle sue mani sulle mie cosce, il mio cuore parte al galoppo. Il ricordo di lui alimenta la mia voglia di lotta
re. Sono ancora decisa ad andarmene di qui, devo solo trovare l’occasione giusta.
Mia madre è in salotto e tiene d’occhio l’ingresso, perciò io rimango al primo piano. Ma non ce la faccio più a vedere le pareti della mia camera. Percorro tutto il corridoio, fiancheggiato a destra e a sinistra da porte di legno scuro e pesante, e sono grata alla moquette che attutisce il rumore dei miei passi. Mi fermo davanti alla biblioteca, abbasso la maniglia ed entro. Vengo accolta dall’odore di vecchi libri, polvere, rilegature in cuoio e pagine ingiallite. Era una vita che non entravo qui, e guardando tutti quei volumi non posso fare a meno di pensare a Tamsin. Per lei questo sarebbe il paradiso. Cammino lungo gli scaffali alti e faccio scorrere la mano sui dorsi dei libri, opere di grandi autori allineate una di seguito all’altra. Non riesco a decidermi a tirarne fuori uno per leggerlo.
Sulla parete di fronte ci sono un paio di librerie che sembrano ospitare testi più nuovi. Mi avvicino, ma con mia grande delusione mi rendo conto che sono tutti di giurisprudenza. I titoli sono uno più noioso dell’altro, e mi chiedo come sia possibile che qualcuno scelga di passare il proprio tempo occupandosi di argomenti così aridi.
Tutto a un tratto, però, un volume attira la mia attenzione. Il titolo sul dorso è Una teoria della giustizia, che non mi pare esattamente un tema appropriato per i miei genitori. Lo tiro fuori. L’autore è un certo John Rawls. Ricordo che Miranda lo ha nominato un paio di volte, a lezione, ma non mi viene in mente in che contesto. Vado all’indice e comincio a leggere con grande curiosità: I fondamenti della giustizia, Libertà per tutti. Alcune parole mi saltano subito all’occhio – uguaglianza, tolleranza, autostima, autonomia, libertà, felicità – e cominciano a intrecciarsi nella mia mente ancora prima di leggere il testo. Sono entusiasta, mi sembra quasi di aver trovato un alleato.
Prima che qualcuno mi scopra e mi chieda cosa sto facendo, mi stringo il libro al petto e torno in camera mia, dove comincio a leggere. Non so se lo faccio soltanto per distrarmi, o se si tratta di qualcosa di più grande, ma in questo momento non mi importa.