by Dante
rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface.
Poi cominciò: “Nel beato concilio →
ti ponga in pace la verace corte
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che me rilega ne l’etterno essilio.”
“Come!” diss’ elli, e parte andavam forte: →
“se voi siete ombre che Dio sù non degni,
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chi v’ha per la sua scala tanto scorte?”
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni →
che questi porta e che l’angel profila,
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ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.
Ma perché lei che dì e notte fila →
non li avea tratta ancora la conocchia
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che Cloto impone a ciascuno e compila,
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
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però ch’al nostro modo non adocchia.
Ond’ io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
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oltre, quanto ’l potrà menar mia scola. →
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli →
diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una
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parve gridare infino a’ suoi piè molli.”
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
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si fece la mia sete men digiuna.
Quei cominciò: “Cosa non è che sanza →
ordine senta la religïone
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de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
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esser ci puote, e non d’altro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
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che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
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che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non surge più avante
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
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dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante.
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ’n terra si nasconda,
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non so come, qua sù non tremò mai.
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
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per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova, →
che, tutto libero a mutar convento,
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l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
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come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia →
cinquecent’ anni e più, pur mo sentii
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libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
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a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii.”
Così ne disse; e però ch’el si gode →
tanto del ber quant’ è grande la sete,
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non saprei dir quant’ el mi fece prode.
E ’l savio duca: “Omai veggio la rete
che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
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perché ci trema e di che congaudete. →
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
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qui se’, ne le parole tue mi cappia.” →
“Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto → →
del sommo rege, vendicò le fóra
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ond’ uscì ’l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora →
era io di là,” rispuose quello spirto,
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“famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto, →
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
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dove mertai le tempie ornar di mirto. →
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
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ma caddi in via con la seconda soma. →
Al mio ardor fuor seme le faville, →
che mi scaldar, de la divina fiamma
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onde sono allumati più di mille;
de l’Eneïda dico, la qual mamma →
fummi, e fummi nutrice, poetando:
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sanz’ essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di là quando →
visse Virgilio, assentirei un sole
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più che non deggio al mio uscir di bando.”
Volser Virgilio a me queste parole →
con viso che, tacendo, disse “Taci”;
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ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
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che men seguon voler ne’ più veraci.
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
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ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;
e “Se tanto labore in bene assommi,”
disse, “perché la tua faccia testeso
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un lampeggiar di riso dimostrommi?”
Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
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ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e “Non aver paura,”
mi dice, “di parlar; ma parla e digli
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quel ch’e’ dimanda con cotanta cura.”
Ond’ io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
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ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti →
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forte a cantar de li uomini e d’i dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
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quelle parole che di lui dicesti.”
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi →
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
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non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi.”
Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’ io dismento nostra vanitate,
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trattando l’ombre come cosa salda.”
PURGATORIO XXII
Già era l’angel dietro a noi rimaso, →
l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,
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avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c’hanno a giustizia lor disiro
detto n’avea beati, le sue voci
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con ‘sitiunt,’ sanz’altro, ciò forniro.
E io più lieve che per l’altre foci →
m’andava, sì che sanz’alcun labore
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seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio incominciò: “Amore, →
acceso di virtù, sempre altro accese,
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pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da l�
�ora che tra noi discese
nel limbo de lo ’nferno Giovenale,
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che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
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sì ch’or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona →
se troppo sicurtà m’allarga il freno,
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e come amico omai meco ragiona:
come poté trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
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di quanto per tua cura fosti pieno?”
Queste parole Stazio mover fenno →
un poco a riso pria; poscia rispuose:
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“Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.
Veramente più volte appaion cose →
che danno a dubitar falsa matera
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per le vere ragion che son nascose.
La tua dimanda tuo creder m’avvera
esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,
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forse per quella cerchia dov’ io era.
Or sappi ch’avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
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migliaia di lunari hanno punita. →
E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’io intesi là dove tu chiame, →
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crucciato quasi a l’umana natura:
‘Per che non reggi tu, o sacra fame →
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
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voltando sentirei le giostre grame.
Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
potean le mani a spendere, e pente’mi
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così di quel come de li altri mali.
Quanti risurgeran coi crini scemi →
per ignoranza, che di questa pecca →
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toglie ’l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa che rimbecca →
per dritta opposizione alcun peccato,
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con esso insieme qui suo verde secca;
però, s’io son tra quella gente stato →
che piange l’avarizia, per purgarmi,
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per lo contrario suo m’è incontrato.”
“Or quando tu cantasti le crude armi → →
de la doppia trestizia di Giocasta,”
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disse ’l cantor de’ buccolici carmi,
“per quello che Clïò teco lì tasta, →
non par che ti facesse ancor fedele
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la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così è, qual sole o quai candele →
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
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poscia di retro al pescator le vele?”
Ed elli a lui: “Tu prima m’invïasti →
verso Parnaso a ber ne le sue grotte, →
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e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
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ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: ‘Secol si rinova; →
torna giustizia e primo tempo umano,
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e progenïe scende da ciel nova.’
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno, →
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a colorare stenderò la mano.
Già era ’l mondo tutto quanto pregno →
de la vera credenza, seminata
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per li messaggi de l’etterno regno;
e la parola tua sopra toccata
si consonava a’ nuovi predicanti;
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ond’ io a visitarli presi usata.
Vennermi poi parendo tanto santi, →
che, quando Domizian li perseguette,
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sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di là per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
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fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi →
di Tebe poetando, ebb’ io battesmo;
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ma per paura chiuso cristian fu’mi, →
lungamente mostrando paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio →
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cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo.
Tu dunque, che levato hai il coperchio →
che m’ascondeva quanto bene io dico,
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mentre che del salire avem soverchio, →
dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico, →
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
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dimmi se son dannati, e in qual vico.”
“Costoro e Persio e io e altri assai,”
rispuose il duca mio, “siam con quel Greco
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che le Muse lattar più ch’altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
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che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide v’è nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
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Greci che già di lauro ornar la fronte.
Quivi si veggion de le genti tue →
Antigone, Deïfile e Argia,
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e Ismene sì trista come fue.
Védeisi quella che mostrò Langia;
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
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e con le suore sue Deïdamia.”
Tacevansi ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
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liberi da saliri e da pareti;
e già le quattro ancelle eran del giorno →
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
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drizzando pur in sù l’ardente corno,
quando il mio duca: “Io credo ch’a lo stremo →
le destre spalle volger ne convegna,
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girando il monte come far solemo.”
Così l’usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
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per l’assentir di quell’ anima degna.
Elli givan dinanzi, e io soletto →
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
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ch’a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci ragioni →
un alber che trovammo in mezza strada,
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con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
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cred’ io, perché persona sù non vada.
Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso, →
cadea de l’alta roccia un liquor chiaro
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e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a l’alber s’appressaro;
e una voce per entro le fronde →
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gridò: “Di questo cibo avrete caro.”
Poi disse: “Più pensava Maria onde → →
fosser le nozze orrevoli e intere,
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ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor bere, →
contente furon d’acqua; e Danïello
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dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo, quant’ oro fu bello, →
fé savorose con fame le ghiande,
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e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste furon le
vivande
che nodriro il Batista nel diserto;
per ch’elli è glorïoso e tanto grande
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quanto per lo Vangelio v’è aperto.”
PURGATORIO XXIII
Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
3
chi dietro a li uccellin sua vita perde, →
lo più che padre mi dicea: “Figliuole, →
vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto →
6
più utilmente compartir si vuole.”
Io volsi ’l viso, e ’l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe, →
9
che l’andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar s’udìe →
“Labïa mëa, Domine” per modo
12
tal, che diletto e doglia parturìe.
“O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?” →
comincia’ io; ed elli: “Ombre che vanno
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forse di lor dover solvendo il nodo.”
Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
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che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
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d’anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, →
palida ne la faccia, e tanto scema
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che da l’ossa la pelle s’informava.
Non credo che così a buccia strema →
Erisittone fosse fatto secco,
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