by Dante
per digiunar, quando più n’ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
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quando Maria nel figlio diè di becco!”
Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge “omo” →
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ben avria quivi conosciuta l’emme.
Chi crederebbe che l’odor d’un pomo →
sì governasse, generando brama,
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e quel d’un’acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
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di lor magrezza e di lor trista squama, →
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
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poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?” →
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
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ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
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e ravvisai la faccia di Forese.
“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora,” pregava, “la pelle,
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né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
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non rimaner che tu non mi favelle!”
“La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia,”
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rispuos’ io lui, “veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’ io mi maraviglio,
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ché mal può dir chi è pien d’altra voglia.”
Ed elli a me: “De l’etterno consiglio →
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
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rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
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in fame e ’n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
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che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
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io dico pena, e dovria dir sollazzo, →
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì,’
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quando ne liberò con la sua vena.”
E io a lui: “Forese, da quel dì →
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
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cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
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del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
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dove tempo per tempo si ristora.”
Ond’ elli a me: “Sì tosto m’ha condotto →
a ber lo dolce assenzo d’i martìri
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la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
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e liberato m’ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
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quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai →
ne le femmine sue più è pudica
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che la Barbagia dov’ io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto, →
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cui non sarà quest’ ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
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l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, par farle ir coperte,
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o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
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già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
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colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
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tutta rimira là dove ’l sol veli.”
Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente →
qual fosti meco, e qual io teco fui,
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ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ ier, quando tonda
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vi si mostrò la suora di colui,” →
e ’l sol mostrai; “costui per la profonda
notte menato m’ha d’i veri morti
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con questa vera carne che ’l seconda.
Indi m’han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
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che drizza voi che ’l mondo fece torti. →
Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice; →
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quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio è questi che così mi dice,”
e addita’lo; “e quest’ altro è quell’ ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice
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lo vostro regno, che da sé lo sgombra.”
PURGATORIO XXIV
Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento →
facea, ma ragionando andavam forte,
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sì come nave pinta da buon vento;
e l’ombre, che parean cose rimorte, →
per le fosse de li occhi ammirazione
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traean di me, di mio vivere accorte.
E io, continüando al mio sermone,
dissi: “Ella sen va sù forse più tarda →
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che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda; →
dimmi s’io veggio da notar persona
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tra questa gente che sì mi riguarda.”
“La mia sorella, che tra bella e buona →
non so qual fosse più, trïunfa lieta
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ne l’alto Olimpo già di sua corona.”
Sì disse prima; e poi: “Qui non si vieta →
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
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nostra sembianza via per la dïeta.
“Questi,” e mostrò col dito, “è Bonagiunta, →
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
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di là da lui più che l’altre trapunta →
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
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l’anguille di Bolsena e la vernaccia.”
Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti, →
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sì ch’io però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldi
n da la Pila e Bonifazio → →
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che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio →
già di bere a Forlì con men secchezza,
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e sì fu tal, che non si sentì sazio.
Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza →
più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
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che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e non so che “Gentucca” →
sentiv’ io là, ov’ el sentia la piaga
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de la giustizia che sì li pilucca.
“O anima,” diss’ io, “che par sì vaga →
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
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e te e me col tuo parlare appaga.”
“Femmina è nata, e non porta ancor benda,” →
cominciò el, “che ti farà piacere
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la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
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dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore →
trasse le nove rime, cominciando
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‘Donne ch’avete intelletto d’amore.’ ”
E io a lui: “I’ mi son un che, quando →
Amor mi spira, noto, e a quel modo
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ch’e’ ditta dentro vo significando.”
“O frate, issa vegg’ io,” diss’ elli, “il nodo →
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne →
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di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
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che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo”;
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e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, →
alcuna volta in aere fanno schiera,
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poi volan più a fretta e vanno in filo,
così tutta la gente che lì era,
volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
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e per magrezza e per voler leggera.
E come l’uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
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fin che si sfoghi l’affollar del casso,
sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
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dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?” →
“Non so,” rispuos’io lui, “quant’ io mi viva; →
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
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ch’io non sia col voler prima a la riva;
però che ’l loco u’ fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
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e a trista ruina par disposto.”
“Or va,” diss’ el; “che quei che più n’ha colpa, →
vegg’ ïo a coda d’una bestia tratto
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inver’ la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
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e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto a volger quelle ruote,”
e drizzò li occhi al ciel, “che ti fia chiaro
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ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.
Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
in questo regno, sì ch’io perdo troppo
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venendo teco sì a paro a paro.”
Qual esce alcuna volta di gualoppo →
lo cavalier di schiera che cavalchi,
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e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
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che fuor del mondo sì gran marescalchi.
E quando innanzi a noi intrato fue, →
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
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come la mente a le parole sue,
parvermi i rami gravidi e vivaci →
d’un altro pomo, e non molto lontani
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per esser pur allora vòlto in laci.
Vidi gente sott’ esso alzar le mani →
e gridar non so che verso le fronde,
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quasi bramosi fantolini e vani
che pregano, e ’l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
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tien alto lor disio e nol nasconde.
Poi si partì sì come ricreduta; →
e noi venimmo al grande arbore adesso,
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che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
“Trapassate oltre sanza farvi presso: →
legno è più sù che fu morso da Eva,
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e questa pianta si levò da esso.”
Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
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oltre andavam dal lato che si leva.
“Ricordivi,” dicea, “d’i maladetti →
nei nuvoli formati, che, satolli,
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Tesëo combatter co’ doppi petti;
e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
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quando inver’ Madïan discese i colli.”
Sì accostati a l’un d’i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
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seguite già da miseri guadagni.
Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
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contemplando ciascun sanza parola.
“Che andate pensando sì voi sol tre?” →
sùbita voce disse; ond’ io mi scossi
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come fan bestie spaventate e poltre.
Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace →
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vetri o metalli sì lucenti e rossi,
com’io vidi un che dicea: “S’a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
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quinci si va chi vuole andar per pace.”
L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
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com’ om che va secondo ch’elli ascolta.
E quale, annunziatrice de li albori, →
l’aura di maggio movesi e olezza,
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tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;
tal mi senti’ un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
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che fé sentir d’ambrosïa l’orezza.
E senti’ dir: “Beati cui alluma →
tanto di grazia, che l’amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
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esurïendo sempre quanto è giusto!”
PURGATORIO XXV
Ora era onde ’l salir non volea storpio; →
ché ’l sole avëa il cerchio di merigge
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lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa l’uom che non s’affigge →
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
6
se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
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9
che per artezza i salitor dispaia.
E quale il cicognin che leva l’ala
per voglia di volare, e non s’attenta
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d’abbandonar lo nido, e giù la cala;
tal era io con voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a l’atto
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che fa colui ch’a dicer s’argomenta.
Non lasciò, per l’andar che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma disse: “Scocca →
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l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto.”
Allor sicuramente apri’ la bocca
e cominciai: “Come si può far magro →
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là dove l’uopo di nodrir non tocca?”
“Se t’ammentassi come Meleagro →
si consumò al consumar d’un stizzo,
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non fora,” disse, “a te questo sì agro;
e se pensassi come, al vostro guizzo, →
guizza dentro a lo specchio vostra image,
27
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perché dentro a tuo voler t’adage, →
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
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che sia or sanator de le tue piage.”
“Se la veduta etterna li dislego,” →
rispuose Stazio, “là dove tu sie,
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discolpi me non potert’ io far nego.”
Poi cominciò: “Se le parole mie, →
figlio, la mente tua guarda e riceve,
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lume ti fiero al come che tu die.
Sangue perfetto, che poi non si beve →
da l’assetate vene, e si rimane