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Sussurri

Page 20

by Dean Koontz


  "Ti spillava dollari su dollari dal conto in banca."

  "Fino all'ultimo centesimo. A eccezione di diecimila dol­lari investiti in un certificato di deposito a lungo termine."

  "E poi ti ha abbandonato?"

  Frank venne scosso da un fremito. "Un giorno sono tor­nato a casa e ho trovato un messaggio. Diceva: 'Se vuoi sapere dove sono, chiama questo numero e chiedi di Mr Freyborn.' Freyborn era un avvocato. Si era rivolta a lui perché curasse la pratica del divorzio. Sono rimasto di pie­tra. Dopotutto, non avevo mai sospettato nulla... Comun­que, Freyborn si rifiutò di dirmi dove si trovava. Si limitò ad assicurarmi che non sarebbe stato difficile trovare un ac­cordo, dal momento che Wilma non chiedeva né alimenti né altro. Non voleva nemmeno un centesimo, mi disse Freyborn. Voleva solo andarsene. È stata dura. Molto dura. Cristo, non riuscivo a capire che cosa avevo fatto di male. Ho persino rischiato di impazzire nel tentativo di immagi­nare dove fosse l'errore. Sono arrivato a pensare di poter cambiare, di poter diventare una persona migliore e di riconquistarla. Ma poi... due giorni dopo, quando ho dovuto staccare un assegno, mi sono accorto che sul conto c'erano solo tre dollari. Sono subito andato in banca e poi anche alla società finanziaria e alla fine ho scoperto perché non chiedeva nemmeno un centesimo. Si era già presa tutto da sola."

  "Non le avrai permesso di filarsela così facilmente?" chiese Tony.

  Frank trangugiò parte del suo scotch. Stava sudando. Aveva la faccia pallida, quasi terrea. "All'inizio sono rima­sto intontito, mi era quasi venuta voglia di ammazzarmi. Non che abbia veramente cercato di farlo, però ormai non mi importava più di vivere. Ero confuso, quasi in trance."

  "Ma poi ti sarai risvegliato, no?"

  "In parte. Ancora oggi sono un po' confuso. Ma ne sono uscito, almeno in parte," rispose Frank. "Poi ho provato vergogna. Mi vergognavo di ciò che le avevo permesso di farmi. Mi ero comportato da somaro, da pezzo di cretino integrale. Non volevo che lo sapesse nessuno, nemmeno il mio avvocato."

  "Questa è stata la prima vera sciocchezza che hai com­messo," ribattè Tony. "Posso capire il resto della storia, ma questo no."

  "Non so perché, ma ho cominciato a pensare che se avessi fatto sapere in giro come mi ero fatto ingannare da Wilma, la gente avrebbe potuto mettere in dubbio l'imma­gine di Barbara Ann. Temevo che si potesse credere che anche Barbara Ann mi aveva preso in giro come Wilma, e per me la cosa più importante al mondo era mantenere pu­lita la sua memoria. Mi rendo conto che adesso possa sem­brare pazzesco, ma in quel momento la pensavo così."

  Tony non sapeva più che cosa dire.

  "Quindi la pratica di divorzio è andata avanti liscia come l'olio," proseguì Frank. "Niente lunghe discussioni per de­cidere gli accordi. Anzi, ho rivisto Wilma per qualche mi­nuto soltanto in tribunale e, comunque, non le ho mai più rivolto la parola."

  "E adesso sai dove si trova?"

  Frank finì di bere lo scotch. Quando riprese a parlare, la sua voce era diversa, sommessa, quasi un sussurro, non tanto per evitare che i presenti nel locale sentissero la sua storia, quanto per mancanza assoluta di energia. "Dopo il divorzio, cominciai a incuriosirmi. Sulla base del certificato di deposito che mi aveva lasciato, sono riuscito a strappare un prestito e ho assunto un investigatore privato per sco­prire dov'era e che cosa stava facendo. Sono venuto a sa­pere un bel mucchio di cose interessantissime. Nove giorni dopo la sentenza definitiva di divorzio, si è risposata con un tizio dell'Orange County, un certo Chuck Pozley. È proprietario di una sala giochi a Costa Mesa. Dovrebbe va­lere intorno agli ottantamila dollari. La mia impressione è che Wilma avesse preso in considerazione l'idea di sposarlo prima che ereditassi i soldi di mio padre. Poi però ha prefe­rito sposare me, spennarmi fino all'osso e tornare da lui con i miei soldi. Hanno usato parte del capitale per aprire altri due locali e sembra che se la cavino niente male."

  "Oh, Cristo," esclamò Tony.

  Solo quella mattina non sapeva niente della vita di Frank Howard, ma ormai ne conosceva tutti i dettagli. Anzi, più di quanto avesse desiderato sapere. Era sempre stato un ottimo ascoltatore, ma quella qualità era stata tanto una benedizione quanto una maledizione. Michael Savatino, il suo ex compagno, diceva sempre che il motivo per cui era diventato un detective era perché la gente si fidava di lui e si dimostrava sempre ben disposta a raccontar­gli tutto. E, sempre secondo Michael, la gente era disposta a parlare con lui semplicemente perché era un buon ascol­tatore. Secondo Michael, la sua era una qualità rarissima in un mondo di egoisti, di arrivisti e di egocentrici. Tony sa­peva ascoltare con disponibilità e attenzione qualsiasi tipo di persona perché, come un pittore resta affascinato dalle sfumature nascoste dei propri modelli, lui era alla ricerca del significato generale dell'esistenza umana. Persino in quel momento, ascoltando Frank, gli venne da pensare a una frase di Emerson che aveva letto molto tempo prima: La Sfinge deve risolvere il suo enigma. Quindi, se la storia è racchiusa nel singolo uomo, tutto sarà spiegabile attraverso l'e­sperienza individuale. Gli uomini, le donne e i bambini erano simili a grandi rompicapi e Tony non si annoiava mai ad ascoltare le loro storie.

  Tony si allungò per udire meglio le paròle sommesse di Frank. "Pozley sapeva che cosa mi aveva riservato Wilma. Probabilmente si vedevano un paio di volte la settimana, mentre io ero al lavoro. Quindi per tutto il tempo in cui ha interpretato il ruolo di brava mogliettina, non ha fatto al­tro che derubarmi e scopare con il suo Pozley. Più ci pen­savo e più mi infuriavo, finché sono giunto alla conclusione di raccontare tutto al mio avvocato."

  "Ma ormai era troppo tardi?"

  "Più o meno. Oh, sicuramente avrei potuto intentare una causa legale contro di lei. Ma il fatto di non averla ac­cusata del furto durante la procedura di divorzio avrebbe gravato pesantemente su di me. Avrei dovuto spendere i pochi soldi rimasti in avvocati e con tutta probabilità avrei perso la causa comunque. E così ho deciso di buttarmi tutto dietro le spalle. Credevo di potermi rituffare nel la­voro, come avevo fatto dopo la morte di Barbara Ann. Ma ero molto più distrutto di quanto immaginassi. Non riu­scivo più a lavorare. Ogni donna con cui mi trovavo ad avere a che fare, be'... non so... era come se in ognuna di loro riconoscessi Wilma. Bastava un niente per scattare con violenza con le donne che dovevo interrogare. Anzi, molto presto cominciai a comportarmi male con tutti i testimoni, donne e uomini. Cominciai a perdere di vista le cose, non notavo più nemmeno gli indizi che avrebbe saputo racco­gliere anche un bambino. Presi a litigare con il mio compa­gno e adesso eccomi qua." Per un secondo gli mancò la voce e dovette lottare con se stesso per riuscire a proseguire. "Dopo la morte di Barbara Ann, se non altro, ero riuscito a lavorare. Mi era rimasto qualcosa. Ma Wilma si è presa tutto. I miei soldi e il mio orgoglio, persino le mie ambi­zioni. Ormai non mi importa più niente di niente." Scivolò fuori della panca e rimase in piedi, oscillando come un bu­rattino. "Scusami. Devo andare a pisciare." Vacillante, si di­resse verso la toilette, facendo attenzione a tenere a debita distanza chiunque incontrasse sulla sua strada.

  Tony sospirò e chiuse gli occhi. Si sentiva spossato, sia fisicamente sia spiritualmente.

  Penny si avvicinò al tavolo e gli disse: "Gli faresti un grande favore se lo riaccompagnassi a casa. Domani mat­tina si sentirà come una capra mezzo morta."

  "E come si sente una capra mezzo morta?"

  "Molto peggio di una capra in buona salute e molto peg­gio di una capra morta," rispose lei.

  Tony pagò le consumazioni e rimase ad aspettare il suo compagno. Passati cinque minuti, prese la giacca e la cra­vatta di Frank e andò a cercarlo.

  La toilette era angusta: una cabina, un orinatoio, un la­vandino. Sapeva di disinfettante al pino misto a urina.

  Frank era davanti al muro ricoperto di scritte contro il quale batteva le mani aperte provocando un rumore secco che riecheggiava nella piccola stanza. bam bam bam bam! Nel locale non si udiva nulla a causa del brusio e della mu­sica, ma all'interno del gabinetto Tony si sentì perforare i timpani.

  "Frank?"

  bam bam bam bam bam bam bam!

  Gli si avv
icinò, gli mise una mano sulla spalla, lo scostò delicatamente dalla parete e lo fece voltare verso di sé.

  Frank stava piangendo. Aveva gli occhi gonfi e arrossati. La faccia era rigata dalle lacrime. Le labbra erano gonfie e scomposte: tremavano per il dolore. Ma piangeva silenzio­samente, senza singhiozzi o scossoni, con la voce strozzata in gola.

  "Stai calmo," lo tranquillizzò Tony. "Si sistemerà tutto quanto. Non hai bisogno di Wilma. Stai molto meglio senza di lei. Hai molti amici. Ti aiuteremo tutti a venirne fuori, se solo ce lo permetterai, Frank. Ti aiuterò. Ci tengo, Frank. Ci tengo davvero."

  Frank chiuse gli occhi. Storcendo le labbra, si mise a sin­ghiozzare, ma sempre in silenzio, producendo un leggero sibilo a ogni respiro. Allungò una mano, alla ricerca di un sostegno, e Tony gli circondò le spalle con un braccio.

  "Voglio tornare a casa," biascicò Frank. "Voglio solo an­dare a casa."

  "D'accordo. Ti accompagno io. Appoggiati."

  Abbracciati come due vecchi compagni dì guerra, lascia­rono The Bolt Hole. A piedi raggiunsero il condominio dove abitava Tony e poi salirono sulla sua jeep.

  A metà strada, Frank emise un sospiro e mormorò: "Tony... ho paura."

  Tony gli lanciò un'occhiata.

  Frank era sprofondato nel sedile. Appariva piccolo e in­difeso e i vestiti sembravano troppo grandi per lui. Il viso era segnato dalle lacrime.

  "Di che cosa hai paura?"

  "Non voglio restare da solo," rispose Frank mentre pian­geva sommessamente e tremava per gli effetti dell'alcol e forse anche della paura.

  "Non sei solo," gli fece notare Tony.

  "Ho paura di... morire solo."

  "Non sei solo e non stai morendo, Frank."

  "Tutti invecchiano... velocemente. E a me... piacerebbe avere qualcuno al mio fianco..."

  "Troverai qualcuno."

  "Voglio qualcuno da ricordare e da amare."

  "Non preoccuparti," lo rassicurò Tony.

  "Mi spaventa l'idea."

  "Troverai qualcuno."

  "No."

  "Sì, invece."

  "Non troverò nessuno," ripetè Frank, chiudendo gli oc­chi e appoggiando il capo contro il finestrino.

  Quando arrivarono a casa, Frank stava già dormendo come un bambino. Tony cercò di svegliarlo ma Frank non voleva tornare in sé. Inciampando, mormorando parole in­comprensibili, sospirando affannosamente, si fece traspor­tare fino alla porta di casa. Tony l'appoggiò contro il muro e, tenendolo con una mano, gli frugò nelle tasche alla ri­cerca della chiave. Quando finalmente riuscirono a rag­giungere la camera da letto, Frank rovinò sul materasso come un sacco di patate e iniziò a russare.

  Tony lo spogliò, sollevò le coperte, aiutò il compagno a sistemarsi nel letto e gli rimboccò le lenzuola. Nel frat­tempo Frank continuò a sbuffare e a russare.

  In cucina, in un cassetto pieno di cianfrusaglie vicino al lavandino, Tony trovò una penna, un blocco e un rotolo di scotch. Scrisse un messaggio e lo appese sullo sportello del frigorifero.

  Caro Frank,

  quando domani mattina ti sveglierai, ricorderai tutto ciò che mi hai raccontato e con tutta probabilità ti senti­rai in imbarazzo. Non ti preoccupare. Tutto quello che mi hai confidato rimarrà fra noi due. Anzi, domani ti racconterò anch'io qualche segreto della mia vita, così sa­remo pari. Dopotutto, gli amici servono anche per sfo­garsi.

  Tony

  Uscì e chiuse la porta.

  Tornando a casa, ripensò al povero Frank tutto solo e si rese conto che la sua situazione non era decisamente mi­gliore. Aveva ancora un padre, ma Carlo era molto malato e difficilmente sarebbe sopravvissuto più di cinque, dieci anni al massimo. I fratelli e le sorelle di Tony erano sparsi un po' ovunque e, d'altra parte, non si sentiva vicino a nes­suno di loro in particolare. Aveva un sacco di amici, ma non del genere che si desidera avere attorno da vecchi. Sa­peva bene che cosa intendeva dire Frank. Sul letto di morte, c'era un solo genere di mani in grado di consolarti o di infonderti coraggio: le mani di una moglie, dei figli o dei genitori. Si stava costruendo un'esistenza che, alla fine, si sarebbe rivelata un semplice tempio vuoto di solitudine. Aveva trentacinque anni, era ancora giovane, ma non aveva mai pensato seriamente al matrimonio. Tutt'a un tratto ebbe la sensazione che il tempo gli stesse scorrendo sotto le dita. Gli anni passavano troppo velocemente. Sem­brava ieri che aveva vent'anni, ma ne erano già passati altri dieci.

  Forse Hilary Thomas è la persona giusta, pensò mentre parcheggiava davanti a casa. E una donna speciale. Ne sono sicuro. E molto speciale. Forse anche lei pensa che io sia speciale. Potrebbe funzionare. Perché no?

  Rimase seduto per qualche istante nella jeep a fissare il cielo della notte, a pensare a Hilary Thomas, alla vecchiaia e alla morte solitaria.

  Alle 22.30, Hilary era completamente assorbita dal ro­manzo di James Clavell. Stava finendo di sgranocchiare una mela con un pezzo di formaggio, quando il telefono prese a squillare.

  "Pronto?"

  Silenzio.

  "Chi è?"

  Niente.

  Hilary sbattè giù il ricevitore, come consigliano sempre di fare in caso di minacce o telefonate oscene. Riappendi e basta, dicono sempre. Non incoraggiare chi ha chiamato. Riappendi subito. Era riuscita a fargli rimbombare l'orec­chio, ma questo non l'aiutava a sentirsi meglio.

  Era sicura che non si era trattato di un errore. Due volte in una sera, senza nemmeno una parola di scuse. Non era possibile. Senza contare che quel silenzio lasciava traspa­rire una velata minaccia.

  Nemmeno dopo la nomination all'Oscar aveva sentito il bisogno di far togliere il suo nome dall'elenco telefonico. Gli autori non godevano della stessa popolarità degli at­tori o dei registi. Il pubblico in genere non ricordava mai il nome di chi aveva scritto la sceneggiatura dei film mi­gliori. La maggior parte degli autori che chiedeva di to­gliere il proprio nome dagli elenchi telefonici lo faceva per prestigio: il fatto di non comparire significava che lo scrittore era talmente indaffarato a concentrarsi sulle sue idee da non avere nemmeno il tempo di evadere chiamate indesiderate. Ma Hilary non soffriva di questo problema e, per lei, restare sull'elenco telefonico equivaleva a non esserci affatto.

  Ovviamente questo poteva non essere più vero. Forse tutte quelle chiacchiere sui suoi due incontri con Bruno Frye l'avevano fatta diventare un oggetto di pubblico inte­resse, là dove due sceneggiature di successo non erano riu­scite. La storia di una donna che lotta contro un probabile stupratore e che, la seconda volta, lo ammazza può sempre affascinare un certo tipo di menti malate. Poteva esserci in giro una bestia vogliosa di dimostrare a tutti che sarebbe stata in grado di riuscire dove Bruno Frye aveva fallito.

  Decise di chiamare la sede della compagnia telefonica immediatamente la mattina successiva, per richiedere un numero nuovo da non pubblicare sugli elenchi.

  A mezzanotte l'obitorio della città era tranquillo come una tomba, com'era stato descritto una volta dal patologo di turno. Anche il corridoio scarsamente illuminato era im­merso nel silenzio. Il laboratorio era al buio. La stanza piena di cadaveri era fredda, tetra e silenziosa, fatta ecce­zione per il ronzio delle bocchette che immettevano aria fredda dalle tubazioni.

  Mentre giovedì notte diventava venerdì mattina, all'obitorio c'era un solo inserviente di turno. Era seduto davanti a una scrivania di metallo e legno, in una stanzetta accanto all'ufficio del coroner. Si chiamava Albert Wolwicz. Ventinove anni, divorziato, era padre di una bambina di nome Rebecca. Sua moglie si era assicurata la sua custodia e or­mai entrambe vivevano a San Diego. Ad Albert non impor­tava fare quel turno da (perdonate l'espressione) oltre­tomba. Si occupava dell'archivio, stava ad ascoltare la ra­dio, poi tornava all'archivio e di tanto in tanto leggeva un paio di capitoli di un romanzo di Stephen King, sempre stracolmo di vampiri latitanti dalle parti del New England. E se la città se ne stava tranquilla per tutta la notte, se i pie­dipiatti o gli addetti al trasporto dei cadaveri non arriva­vano di corsa a portare qualche reduce da una rissa o da un incidente, il lavoro sarebbe stato facile come bere un bicchier d'acqua sino alla
fine del turno.

  Dieci minuti dopo mezzanotte, il telefono squillò.

  Albert prese il ricevitore e rispose: "Obitorio."

  Silenzio.

  "Pronto?" ripetè Albert.

  L'uomo all'altro capo del filo iniziò a gemere e a pian­gere.

  "Chi è?"

  Ma l'altro non riuscì a rispondere a causa delle lacrime.

  I suoni che emetteva erano quasi una parodia del dolore: singhiozzi esagerati e isterici, i più strani che Albert avesse mai udito. "Se mi dice che cos'è successo, forse la posso aiutare."

  Ma l'altro riattaccò.

  Albert rimase a fissare il ricevitore per qualche istante, scrollò le spalle e alla fine riappese.

  Cercò di riprendere la lettura del romanzo di Stephen King, ma ormai era convinto di aver udito un tramestio fuori della porta che gli stava alle spalle. Continuò a vol­tarsi, ma non c'era nessuno. O niente.

  4

  Venerdì mattina.

  Ore nove.

  Due uomini della Camera Mortuaria di Angels' Hill di West Los Angeles arrivarono all'obitorio per ritirare il corpo di Bruno Gunther Frye. Lavoravano in collabora­zione con l'impresa di pompe funebri Forever View nella città di St. Helena, dove aveva vissuto il defunto. Uno dei due uomini firmò il regolare permesso e il cadavere fu tra­sferito nella parte posteriore del carro funebre Cadillac.

  Frank Howard non sembrava reduce da una sbornia. La pelle non aveva il classico colorito giallastro tipico di chi ha alzato il gomito, ma, al contrario, appariva rosea e piena di salute. Gli occhi azzurri erano luminosi. Apparente­mente, quella confessione gli aveva fatto un gran bene, a livello sia fisico sia spirituale.

 

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