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Sussurri

Page 21

by Dean Koontz


  Prima in ufficio e poi in macchina, Tony avvertì l'imba­razzo che aveva previsto e fece del suo meglio per mettere Frank a proprio agio. Frank sembrava essersi reso conto che fra loro non era cambiato niente e che, addirittura, il loro rapporto era decisamente migliorato rispetto a tre mesi prima. Nel corso della mattinata, sperimentarono una sintonia tale che avrebbe permesso loro di lavorare insieme come se fossero stati una persona sola. Non regnava ancora la perfetta armonia che Tony aveva conosciuto con Michael Savatino, ma ormai sembrava non ci fossero più osta­coli alla nascita di un'amicizia profonda quanto quella che l'aveva unito al suo precedente compagno. Avevano ancora bisogno di un po' di tempo, forse qualche mese, per tro­vare un'intesa perfetta, ma alla fine si sarebbe sicuramente creato un legame a livello psichico che avrebbe reso il loro lavoro incredibilmente più semplice.

  Venerdì mattina, lavorarono al caso di Bobby Valdez. Non avevano molte piste da seguire e le prime due non portarono a nulla.

  Il rapporto su Juan Mazquezza del dipartimento della motorizzazione si rivelò una vera delusione. Bobby Valdez aveva usato un falso certificato di nascita e altri documenti contraffatti per ottenere una patente a nome di Juan Maz­quezza. L'ultimo indirizzo fornito dal dipartimento era quello degli appartamenti Las Palmeras in La Brea Avenue, che Bobby aveva abbandonato in luglio. Esistevano altri due Juan Mazquezza negli archivi del dipartimento della motorizzazione. Il primo era un ragazzo di dician­nove anni che viveva a Fresno. L'altro Juan era un uomo di sessantasette anni di Tustin. Entrambi possedevano auto­mobili con targhe californiane, ma nessuno dei due aveva una Jaguar. Non era mai stata registrata un'automobile a nome del Juan Mazquezza che abitava in La Brea Avenue, e quindi era ovvio che Bobby avesse comprato la Jaguar usando un altro nome falso. Evidentemente disponeva di una vasta gamma di documenti contraffatti di ottima qua­lità.

  Erano a un punto morto.

  Tony e Frank ritornarono alla Lavanderia Vee Vee Gee e interrogarono gli operai che avevano lavorato con Bobby quando si faceva passare per Mazquezza. Speravano che qualcuno fosse rimasto in contatto con lui e potesse quindi fornire informazioni sul suo attuale domicilio. Ma tutti rife­rirono che Juan era un tipo solitario: nessuno sapeva do­v'era finito.

  Un altro punto morto.

  Lasciata la Vee Vee Gee, si fermarono per il pranzo in una trattoria che a Tony piaceva molto. Oltre al locale principale, il ristorante aveva una terrazza all'aperto con una dozzina di tavoli posti sotto grandi ombrelloni a stri­sce bianche e blu. Tony e Frank mangiarono una frittata al formaggio e un'insalata respirando la tiepida aria autun­nale.

  "Domani sera hai qualcosa da fare?" chiese Tony.

  "Io?"

  "Tu."

  "No. Niente."

  "Bene. Ho organizzato qualcosa."

  "Che cosa?"

  "Un appuntamento alla cieca."

  "Per me?"

  "Tu rappresenti solo il cinquanta per cento."

  "Parli sul serio?"

  "L'ho chiamata questa mattina."

  "Scordatelo," sbottò Frank.

  "È il tipo adatto a te."

  "Odio gli incontri combinati."

  "È molto bella."

  "Non mi interessa."

  "E anche dolce."

  "Non sono un ragazzino."

  "E chi ha detto che lo sei?"

  "Non c'è bisogno che tu mi sistemi con qualcuno."

  "A volte lo si fa per un amico. Non credi?"

  "Posso farcela anche da solo."

  "Solo un pazzo rifiuterebbe di uscire con questa donna."

  "E allora sono un pazzo."

  Tony sospirò. "Fai come vuoi."

  "Senti, per quanto riguarda ieri sera a The Bolt Hole..."

  "Sì?"

  "Non cercavo la tua compassione."

  "Prima o poi tutti hanno bisogno di un po' di compas­sione."

  "Volevo solo che tu capissi perché avevo la luna storta."

  "L'ho capito benissimo."

  "Non volevo darti l'impressione di essere un nevrotico o un imbecille che non sa in che modo trattare le donne."

  "Non mi hai dato assolutamente quell'impressione."

  "Non mi sono mai lasciato andare così prima di ieri."

  "Ci credo."

  "Non ho mai... pianto in quel modo."

  "Lo so."

  "Immagino sia stata la stanchezza."

  "Certo."

  "Forse è stata colpa di tutti quegli scotch."

  "Forse."

  "Ho bevuto un po' troppo."

  "Parecchio."

  "L'alcol mi rende sentimentale."

  "Forse."

  "Ma ora sto bene."

  "E chi ha detto che stai male?"

  "Posso decidere da solo con chi uscire, Tony."

  "Come preferisci."

  "D'accordo?"

  "D'accordo."

  Si concentrarono su quello che stavano mangiando.

  In quella zona c'erano molti uffici e decine di segretarie camminavano lungo il marciapiede per recarsi a pranzo.

  La terrazza del ristorante era piena di fiori che profuma­vano l'aria tiepida. Il rumore della strada era tipico di Los Angeles. Non si udiva l'incessante stridio dei freni e il suono dei clacson che caratterizzavano New York, Chicago e molte altre città. Solo il mormorio ipnotico dei motori. E il sibilo delle macchine che sfrecciavano. Quasi una nenia. Rilassante. Come le onde sulla spiaggia. Prodotto dalle macchine ma in qualche modo naturale e primitivo. Delica­tamente e inaspettatamente erotico. Persino i rumori del traffico si conformavano alla personalità subtropicale della città. Dopo un paio di minuti di silenzio, Frank chiese: "Come si chiama?"

  "Chi?"

  "Non fare il finto tonto."

  "Janet Yamada."

  "Giapponese?"

  "Ti sembra forse italiana?"

  "Che tipo è?"

  "Intelligente, spiritosa, carina."

  "Che cosa fa?"

  "Lavora in municipio."

  "Quanti anni ha?"

  "Trentasei, trentasette."

  "Non è troppo giovane per me?"

  "Santo cielo, ne hai solo quarantacinque!"

  "Come fai a conoscerla?"

  "Siamo usciti insieme per un po'," rispose Tony.

  "Che cosa c'era che non andava?"

  "Niente. Abbiamo solo scoperto che andavamo più d'ac­cordo come amici che come amanti."

  "Credi che mi potrebbe piacere?"

  "Ne sono certo."

  "E io piacerò a lei?"

  "Se non ti metti le dita nel naso e se non mangi con le mani."

  "Va bene," mormorò Frank. "Uscirò con lei."

  "Se ti pesa tanto, forse è meglio lasciar perdere."

  "No. Ci andrò. Andrà tutto bene."

  "Non devi accettare solo per farmi un favore."

  "Dammi il suo numero di telefono."

  "Forse non è stata una buona idea. Mi sembra di averti costretto a fare ciò che non volevi."

  "Non mi hai costretto."

  "Forse dovrei chiamarla e annullare tutto," proseguì Tony.

  "No, ascolta, io..."

  "Non dovrei combinare questi appuntamenti. Non è il mio compito."

  "Dannazione, io voglio uscire con lei!" sbottò Frank.

  Tony sorrise. "Lo so."

  "Sono forse stato manipolato?"

  "Ti sei manipolato da solo."

  Frank cercò di fingersi accigliato, ma non ci riuscì. Fece una smorfia. "Vuoi che usciamo insieme sabato sera?"

  "Assolutamente no. Devi arrangiarti da solo, amico."

  "Ovviamente," lo rimproverò Frank, "non vorrai divi­dere Hilary Thomas con qualcun altro."

  "Esattamente."

  "Credi davvero che fra voi due possa funzionare?"

  "Guarda che non abbiamo ancora parlato di matrimo­nio. È solo il primo appuntamento."

  "Ma non credi che sia un po'... azzardato, anche solo per un appuntamento?"

  "E perché mai?" domandò Tony.

  "Be', lei ha un sacco di soldi."

  "Mi sembra un'osservazione da maschio
sciovinista."

  "Non credi che renderà tutto più difficile?"

  "Quando un uomo è ricco, deve forse limitarsi a uscire con donne che possiedono la stessa quantità di denaro?"

  "È diverso."

  "Quando un re decide di sposare una povera commessa, allora si tratta di una storia romantica. Ma quando una re­gina decide di sposare un povero commesso, allora ecco che quella donna si sta facendo incastrare. È un classico."

  "Be'... in bocca al lupo."

  "Anche a te."

  "Pronto per ritornare al lavoro?"

  "Sì," rispose Tony. "Andiamo a cercare Bobby Valdez."

  "Sarebbe più facile con il giudice Crater."

  "O Amelia Earhart."

  "O Jimmy Hoffa."

  Venerdì pomeriggio.

  Ore tredici.

  Il corpo giaceva sul tavolo di preparazione della camera mortuaria di Angels' Hill a West Los Angeles. Dall'alluce del piede destro penzolava un cartellino che identificava il cadavere come quello di Bruno Gunther Frye.

  Un imbalsamatore specializzato stava preparando la salma per il trasporto a Napa County. Gli intestini e tutti gli organi interni vennero estratti dal corpo attraverso l'u­nica apertura naturale disponibile. A causa delle ferite da arma da taglio e dell'autopsia effettuata la notte prece­dente, non era rimasto molto sangue nel cadavere, ma an­che i pochi fluidi rimasti vennero prelevati fino all'ultima goccia; al loro posto venne iniettato il liquido da imbalsa­mazione.

  Affaccendandosi sul corpo, il tecnico mortuario si mise a fischiettare un brano di Donny e Marie Osmond.

  La camera mortuaria di Angels' Hill non garantiva il ser­vizio della ricomposizione estetica, che sarebbe stata effet­tuata dall'impresario di pompe funebri di St. Helena. L'imbalsamatore di Angels' Hill si limitò a chiudere per sempre gli occhi ormai ciechi e a immobilizzare le labbra con una serie di punti interni in modo che la bocca restasse vaga­mente sorridente per l'eternità. Si trattava di un lavoro me­ticoloso: i punti non sarebbero stati visibili agli occhi di chi fosse andato a porgere l'estremo saluto, se mai ci fosse stato qualcuno.

  Poi la salma venne avvolta in un lenzuolo bianco e ripo­sta in una misera bara di alluminio, fabbricata e sigillata in base alle norme statali per il trasporto di morti con qualsiasi mezzo. A St. Helena, il cadavere sarebbe stato riposto in una bara più elegante, scelta direttamente dalla famiglia o dagli amici del compianto.

  Venerdì ore 16. Il corpo venne trasferito all'aeroporto internazionale di Los Angeles e caricato su un turbo elica merci della California Airways con destinazione Monterey, Santa Rosa e Sacramento. Al secondo scalo sarebbe stato scaricato.

  Venerdì ore 18.30. All'aeroporto di Santa Rosa non c'era nessuno della famiglia di Bruno Frye ad accogliere la salma. Non aveva parenti. Era l'ultimo della stirpe. Suo nonno aveva concepito un'unica figlia, Katherine, che non aveva avuto eredi. Bruno era stato adottato. E non si era mai sposato.

  Due delle tre persone che stavano aspettando al terminal arrivavano direttamente dall'impresa di pompe funebri Forever View. Il proprietario era Mr Avril Thomas Tannerton che, con la sua attività, serviva St. Helena e le comu­nità di quella zona. Quarantatreenne, di bell'aspetto, era leggermente paffuto, ma non grasso, con una chioma di ca­pelli biondo rossicci, una generosa manciata di lentiggini, occhietti vivaci e un sorriso caloroso che difficilmente riu­sciva a dissimulare. Era andato a Santa Rosa con l'assistente di ventiquattro anni, Gary Olmstead, un ragazzo fisi­camente poco dotato che raramente parlava più dei morti con cui aveva a che fare. Tannerton richiamava vagamente l'immagine del cantore, con una patina di rispetto che na­scondeva un animo bonariamente malizioso; Olmstead aveva una faccia lunga, addolorata, ascetica, che ben si adattava alla sua professione.

  Il terzo uomo era Joshua Rhinehart, avvocato di Frye e suo esecutore testamentario. Sessantenne, aveva l'aspetto giusto per intraprendere con successo la carriera diploma­tica o politica. La ricca chioma pettinata all'indietro non era bianca, né giallastra, ma quasi argentata. La fronte era spaziosa, il naso importante, la mascella squadrata. Gli oc­chietti marroni erano limpidi e vivaci.

  Il corpo di Bruno Frye venne trasferito dall'aereo al carro funebre che l'avrebbe portato a St. Helena. Joshua Rhinehart lo seguì con la sua auto privata.

  Joshua Rhinehart non si era recato a Santa Rosa con Avril Tannerton per affari o per obblighi di tipo personale. Erano anni che si occupava della Shade Tree Vineyards, la società che da generazioni apparteneva alla famiglia di Frye, ma ormai non aveva più bisogno della rendita derivante da quella attività, che era diventata sempre più one­rosa. Aveva continuato a occuparsi degli affari della fami­glia di Frye soprattutto in ricordo dei tempi in cui aveva dovuto lottare per mettere in piedi uno studio professio­nale nel bel mezzo della campagna di Napa County, quando era stato aiutato dalla decisione di Katherine Frye di affidare a lui tutti gli affari di famiglia. Il giorno prima, quando era venuto a sapere della morte di Bruno, non aveva provato alcun dolore. Né Katherine, né il figlio adot­tivo avevano mai ispirato il suo affetto e, del resto, nem­meno loro avevano mai incoraggiato il nascere di un rap­porto di amicizia.

  Joshua aveva accompagnato Avril Tannerton all'aero­porto di Santa Rosa solo perché voleva occuparsi di per­sona dell'arrivo della salma, nel caso in cui fosse interve­nuta la stampa a provocare qualche carosello sull'accaduto. Anche se Bruno era stato un tipo instabile, malato e forse persino malvagio, Joshua aveva tutte le intenzioni di orga­nizzare per lui un funerale dignitoso. Sentiva di dovergli al­meno questo. Inoltre Joshua era sempre stato un accanito promotore e sostenitore della Napa Valley, di cui aveva sempre difeso la qualità della vita e la squisitezza del vino. Non voleva che l'intera comunità venisse macchiata dalle gesta criminali di un unico uomo.

  Fortunatamente, all'aeroporto non si presentò neppure un giornalista.

  Ripresero in direzione di St. Helena, fra le ombre del crepuscolo e la luce sempre più fioca. Attraversarono la parte meridionale della Sonoma Valley, sbucarono nella Napa Valley e poi proseguirono verso nord, verso la sera incipiente. Al seguito del carro funebre, Joshua ebbe la possibilità di ammirare la campagna circostante, un pano­rama che da trentacinque anni lo colmava di gioia. Le cre­ste delle montagne erano coperte di pini, abeti e betulle, il­luminati dal sole calante e ormai quasi scomparsi dalla vi­sta. Le pareti rocciose erano bastioni veri e propri, capaci di arginare la corruzione di un mondo esterno meno civile di quello che giaceva all'interno della valle. Ai piedi delle montagne, i terreni collinari erano costellati di querce scure e ricoperti di prati ormai inariditi che, alla luce del giorno, apparivano biondi e soffici come la barba del gran­turco. Ma il tramonto stava risucchiando tutti i colori e l'erba scintillava in ondate oscure, immersa nel declino e presa dal fluire di una dolce brezza. Oltre i confini di paesi pittoreschi, sulle colline e su gran parte della pianura, si stendevano vigneti a perdita d'occhio. Nel 1880, Robert Louis Stevenson aveva scritto di Napa Valley: "Ogni pic­colo fazzoletto di terra viene messo alla prova da svariati generi di vite. Alcuni muoiono, altri si salvano, ma solo po­chi diventano i migliori. E, poco per volta, vanno alla ri­cerca disperata del loro Clos Cougeot e Lafite... e il vino diventa poesia in bottiglia." Ai tempi della luna di miele di Stevenson, quando cioè stava scrivendo Silverado Squatters, nella vallata c'erano solo pochi ettari di vigneti. Con l'av­vento della Grande Peste, il Proibizionismo, nel 1920, gli ettari di terreno coltivati a viti da vino erano già quattro­mila. Ormai, i vigneti coprivano dodicimila ettari di ter­reno ed erano in grado di produrre frutti dolci e molto meno acidi di qualsiasi altra terra al mondo, magari anche più fertile della Sonoma Valley, che era già il doppio di Napa Valley per dimensioni. Tra i numerosissimi vigneti si incastravano le cantine e le case di campagna che un tempo erano state abbazie, monasteri o missioni in stile spagnolo. Grazie a Dio, soltanto un paio di cantine avevano optato per un aspetto industriale e, nell'insieme, spiccavano come un pugno nell'occhio. In genere l'opera dell'uomo non de­turpava l'impressionante bellezza naturale di quel luogo unico e idill
iaco. Sempre al seguito del carro funebre, in direzione della Forever View, Joshua osservò le luci che si accendevano dietro le finestre delle case: luci giallastre che conferivano un'atmosfera calda e familiare alla sera ca­lante. Il vino è poesia in bottiglia, pensò Joshua, e la terra che lo genera è il più grande dei capolavori divini: la mia terra, la mia casa, come sono fortunato a essere in un posto come questo, quando al mondo ne esistono altri molto meno affascinanti e meno piacevoli in cui sarei potuto in­cappare.

  Sarebbe stato come morire. In una bara di alluminio.

  Forever View si trovava a un centinaio di metri di di­stanza dalla superstrada, poco più a sud di St. Helena. Era una costruzione bianca, in stile coloniale, con un vialetto d'ingresso circolare davanti al quale era stato sistemato un discretissimo cartello verde e bianco scritto a mano. Al ca­lare della sera, si accendeva automaticamente una luce bianca che illuminava il cartello, mentre una serie di lam­pioni lanciava sul vialetto una pallida luce ambrata.

  Non c'erano giornalisti in attesa nemmeno a Forever View. Joshua si compiacque nel constatare che la stampa di Napa Valley condivideva la sua stessa avversione nei confronti della pubblicità negativa.

  Tannerton condusse il carro funebre nella parte poste­riore della grande costruzione bianca. Con l'aiuto di Olmstead trasportò la bara all'interno.

  Joshua andò a raggiungerli nel laboratorio.

  Era stato fatto uno sforzo per conferire alla stanza un aspetto leggermente brioso. Il soffitto era stato rivestito con piastrelle fonoassorbenti elegantemente disposte. Le pareti erano verniciate di azzurro, lo stesso azzurro delle lenzuola dei neonati, lo stesso azzurro che contraddistin­gue la nuova vita. Tannerton sfiorò un interruttore sulla parete e nella stanza si cominciò a diffondere una musica dal ritmo ben equilibrato, niente di assordante o troppo melenso.

  Comunque, agli occhi di Joshua, quel posto manteneva il sapore della morte, nonostante Avril Tannerton avesse fatto di tutto per mascherarlo. Nell'aria circolava l'aroma pungente dei liquidi per l'imbalsamazione e il profumo dolciastro dei garofani gli ricordava le corone funebri. Il pavimento era rivestito di piastrelle bianche lucenti, lavate di fresco, leggermente scivolose per chi avesse indossato scarpe con la suola di cuoio, come Joshua. Alla prima oc­chiata, quel pavimento lasciava un'impressione di apertura, di pulizia, ma in seguito Joshua dovette constatare la triste praticità di quel rivestimento. Era necessario che fosse im­permeabile, capace di resistere agli effetti corrosivi di even­tuali gocce di sangue, di bile o di altre sostanze ancor più perniciose.

 

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