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Sussurri

Page 35

by Dean Koontz


  Aveva trascorso l'intera giornata precedente al volante ed era arrivato a Los Angeles di notte. Era andato diretta­mente a casa di Katherine a Westwood.

  Questa volta si faceva chiamare Hilary Thomas, ma lui sapeva che era Katherine.

  Katherine.

  Era tornata nuovamente dall'inferno.

  Quella sporca puttana.

  Si era introdotto in casa sua, ma lei non c'era. Poco prima dell'alba, era finalmente arrivata e lui era quasi riu­scito a metterle le mani addosso. Ancora non capiva perché fosse arrivata la polizia.

  Nel corso delle ultime quattro ore, aveva continuato a passare davanti a quella casa, ma non aveva visto nulla di rilevante. Forse non era più in casa.

  Era confuso. Frastornato. E impaurito. Non sapeva che cosa fare, non sapeva come localizzarla. I suoi pensieri si facevano sempre più strani, frammentari e difficili da con­trollare. Si sentiva stordito, confuso e incoerente sebbene non avesse bevuto nulla.

  Era stanco. Molto stanco. Non dormiva da domenica notte. E anche allora non si era riposato molto. Se solo fosse riuscito a prendere sonno, sarebbe riuscito a vedere le cose in modo più chiaro.

  E avrebbe potuto ricominciare a dare la caccia a quella puttana.

  Tagliarle la testa.

  Strapparle il cuore. Piantarci un picchetto di legno.

  Ucciderla. Ucciderla, una volta per tutte.

  Ma prima, doveva dormire.

  Si allungò sul pavimento del furgoncino e osservò com­piaciuto i raggi del sole che filtravano attraverso il para­brezza, oltre i sedili, fino alla parte posteriore. Aveva il ter­rore di dormire al buio.

  Accanto a lui c'era un crocefisso.

  E un paio di paletti di legno appuntiti.

  Aveva preparato alcuni sacchettini pieni di aglio e li aveva appesi sopra le portiere.

  Quegli oggetti avrebbero potuto proteggerlo da Katherine, ma sapeva che non sarebbero riusciti a scacciare gli in­cubi. Si sarebbero presentati durante il sonno, puntuali come sempre, e lui si sarebbe svegliato con un grido soffo­cato in gola. Come sempre, non si sarebbe ricordato nulla di quei sogni. Ma dopo essersi svegliato, avrebbe udito i sussurri, quei terribili sussurri incomprensibili, e avrebbe avvertito qualcosa che si muoveva sul suo corpo, sulla pan­cia, dentro la bocca e nel naso: qualcosa di orribile; nel paio di minuti necessari a far svanire quelle sensazioni, avrebbe desiderato ardentemente essere morto.

  Aveva il terrore di dormire, ma ne aveva assolutamente bisogno.

  Chiuse gli occhi.

  Come sempre all'ora di pranzo, il frastuono nella sala prin­cipale del Casey's Bar era assordante.

  Fortunatamente, oltre il bancone ovale erano stati rica­vati alcuni séparé, chiusi su tre lati come grandi confessio­nali, dove il rumore proveniente dalla sala da pranzo era più che accettabile e la privacy era assicurata.

  Mentre stava mangiando, Hilary alzò improvvisamente la testa dal piatto ed esclamò: "Ci sono."

  Tony appoggiò il suo panino. "Che cosa?"

  "Frye deve avere un fratello."

  "Un fratello?"

  "Spiegherebbe tutto."

  "Pensi di aver ucciso Frye giovedì scorso e che poi suo fratello sia venuto da te ieri?"

  "Solo due fratelli possono assomigliarsi così."

  "E la voce?"

  "Potrebbero aver ereditato la stessa."

  "Possono aver ereditato una voce rauca e profonda," commentò Tony. "Ma cosa ne dici di quel particolare tono gracchiante? Secondo te è ereditario?"

  "Perché no?"

  "Fino a ieri eri convinta che quella voce potesse apparte­nere solo a una persona ferita gravemente alla gola oppure nata con una malformazione alla laringe."

  "Evidentemente mi sbagliavo," proseguì. "O forse tutt'e due i fratelli sono nati con la stessa malformazione."

  "Un caso su un milione."

  "Ma non è impossibile."

  Tony sorseggiò la birra e riprese: "Forse due fratelli pos­sono avere la stessa corporatura, gli stessi lineamenti, gli occhi dello stesso colore e perfino la stessa voce. Ma credi che possano soffrire anche dello stesso tipo di disturbo psi­cotico?"

  Hilary riflette per un attimo bevendo un sorso di birra. Poi affermò: "Le malattie mentali sono generate da un par­ticolare tipo di ambiente."

  "È quello che si credeva un tempo. Ma ormai non ne siamo più tanto sicuri."

  "Bene, per giustificare la mia teoria, immaginiamo che un atteggiamento psicotico sia generato da un particolare tipo di ambiente. Due fratelli allevati nella stessa casa e da­gli stessi genitori: in questo caso si tratta dello stesso am­biente. Non è possibile che abbiano sviluppato la stessa psi­cosi?"

  Tony si grattò il mento. "Forse. Ricordo..."

  "Che cosa?"

  "All'università ho seguito un corso di psicologia patolo­gica all'interno di un programma di studi sulla criminolo­gia," proseguì Tony. "Cercavano di insegnarci come rico­noscere e come comportarsi con i vari tipi di psicopatici. L'idea non era male. Se un poliziotto riesce a individuare il tipo di disturbo mentale di cui soffre la persona che ha di fronte e se riesce a capire quali possono essere le sue rea­zioni, ha maggiori probabilità di cavarsela. Ci hanno fatto vedere molti film sui malati mentali. Me ne ricordo uno in particolare: madre e figlia soffrivano della stessa forma di schizofrenia paranoica. Avevano lo stesso tipo di allucina­zioni."

  "Lo sapevo!" urlò Hilary.

  "Ma era un caso estremamente raro."

  "Anche questo."

  "Non ne sono sicuro, ma forse era un caso unico nel suo genere."

  "Comunque è possibile."

  "Immagino valga la pena pensarci."

  "Un fratello..."

  Ripresero i panini e si rimisero a mangiare, concentran­dosi sul cibo.

  Improvvisamente, Tony esclamò: "Maledizione! Mi sono ricordato di un particolare che rende assolutamente impos­sibile la teoria dei due fratelli."

  "Che cosa?"

  "Immagino che tu abbia letto i giornali di venerdì e sa­bato."

  "Non proprio," rispose. "È come se... non so... è imba­razzante leggere il tuo nome come quello della vittima. Ho dato un'occhiata a un articolo e poi ho lasciato perdere."

  "E non ti ricordi che cosa c'era scritto?"

  Hilary aggrottò le sopracciglia, cercando di immaginare a che cosa si stesse riferendo. Poi capì. "Oh, già. Frye non aveva un fratello."

  "Né fratelli né sorelle. Nessuno. Alla morte della madre, era rimasto l'unico erede delle cantine, l'ultimo membro della famiglia Frye. L'ultimo della stirpe."

  Hilary non voleva abbandonare la teoria del fratello. Era l'unica spiegazione che avesse un senso in mezzo a quegli avvenimenti alquanto strani. Ma non sapeva che giustifica­zione trovare.

  Finirono di mangiare in silenzio.

  Poi Tony sbottò: "Non potrai nasconderti per sempre. E non possiamo starcene qui seduti ad aspettare che ti trovi."

  "Non mi piace l'idea di fare da esca."

  "Comunque, la risposta non è qui a Los Angeles."

  Hilary annuì. "Stavo pensando la stessa cosa."

  "Dobbiamo andare a St. Helena."

  "E parlare con lo sceriffo Laurenski."

  "Con Laurenski e con tutti quelli che hanno conosciuto Frye."

  "Forse ci vorranno diversi giorni," aggiunse Hilary.

  "Ho molti giorni di ferie a mia disposizione. Addirittura qualche settimana e, per la prima volta in vita mia, non ho molta voglia di tornare al lavoro."

  "Va bene. Quando partiamo?"

  "Prima lo facciamo e meglio è."

  "Non oggi," propose lei. "Siamo troppo stanchi. Ab­biamo bisogno di dormire. Inoltre, voglio portare alcuni dei tuoi quadri da Wyant Stevens. Devo anche chiamare quelli dell'assicurazione per una stima dei danni e chiedere all'impresa di pulizia di riordinare tutto mentre sono via. E se questa settimana non riesco a incontrarmi con la Warner Brothers per discutere L'Ora del Lupo, è meglio che trovi una scusa valida, o che chieda a Wally Topelis di escogi­tarne una per me."

  "Io invece devo preparare il rapporto s
ulla sparatoria," spiegò Tony. "Avrei dovuto farlo questa mattina. E poi, na­turalmente, avranno bisogno di me per l'inchiesta. C'è sempre un'inchiesta quando uccidono un poliziotto o quando siamo noi a uccidere qualcuno. Ma immagino che non faranno niente prima della settimana prossima. E, co­munque, posso sempre chiedere di posticipare."

  "Allora quando partiamo per St. Helena?"

  "Domani. Il funerale di Frank è alle nove. Voglio esserci. Potremmo vedere se c'è un volo verso mezzogiorno."

  "Mi sembra che possa andar bene."

  "Abbiamo un sacco di cose da fare. È meglio muoverci."

  "Solo un attimo. Non credo che questa sera dovremmo rimanere a casa tua."

  Tony allungò il braccio e le afferrò la mano. "Sono si­curo che non riuscirà a farti del male. Nel caso ci provasse, ci sarò io. Non dimenticarti che ho una pistola. Potrà an­che avere il fisico di Mr Universo, ma con una pistola direi che siamo alla pari."

  Hilary scosse la testa. "No, forse non corro alcun peri­colo. Ma non riuscirei a dormire lì, Tony. Rimarrei sveglia tutta la notte, con le orecchie tese, pronte a cogliere il ben­ché minimo rumore."

  "Dove vuoi andare?"

  "Sbrighiamo tutto questo pomeriggio, poi prepariamo i bagagli, ci assicuriamo di non essere seguiti e prendiamo una camera in un albergo vicino all'aeroporto."

  Lui le strinse la mano. "D'accordo. Se ti fa sentire meglio."

  "Grazie."

  "Meglio qualche precauzione in più."

  A St. Helena, alle 16.10 di martedì Joshua Rhinehart riat­taccò la cornetta del telefono del suo ufficio e si appoggiò allo schienale della sedia, compiaciuto di se stesso. Negli ultimi due giorni ne aveva fatto di lavoro. Ruotò sulla sedia e si mise a osservare il panorama di montagne e vigneti.

  Aveva passato praticamente tutta la giornata di lunedì al telefono a discutere con le banche, gli agenti di borsa e i consulenti finanziari di Bruno Frye. Aveva assistito a lun­ghe discussioni su come gestire il patrimonio fino al mo­mento della liquidazione dell'eredità, per non parlare delle non poche considerazioni su come distribuire i vari beni per ottenere il massimo del profitto. Era stato un lavoro a incastro lungo ed estenuante, in considerazione dei nume­rosissimi conti di risparmio, delle varie banche, dei Buoni del Tesoro e del ricchissimo Portfolio composto da azioni, partecipazioni immobiliari e via dicendo.

  Joshua aveva trascorso la mattinata e la maggior parte del pomeriggio di martedì al telefono, nel tentativo di con­vincere alcuni dei critici d'arte più acclamati della California a venire a St. Helena per catalogare e valutare le massicce collezioni che la famiglia Frye era riuscita ad accumu­lare nel corso degli ultimi sessanta, settant'anni. Leo, il pa­triarca e padre di Katherine, ormai morto da quarant'anni, aveva iniziato con semplici rubinetti di legno fatti a mano che in Europa venivano usati per spillare vino e birra dalle botti. Ce n'erano a forma di testa con bocche spalancate, sorridenti, tristi, infuriate o ghignanti di demoni, angeli, pagliacci, lupi, elfi, fate, streghe, gnomi e altre creature. Al momento della sua morte, Leo era riuscito a raccogliere più di duemila rubinetti. Katherine aveva iniziato a condi­videre la passione del padre mentre lui era ancora in vita e, dopo la sua morte, la collezione si era trasformata nel ful­cro vitale della sua esistenza. Gli oggetti di valore in genere erano diventati la sua vera passione e, più tardi, una vera mania. (Joshua ricordava come le luccicavano gli occhi e quanto parlava a perdifiato ogni volta che gli mostrava un nuovo acquisto; era evidente che quella frenesia di riem­pire ogni stanza, ogni armadio e ogni cassetto di gingilli non poteva essere considerata molto normale, ma ai ricchi era permessa ogni eccentricità, a condizione che nessuno ne venisse danneggiato.) Comprava scatolette smaltate, di­pinti paesaggistici di inizio secolo, cristalli Lalique, lam­pade di vetro colorato, antichi medaglioni lavorati in ri­lievo e altri ancora, non tanto per investire il denaro, quanto per un'esigenza personale. Ne aveva bisogno come un drogato ha bisogno della sua dose durante una crisi di astinenza. Aveva riempito la casa di vetrinette e aveva pas­sato ore e ore a pulire, spolverare e riordinare. Anche Bruno aveva continuato la tradizione del collezionismo e ormai entrambe le case (quella costruita da Leo nel 1918 e quella di Bruno) erano piene zeppe di tesori. Per tutta la giornata di martedì Joshua aveva contattato gallerie e aste prestigiose di San Francisco e Los Angeles e tutti si erano mostrati molto disponibili a inviare estimatori, in conside­razione soprattutto delle grasse commissioni che potevano essere ricavate dalla vendita delle collezioni di Frye. Sabato mattina sarebbero arrivati due esperti da San Francisco e due da Los Angeles. Immaginando che la catalogazione di tutti i possedimenti di Frye avrebbe richiesto diversi giorni di lavoro, Joshua decise di prenotare alcune stanze alla pensione del paese.

  Alle 16.10 di martedì, iniziò a credere di avere il con­creto controllo della situazione e, per la prima volta dopo la morte di Bruno, riuscì a fare una previsione sui tempi che gli sarebbero occorsi per portare a termine il suo com­pito di esecutore testamentario. All'inizio aveva temuto di rimanere incastrato nella pratica per anni, viste le dimen­sioni dell'eredità. Ma dopo aver ripreso in esame il testa­mento, da lui stesso stilato cinque anni prima, e dopo aver constatato la bravura con cui i consulenti finanziari ave­vano consigliato Bruno, si convinse di poter portare a ter­mine l'incarico nel giro di qualche settimana. Il lavoro sa­rebbe stato facilitato da tre fattori che raramente si combi­nano nelle questioni ereditarie dei multimiliardari. Per prima cosa, non esistevano parenti in vita che potessero im­pugnare il testamento o creare altri problemi. In secondo luogo, l'importo che fosse rimasto, detratte tutte le tasse, sarebbe stato devoluto a un unico istituto di carità ben spe­cificato nel testamento. Terzo, per essere un uomo tanto opulento, Bruno Frye aveva investito in modo molto sem­plice e il suo esecutore testamentario si era trovato di fronte a un bilancio ragionevolmente chiaro con voci di fa­cile comprensione. Tre settimane dovevano essere suffi­cienti. Al massimo quattro.

  Dopo la morte di sua moglie Cora, avvenuta tre anni prima, Joshua aveva preso coscienza della brevità della vita e cercava di dosare gelosamente il proprio tempo. Non in­tendeva sprecarne un solo giorno e ogni minuto trascorso con la testa immersa nell'eredità di Frye era un minuto sprecato. Naturalmente avrebbe presentato una parcella esorbitante per le sue prestazioni legali, ma ormai aveva già tutti i soldi di cui poteva aver bisogno. Nella valle aveva qualche proprietà immobiliare, senza contare gli ettari di terreno coltivati a vigne che fornivano uva a volontà a due grandi cantine. Per un istante, aveva anche preso in consi­derazione l'idea di chiedere alla corte di sollevarlo dal suo incarico; c'era una delle banche di Frye che si sarebbe oc­cupata volentieri dell'eredità. Aveva anche pensato di pas­sare la pratica a Ken Gavins e Roy Genelli, i due giovani e brillanti avvocati che aveva accolto in società sette anni prima. Ma il forte senso di lealtà di cui era dotato gli aveva impedito di scegliere la soluzione più semplice. Dopotutto era stata Katherine Frye a dargli la prima grande opportu­nità professionale trent'anni prima e sentiva di doverle al­meno il tempo necessario per gestire una sistematica e di­gnitosa dissoluzione dell'impero Frye.

  Tre settimane.

  E poi avrebbe potuto dedicarsi a cose più divertenti: leg­gere, nuotare, volare con il suo ultimo acquisto, imparare a cucinare nuovi piatti e concedersi occasionali fine setti­mana a Reno. Ormai Ken e Roy si occupavano di tutti gli affari della società e se la cavavano piuttosto bene. Joshua non si era ancora completamente tuffato nei piaceri della pensione, ma poco ci mancava. Spesso si godeva il tempo libero che rimpiangeva di non aver avuto quando Cora era ancora in vita.

  Alle 16.20, soddisfatto dall'andamento del lavoro e deli­ziato dallo splendido panorama autunnale che gli offriva la finestra dell'ufficio, si alzò e si diresse verso l'ingresso. Karen Farr stava martellando con forza sulla tastiera dell'ibm Selectric ii, che avrebbe obbedito anche al leggero tocco di una piuma. Karen aveva l'aspetto fragile, era pallida, con gli occhi azzurri e la voce sommessa, ma affrontava ogni la­voro con un incredibile impeto di energia e forza.

 
"Sto per concedermi un bicchierino di whisky pomeri­diano," le comunicò, "se dovesse cercarmi qualcuno, ri­sponda pure che sono ubriaco fradicio e non sono in grado di parlare con nessuno."

  "E il commento di tutti sarà: 'Come? Ancora?'"

  Joshua scoppiò a ridere. "Lei è davvero molto carina, Miss Farr. È uno scricciolo, ma ha un cervello e una lingua deliziosamente veloci."

  "E quante fandonie mi tocca sentire da un uomo che non è nemmeno irlandese. Vada pure a bere il suo whisky. Mi occuperò io delle tediosissime orde."

  Tornato in ufficio, aprì l'anta del mobile bar, infilò nel bicchiere un paio di cubetti di ghiaccio e aggiunse una generosa dose di Jack Daniels Black Label. Aveva appena ini­ziato a sorseggiarlo quando qualcuno bussò alla porta del­l'ufficio.

  "Avanti."

  Karen fece capolino. "Ci sarebbe una telefonata..."

  "Pensavo di aver avuto il permesso di bere in santa pace."

  "Non faccia il brontolone," lo apostrofò lei.

  "Fa parte della mia immagine."

  "Gli ho detto che non era in ufficio, ma quando ho sa­puto il motivo per cui chiamava, ho pensato che forse le fa­rebbe piacere parlare con lui. È strano."

  "Chi è?"

  "Un certo Mr Preston della First Pacific United Bank di San Francisco. Ha a che fare con l'eredità."

  "E che cosa c'è di strano?"

  "Forse è meglio che gli parli lei," rispose.

  Joshua emise un sospiro. "D'accordo."

  "È sulla linea due."

  Joshua si diresse alla scrivania, si sedette, alzò il ricevi­tore ed esclamò: "Buongiorno, Mr Preston."

  "Mr Rhinehart?"

  "In persona. Che cosa posso fare per lei?"

  "È stato l'ufficio amministrativo della Shade Tree Vineyards a informarmi che era lei l'esecutore testamentario dell'eredità Frye."

  "È vero."

 

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