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Sussurri

Page 36

by Dean Koontz


  "Lei sapeva che il signor Bruno Frye aveva aperto alcuni conti qui alla sede di San Francisco?"

  "Alla First Pacific United? No, non ne sapevo assoluta­mente nulla."

  "Un libretto di risparmio, un conto corrente, e aveva an­che noleggiato una cassetta di sicurezza," lo informò Pre­ston.

  "Aveva molti conti in banche diverse ed erano tutti spe­cificati su una lista. Però in questo elenco non figurava la vostra banca. Non ho mai visto assegni né libretti di rispar­mio della First Pacific United."

  "Era proprio quello che temevo," commentò Preston.

  Joshua aggrottò la fronte. "Non capisco. C'è qualche problema con questi conti presso la vostra banca?"

  Dopo un attimo di esitazione, Preston riprése a parlare. "Mr Rhinehart, Mr Frye aveva un fratello?"

  "No. Perché me lo chiede?"

  "Non si è mai servito di un sosia?"

  "Come dice?"

  "Non ha mai avuto bisogno di un sosia, di qualcuno che potesse essere scambiato per lui anche a distanza ravvici­nata?"

  "Mi sta prendendo in giro, Mr Preston?"

  "Mi rendo conto della stranezza della domanda, ma Mr Frye era un uomo ricco. Di questi giorni, con tutti i terrori­sti e i pazzi che ci sono in giro, i ricchi ricorrono spesso alle guardie del corpo e a volte, non spesso, devo ammettere che è raro, ma saltuariamente succede che decidano di as­sumere dei sosia per motivi di sicurezza."

  "Con tutto il rispetto nei confronti della vostra bella città," rispose Joshua, "mi permetto di farle presente che Mr Frye abitava qui, a Napa Valley, e non a San Francisco. Qui non esiste criminalità. Il nostro stile di vita è molto di­verso da quello a cui... si riferisce lei. Mr Frye non aveva al­cun bisogno di un sosia e sono certo che non ce ne sono mai stati. Mr Preston, che cosa diavolo sta succedendo?"

  "Abbiamo scoperto solo ora che Mr Frye è stato ucciso giovedì scorso," rispose Preston.

  "E allora?"

  "E opinione dei nostri avvocati che la banca non può es­sere ritenuta responsabile."

  "Per che cosa?" domandò Joshua al limite dell'impa­zienza.

  "In qualità di esecutore testamentario, era suo preciso dovere informarci che il nostro correntista era deceduto. Fino a che non abbiamo appreso la notizia, in questo caso addirittura da una terza persona, non avevamo alcun mo­tivo di congelare il conto."

  "Capisco." Sprofondato nella sua sedia, gli occhi fissi sul bicchiere di whisky appoggiato sulla scrivania e con il terri­bile sospetto che Preston stesse per fargli una rivelazione che avrebbe disturbato il suo stato di serenità, Joshua de­cise che un tocco di scontrosità potesse accelerare la con­versazione. "Mr Preston, mi rendo conto che in una banca il lavoro debba procedere con lentezza e meticolosità, es­sendo un istituto che tratta il denaro duramente guada­gnato dai propri clienti. Ma vorrei tanto che riuscisse a esprimersi e ad arrivare velocemente al punto."

  "Giovedì scorso, mezz'ora prima dell'orario di chiusura, qualche ora dopo l'omicidio di Mr Frye, avvenuto a Los Angeles, in banca è entrato un signore che assomigliava moltissimo a Mr Frye. Aveva anche gli assegni personaliz­zati di Mr Frye. Si è diretto alla cassa e ha staccato un asse­gno per un importo tale da ridurre il conto a un centinaio di dollari."

  Joshua si rizzò sulla sedia. "Quanto ha prelevato?"

  "Seimila dollari."

  "Caspita."

  "Poi ha presentato il suo libretto di risparmio e ha prele­vato tutto il deposito, lasciando solo un resto di cinque­cento dollari."

  "E quanto ha preso?"

  "Dodicimila dollari."

  "Diciottomila dollari in tutto?"

  "Esatto. Senza contare il contenuto della cassetta di sicu­rezza."

  "Anche quello?"

  "Certo. Ma naturalmente in questo caso non possiamo sapere che cos'ha portato via," spiegò Preston. Poi ag­giunse speranzoso: "Forse niente."

  Joshua era sbalordito. "Come può una banca farsi scap­pare una somma del genere in contanti senza chiedere un'i­dentificazione?"

  "Infatti l'abbiamo richiesta," precisò Preston. "Ma deve capire che quell'uomo assomigliava a Mr Frye. Negli ultimi cinque anni, Mr Frye si faceva vedere nella nostra banca due o tre volte al mese; ogni volta depositava sul conto un paio di migliaia di dollari. Questo l'ha reso popolare: se lo ricordavano tutti. Giovedì scorso la cassiera l'ha ricono­sciuto e non aveva motivo per nutrire sospetti, soprattutto in considerazione del fatto che presentava gli assegni per­sonalizzati e il suo libretto di risparmio..."

  "Questa non è un'identificazione," ribattè Joshua.

  "La cassiera ha chiesto la carta d'identità, anche se l'a­veva riconosciuto. Ma questa è la prassi che seguiamo sem­pre quando vengono richiesti prelievi importanti. E la donna si è attenuta alle nostre regole. L'uomo le ha mo­strato una patente rilasciata dallo stato della California, completa di fotografia, intestata a Bruno Frye. Le assicuro, Mr Rhinehart, in questo caso non si può dire che la First Pacific United Bank abbia agito in modo irresponsabile."

  "Intende fare accertamenti sulla cassiera?" domandò Jo­shua.

  "Gli accertamenti sono già in corso."

  "Mi fa piacere sentirglielo dire."

  "Ma non credo che otterremo molto," aggiunse Preston. "Quella donna è una delle nostre migliori impiegate. La­vora per noi da più di sedici anni."

  "Ed è stata lei ad accompagnarlo a prelevare la cassetta di sicurezza?"

  "No. E stata un'altra impiegata. Stiamo indagando anche sul suo conto."

  "È davvero molto grave."

  "Non c'è bisogno che me lo dica. In tutti questi anni, non mi è mai capitata una cosa del genere. Prima di telefo­nare a lei, ho informato le autorità, i funzionari di banca statali e federali e gli avvocati della First Pacific United Bank."

  "Forse è il caso che domani venga da voi per fare quat­tro chiacchiere."

  "Mi farebbe un favore."

  "Le va bene alle dieci?"

  "Quando è più comodo per lei," rispose Preston. "Le metterò a disposizione tutta la giornata."

  "Allora vada per le dieci."

  "Sono molto spiacente per quanto è accaduto. Natural­mente la perdita verrà coperta dall'assicurazione federale."

  "Con l'unica eccezione del contenuto della cassetta di si­curezza," sottolineò Joshua. "Non c'è alcuna assicurazione che possa risarcire quella perdita." Ed era proprio questo il dettaglio che innervosiva Mr Preston. "Quella cassetta po­teva contenere anche il doppio del valore del conto corrente e del libretto di risparmio messi insieme."

  "Così come poteva essere anche vuota," gli fece notare subito Preston.

  "Ci vediamo domani mattina, Mr Preston."

  Joshua riappese e rimase a fissare il telefono.

  Infine, riprese a sorseggiare il suo whisky.

  Un sosia di Bruno Frye?

  Tutt'a un tratto gli tornò in mente la luce che pensava di aver visto in casa di Bruno alle tre di lunedì mattina. Gli era parso di scorgerla tornando a letto, dopo essere stato in bagno. Ma quando aveva inforcato gli occhiali non aveva notato niente. Si era limitato a pensare che fosse stato tutto frutto dell'immaginazione. Ma forse quella luce c'era stata davvero. Forse l'uomo che aveva prosciugato i conti della Pacific United era andato a casa di Bruno per cercare qual­cosa.

  Joshua aveva fatto un sopralluogo il giorno prima. Si era limitato a un rapido giro per controllare che fosse tutto a posto e non aveva notato niente di strano.

  Perché Bruno aveva aperto quei conti a San Francisco senza dirlo a nessuno?

  Esisteva veramente un sosia?

  Chi? E perché?

  Maledizione!

  Evidentemente la definizione dell'eredità Frye non sa­rebbe stata un compito così facile come previsto.

  Alle diciotto di martedì, mentre Tony svoltava nella strada che passava davanti a casa sua, Hilary si sentiva più desta che mai. Era entrata nella fase di veglia con gli occhi sgranati, tipica di chi non dorme per un giorno e mezzo. Tutt'a un tratto la mente e il corpo decisero che era il caso di trarre il massimo da quello stato di coscienza
forzato e, per chissà quale scherzo chimico, la carne e lo spirito si senti­rono rinnovati. Smise di sbadigliare. La vista tornò a essere chiara. La stanchezza cominciò a recedere. Ma si rendeva conto che si trattava solo di un canto del cigno. Dopo un paio di ore, quello stato di ebbrezza si sarebbe inevitabil­mente infranto di colpo, più o meno come quando comin­cia la discesa dai picchi anfetaminici. E a quel punto avrebbe fatto fatica persino a reggersi sulle gambe.

  Aveva sistemato tutte le questioni in sospeso insieme con Tony: il liquidatore dell'assicurazione, il servizio di pu­lizia dell'appartamento, i rapporti di polizia e tutto il resto. L'unica cosa che non era andata liscia era stata la sosta alla Wyant Stevens Gallery di Beverly Hills. Sia Wyant sia la sua assistente, Betty, erano assenti e la ragazza cicciottella che le aveva dato retta non si era dimostrata entusiasta al­l'idea di accettare i quadri di Tony. Non voleva addossarsi quella responsabilità, ma alla fine Hilary era riuscita a con­vincerla che nessuno l'avrebbe citata per danni se qualcuna delle tele fosse stata incidentalmente rovinata. Poi aveva scritto un messaggio per Wyant per spiegargli i precedenti del pittore. Infine era andata con Tony agli uffici della Topelis & Associates per chiedere a Wally di porgere le sue scuse alla Warner Brothers. Era stato fatto tutto. L'indo­mani, dopo il funerale di Frank Howard, avrebbero preso il volo delle 11.55 della PSA per San Francisco, dove li aspettava una navetta aerea per Napa.

  Poi, partenza per St. Helena con un'auto a noleggio.

  Poi sarebbero arrivati alla casa di Bruno Frye.

  E poi... che altro?

  Tony parcheggiò la jeep e spense il motore.

  Hilary disse: "Mi sono dimenticata di chiederti se sei riu­scito a prenotare un albergo."

  "La segretaria di Wally si è occupata delle prenotazioni mentre tu e lui vi stavate abbracciando in ufficio."

  "All'aeroporto?"

  "Sì."

  "Non letti separati, spero."

  "Una matrimoniale imperiale."

  "Bene," commentò. "Voglio sentirti vicino, quando co­mincerò a scivolare nel sonno profondo."

  Tony si sporse di lato e la baciò.

  Ci vollero una ventina di minuti per preparare le valigie e caricarle sulla jeep. Nel frattempo Hilary temette di ve­der saltar fuori Frye da qualche angolo, con il ghigno stam­pato in volto.

  Ma non accadde nulla.

  Si diressero all'aeroporto optando per una circonvalla­zione piena di curve e controcurve.

  Hilary non smise di guardarsi alle spalle.

  Ma nessuno li seguiva.

  Raggiunsero l'albergo alle 19.30. Con un tocco di caval­leria vecchia maniera che divertì Hilary, Tony si presentò come suo marito.

  La stanza si trovava all'ottavo piano. Era tranquilla, con strani giochi di ombre verdi e blu.

  Dopo che il fattorino se ne fu andato, rimasero immobili di fianco al letto, stringendosi in silenzio per condividere la stanchezza e le poche forze rimaste.

  Nessuno dei due se la sentiva di uscire a cena. Tony chiamò il servizio in camera e l'operatore rispose che avrebbero dovuto attendere mezz'ora.

  Fecero la doccia insieme. Si insaponarono e si risciacqua­rono a vicenda con gioia, ma senza alcuna implicazione ses­suale. Erano troppo stanchi per la passione. Il bagno in compagnia fu solo rilassante, tenero e dolce.

  Mangiarono tramezzini e patatine fritte.

  Sorseggiarono una mezza bottiglia di Gamay rosé di Robert Mondavi.

  Chiacchierarono.

  Sistemarono un asciugamano sulla lampada che rimase accesa per tutta la notte, perché, per la seconda volta in vita sua, Hilary aveva paura di dormire al buio.

  Poi si addormentarono.

  Otto ore dopo, alle 5.30 del mattino, Hilary si svegliò di colpo da un brutto sogno in cui Earl ed Emma erano tor­nati in vita, esattamente come Bruno Frye. Tutt'e tre la rin­correvano per un corridoio buio che diventava sempre più stretto...

  Non riuscì a riprendere sonno. Rimase sdraiata nella lu­ce ambrata della lampada a guardare Tony che dormiva.

  Alle 6.30 si svegliò anche lui, si voltò verso di lei, battè le palpebre e le toccò il viso e il seno. Si ritrovarono a fare l'amore. Per un breve istante Hilary riuscì a non pensare a Bruno Frye, ma più tardi, mentre si preparavano per il fu­nerale di Frank, la paura l'aggredì di colpo.

  "Davvero credi che sia il caso di andare a St. Helena?"

  "Dobbiamo," rispose Tony.

  "Ma che cosa ci può succedere in quel posto?"

  "Niente," la rassicurò lui. "Andrà tutto bene."

  "Non ne sono tanto sicura," mormorò lei.

  "Scopriremo quello che sta accadendo."

  "È proprio questo che mi preoccupa. Ho la sensazione che sarebbe meglio non sapere niente."

  Katherine se n'era andata.

  La puttana se n'era andata.

  La puttana si stava nascondendo.

  Bruno si era svegliato nel furgoncino blu verso le 18.30 di martedì, uscendo così da un incubo che non riusciva bene a ricordare, pieno di sussurri silenziosi e minacciosi. Qualcosa gli stava strisciando addosso: sulle braccia, sulla faccia, sui capelli, persino sotto i vestiti. Qualcosa che cercava di entrare dentro di lui attraverso le orecchie, la bocca, le narici. Qualcosa di incredibilmente sporco e mali­gno. Aveva lanciato un urlo e si era graffiato dappertutto finché non era riuscito a ricordare dove si trovava; poi, len­tamente, quei terribili sospiri si erano dissolti e la cosa stri­sciante era sparita. Era rimasto rannicchiato su un fianco, in posizione fetale, per qualche minuto e poi si era messo a piangere per il sollievo.

  Un'ora più tardi, dopo aver mangiato in un MacDonald, era partito alla volta di Westwood. Era passato davanti alla casa di Katherine per una decina di volte, poi aveva par­cheggiata poco distante, nel punto più buio, fra due lam­pioni stradali. Era rimasto a osservare la sua casa per tutta la notte.

  Ma lei era sparita.

  Aveva portato i sacchettini pieni di aglio, i picchetti di legno, i crocefissi e le fialette di acqua santa. Aveva due coltelli molto affilati e un'accetta da falegname con cui avrebbe potuto staccarle la testa. Aveva il coraggio, la vo­lontà e la decisione per farlo.

  Ma lei era sparita.

  Quando si era reso conto che avrebbe potuto stare via anche per giorni o settimane, si era infuriato. L'aveva male­detta e aveva pianto per il senso di frustrazione.

  Poi, gradualmente, era riuscito a riprendere il controllo. Niente era perduto. L'avrebbe ritrovata.

  L'aveva già ritrovata molte volte.

  6

  Mercoledì mattina, Joshua Rhinehart compì il breve volo verso San Francisco con il suo Cessna Turbo Skylane RG. Era uno splendido velivolo con una velocità di crociera di centosettantatré nodi e un'autonomia di oltre mille miglia.

  Aveva iniziato a prendere lezioni di volo tre anni prima, poco dopo la morte di Cora. Aveva sempre sognato di di­ventare un pilota, ma solo all'età di cinquantotto anni era riuscito a trovare il tempo per imparare a volare. Quando Cora gli era stata strappata in modo così inaspettato, si era reso conto di essere un pazzo, convinto com'era che la morte non potesse sfiorarlo, che fosse una disgrazia che colpiva solo gli altri. Aveva sempre vissuto come se avesse posseduto una riserva inesauribile di vita. Pensava che in futuro avrebbe avuto tempo per rilassarsi, divertirsi e com­piere i meravigliosi viaggi in Europa e in Oriente che aveva sempre sognato. Per questo motivo, aveva sempre riman­dato vacanze e crociere. Prima c'era la carriera, poi i debiti fatti per pagare la vasta tenuta, poi l'impegno dell'azienda vinicola e infine... Poi Cora se n'era andata prima del tempo. Gli mancava terribilmente ed era pieno di rimorsi per tutte le cose che avevano rimandato e che non avreb­bero mai più potuto fare insieme. Lui e Cora erano stati fe­lici e avevano avuto una vita meravigliosa, eccellente sotto molti punti di vista. Non era mai mancato nulla: né il cibo, né una casa, né una giusta dose di lusso. Avevano sempre avuto abbastanza denaro. Ma mai abbastanza tempo. Non poteva fare a meno di pensare a come avrebbe potuto es­sere la loro esistenza. Non poteva riportare in vita Cora, ma almeno era deciso ad approfitt
are di tutto ciò che po­teva renderlo felice negli anni che gli rimanevano. I suoi passatempi erano perlopiù solitari, in quanto non era mai stato un tipo di compagnia e considerava nove persone su dieci ignoranti o cattive. Nonostante amasse la solitudine, sapeva comunque benissimo che tutto sarebbe stato decisa­mente più bello se avesse avuto Cora al suo fianco. Volare rappresentava una delle poche eccezioni. Nel suo Cessna, alto nel cielo, si sentiva libero da qualsiasi costrizione: non solo libero dalla forza di gravita, ma anche dalle catene del rimpianto e del rimorso.

  Tranquillo e rilassato dal volo appena compiuto, Joshua atterrò a San Francisco poco dopo le nove. Meno di un'ora più tardi, era alla First Pacific United Bank per incontrarsi con il signor Ronald Preston, l'uomo con cui aveva parlato per telefono martedì pomeriggio.

  Preston era il vicepresidente della banca e aveva un uffi­cio lussuoso le cui pareti erano tappezzate con pannelli di pelle e teak lucido. Era un locale ampio, spazioso e decisa­mente ricco.

  Preston era alto e magro, di aspetto fragile e delicato, con la pelle abbronzata e un bel paio di baffi. Parlava molto velocemente gesticolando in continuazione, come una macchina in corto circuito che emana scintille. Era de­cisamente nervoso.

  Ma era anche efficiente. Aveva preparato un rapporto dettagliato sulla situazione di Bruno Frye, con resoconti completi dei cinque anni durante i quali Frye era stato cor­rentista della First Pacific United. L'incartamento conte­neva una lista con i versamenti e i prelievi, una seconda li­sta che riportava i giorni in cui Frye aveva aperto la sua cassetta di sicurezza, le fotocopie degli estratti conto men­sili e gli assegni relativi a tale conto.

  "A prima vista," spiegò Preston, "può sembrare che non le abbia fornito tutte le copie degli assegni staccati da Mr Frye. Ma le assicuro che sono tutti qua. È solo che non ce ne sono molti. Sul conto sono stati versati e prele­vati molti soldi, ma, per i primi tre anni e mezzo, Mr Frye si è limitato a due assegni al mese. Nell'ultimo anno e mezzo gli assegni erano tre ogni mese e sempre intestati alle stesse persone."

  Joshua non aprì nemmeno la cartelletta. "Controllerò tutto più tardi. Ora vorrei rivolgere alcune domande alla cassiera responsabile dei movimenti sui vari conti correnti."

 

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