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Nessun Dove

Page 5

by Neil Gaiman


  Fece scorrere la mano lungo l'oggetto e a un'estremità esplose una fiammata rossastra.

  «Posso fare una domanda?» chiese Richard.

  «Certo che no» disse il Marchese. «Tu non fai domande. Tu non ricevi risposte. Tu non ti allontani dal sentiero. Tu non pensi neppure a quello che ti sta capitando in questo momento. Capito?»

  «Ma...»

  «E, più importante di tutto: niente ma. Ora, c'è una donzella da salvare» disse de Carabas. «E il tempo è essenziale. Muoviti!»

  Richard si mosse, cominciando a scendere la scaletta di metallo posta nel muro al di sotto del tombino, sentendosi in acque cosi eccessivamente profonde per le sue possibilità da avere bisogno di un batiscafo per poter rivedere la superficie.

  Richard si chiedeva dove fossero. Non sembrava una fogna. Forse era un tunnel per i cavi telefonici, o per treni di piccole di­mensioni. O per... qualcosa. Si rese conto di non sapere molto riguardo a ciò che accadeva sotto i suoi piedi.

  Procedeva nervosamente, preoccupato di infilare il piede da qualche parte, di incespicare nel buio rompendosi una caviglia. De Carabas camminava davanti a lui a grandi passi, con noncuranza, apparentemente non interessato che Richard lo seguisse oppure no.

  La fiamma rossa creava ombre immense sui muri del tunnel.

  Richard si mise a correre per non rimanere troppo indietro.

  «Vediamo...» disse de Carabas. «È necessario che io l'accom­pagni al mercato. Il prossimo si terrà, hmm, tra due giorni, se ben mi ricordo, come peraltro faccio sempre. Fino a quel momento, la posso nascondere.»

  «Mercato?» chiese Richard.

  «Il Mercato Fluttuante. Ma non c'è bisogno che tu ne sia al corrente. Basta con le domande.»

  Richard si guardò attorno. «Be', stavo per chiederle dove fossi­mo. E immagino che si rifiuterà di dirmelo.»

  Il Marchese sogghignò di nuovo. «Molto bene!» disse. «Sei già abbastanza nei guai.»

  «Può proprio dirlo» sospirò Richard. «La mia fidanzata mi ha piantato, e con ogni probabilità dovrò comprare un telefono nuovo...»

  «Per Temple e Arch! Un telefono è davvero l'ultimo dei tuoi problemi!»

  De Carabas appoggiò la torcia a terra, dove continuò a sfrigola­re e fiammeggiare, e prese ad arrampicarsi su dei pioli di metallo infissi nel muro.

  Richard esitò, poi lo segui.

  I pioli erano freddi e arrugginiti. Mentre saliva gli si sgretola­vano sotto le mani in grossi pezzi, e frammenti ragginosi gli entra­vano negli occhi e in bocca.

  La luce scarlatta sotto di lui tremolava, poi si spense. Stavano salendo nella più assoluta oscurità.

  «Allora, torniamo da Porta?»

  «Alla fine. Prima devo organizzare qualche cosetta. Un'assicu­razione. E quando entriamo nella luce del giorno, non guardare in basso.»

  «Perché no?» chiese Richard.

  In quel momento la luce del giorno gli colpi il viso; e lui guar­dò giù.

  Era giorno (Come era possibile che fosse giorno? chiese una vocino da un angolo remoto del suo cervello. Era quasi notte nel momento in cui era entrato nel vicolo, quando, un 'ora prima?), e si teneva stretto a una scaletta di metallo che si inerpicava sul lato esterno di un edificio molto alto (ma qualche secondo prima stava salendo la stessa scala che, però, si trovava all'interno, non è vero?), e sotto di lui poté vedere...

  Londra.

  Automobili minuscole. Autobus e taxi minuscoli. Minuscoli edifici. Alberi. Camion in miniatura. Persone piccole, piccole, pic­cole. Per un istante erano a fuoco, poi scivolavano via sfocate, molto sotto di lui.

  Dire che Richard non fosse particolarmente portato per l'altez­za sarebbe senz'altro corretto, ma non darebbe il quadro completo della situazione. Sarebbe come affermare che il pianeta Giove è più grande di una papera. Indubbiamente vero, ma un pochino limita­tivo.

  Odiava la cima di rupi e scogliere, e i palazzi alti: da qualche parte dentro di lui era insita la paura che un giorno si sarebbe ri­trovato a camminare sul crinale di una scogliera e avrebbe sempli­cemente fatto un passo nel nulla.

  Richard si bloccò. Le mani si avvinghiarono ai pioli. Gli face­vano male gli occhi, in fondo, dietro al globo oculare. Cominciò a respirare troppo in fretta, troppo a fondo.

  «Qualcuno» disse una voce divertita sopra di lui «non stava ascoltando, vero?»

  «Io...» La gola di Richard era fuori uso. Deglutì, ammorbidendola. «Non riesco a muovermi.» Gli sudavano le mani. E se aves­sero sudato tanto da farlo semplicemente scivolare nel vuoto...

  «Certo che riesci a muoverti. Altrimenti, puoi rimanere li ap­pollaiato contro il muro finché ti si gelano le mani, ti cedono le gambe e precipiti, per andare a morire spiaccicato qualche centi­naio di metri più sotto.»

  Richard alzò lo sguardo verso il Marchese, che guardava in giù verso Richard e continuava a sorridere. Quando si accorse di esse­re osservato lasciò la presa di entrambe le mani e agitò le dita nel­la sua direzione.

  Di riflesso, Richard fu preda di un'attacco di vertigini soltanto a vederlo.

  «Bastardo» disse sottovoce, ma staccò la mano destra dal piolo e la sollevò di una trentina di centimetri andando a trovare il piolo successivo. Quindi, spostò di un gradino anche la gamba destra.

  Poi ripeté l'operazione con la mano sinistra.

  Dopo un po' si trovò sul limitare di un tetto piatto: ci sali e si accasciò.

  Era consapevole del fatto che il Marchese si stava allontanando a grandi passi lungo il tetto. Richard si nascose il viso tra le mani e avverti la struttura solida sotto di lui. Il cuore gli batteva forte nel petto.

  Una voce roca disse: «La tua presenza non è gradita, de Carabas. Vattene via. Fuori dai piedi!»

  «Old Bailey» senti che diceva de Carabas. «Hai un aspetto me­raviglioso. Sei in piena salute.»

  Poi dei passi strascicati verso di lui, e un dito che lo pungolava con delicatezza tra le costole. «Stai bene, ragazzo? Sto cuocendo dello stufato qui dietro. Ne vuoi un po'? È corvo.»

  Richard apri gli occhi. «No, grazie» rispose.

  Per prima cosa vide le piume. Non sapeva se si trattasse di un soprabito, di una cappa o di chissà che, ma qualunque cosa fosse quel capo di abbigliamento, era ricoperto di penne. Da tutto quel piumaggio spuntava una faccia, gentile e rugosa. Dove non era coperto di piume, il corpo appariva avvolto a destra e a sinistra da funi. Richard si scopri a ricordare una rappresentazione di Robin­son Crusoe a cui aveva assistito da bambino: questo era Robinson Crusoe, se avesse fatto naufragio in cima a un tetto invece che su un'isola deserta.

  «Mi chiamano Old Bailey, ragazzo» disse l'uomo Robinson Crusoe. Armeggiò alla ricerca di un paio di occhiali, che teneva appesi al collo con uno spago, li inforcò, e attraverso di essi scrutò Richard. «Non ti riconosco. A quale baronia serbi fedeltà? Qual'è il tuo nome?»

  Richard si mise seduto. Sul lato opposto del tetto c'era qualcosa che pareva una tenda. Una vecchia tenda marrone, molto ram­mendata e punteggiata di bianco dagli escrementi degli uccelli.

  «Taci!» disse il Marchese de Carabas. «Non dire un'altra paro­la.» Quindi si rivolse a Old Bailey. «Chi mette il naso dove non do­vrebbe a volte...» fece schioccare rumorosamente le dita sotto il naso del vecchio, che sobbalzò «... lo perde. Ora, tu mi devi un favore da vent'anni, Old Bailey. Un grosso favore. È tempo che lo riscuota.»

  Il vecchio lo guardò di sottecchi. «Sono stato un pazzo» disse piano.

  «Non c'è pazzo più pazzo di un vecchio pazzo» confermò il Marchese. Si infilò la mano in una delle tasche interne del trench e ne trasse una scatolina d'argento, più grande di una tabacchiera, più piccola di una scatola per sigari e più riccamente decorata di entrambe. «Sai di cosa si tratta?»

  «Vorrei non saperlo.»

  «La terrai al sicuro per me.»

  «Non voglio.»

  «Non hai scelta» disse il Marchese de Carabas. Quindi diede un colpetto a Richard con la punta quadrata di uno stivale. «Bene» disse. «È meglio che ci diamo una mossa, ti pare?»

  Attraversò il
tetto a grandi passi, con Richard che lo seguiva tenendosi ben lontano dalla facciata del palazzo. Il Marchese apri una porta e cominciarono a scendere per una scala a chiocciola male illuminata.

  «Chi era quell'uomo?»

  I passi risuonavano sulle scale nella luce fioca.

  «Non hai ascoltato una parola di quello che ho detto, vero? Sei già nei guai. Ogni cosa che fai, ogni cosa che dici, ogni cosa che senti, non fa che peggiorare la situazione. Faresti meglio a pregare di non esserti spinto troppo oltre.»

  Richard piegò la testa da un lato. «Mi scusi» disse. «So che questa è una domanda indiscreta, ma lei, per caso, è clinicamente pazzo?»

  «Possibile, ma assai improbabile. Perché?»

  «Be',» ribatté Richard «uno di noi deve esserlo per forza.»

  Si trovavano ora nel buio più assoluto, e Richard inciampò leggermente mentre raggiungeva l'ultimo scalino, alla ricerca di un ulteriore inesistente gradino.

  «Attento alla testa» disse il Marchese, e apri una porta mentre Richard batteva la fronte contro qualcosa e usciva, riparandosi gli occhi dalla luce.

  Richard si strofinò la fronte. Poi si strofinò gli occhi. La porta che avevano appena attraversato era quella dello stanzino delle scope sulle scale del palazzo in cui abitava.

  Il Marchese stava esaminando il volantino dell'AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA? attaccato accanto alla porta di Richard.

  «Non il suo lato migliore» commentò.

  Quindi Richard apri la porta d'ingresso, ed eccolo a casa. Era, gli fece piacere notare attraverso le finestre, un'altra volta notte.

  «Richard!» esclamò Porta. «Ce l'hai fatta!»

  Mentre lui era fuori, si era lavata, e l'aspetto degli strati di abiti dava l'idea che si fosse sforzata di eliminare sporco e sangue an­che da li. Su viso e mani non c'era più traccia di sudiciume. Ri­chard si chiese quanti anni avesse: quindici? sedici? di più? Non era comunque in grado di dirlo.

  Aveva indossato la giacca di pelle che portava quando l'aveva trovata: un'enorme cosa marrone che somigliava a un vecchio giac­cone da aviatore e che in qualche modo la faceva sembrare più pic­cola di quanto fosse in realtà, e anche più vulnerabile.

  «Be', si» disse Richard.

  Il Marchese de Carabas appoggiò un ginocchio a terra davanti alla ragazza, chinò il capo e disse, «Mia signora.»

  Lei pareva a disagio.

  «Oh, alzati, de Carabas. Sono lieta che tu sia venuto.»

  Si rialzò con un unico, armonioso movimento. «Mi è dato di capire» disse «che sono state pronunciate le parole favore, molto e grande. Congiuntamente.»

  «Più tardi.» Andò da Richard e gli prese le mani. «Richard. Grazie. Ti sono davvero molto grata per tutto quello che hai fatto. Ti ho cambiato le lenzuola nel letto. E vorrei tanto ci fosse un modo per poterti ripagare.»

  «Te ne vai?»

  Annui. «Sono al sicuro adesso. Più o meno. Spero. Per un po'.»

  «E dove vai?»

  Gli sorrise dolcemente e scosse il capo. «Ah-ah. Sono uscita dalla tua vita. E tu sei stato meraviglioso.»

  Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò sulla guancia.

  «Se mai avessi bisogno di mettermi in contatto con te...?»

  «Non ne avrai. Mai. E...» poi fece una pausa. «Senti, mi dispia­ce, d'accordo?»

  Richard si controllò i piedi, con aria imbarazzata. «Non c'è nulla di cui dispiacersi» disse, e aggiunse incerto: «È stato diver­tente.»

  Quindi alzò gli occhi.

  Ma non c'era più nessuno.

  TRE

  Domenica mattina Richard prese dal cassetto in fondo all'ar­madio il telefono a forma di Bat-mobile che gli aveva regalato zia Maude un Natale di qualche anno prima, e lo inserì nella presa.

  Provò a telefonare a Jessica, ma senza successo. La sua segre­teria telefonica era spenta, e cosi anche il telefonino. Probabilmen­te era andata in campagna a casa dei suoi genitori.

  I genitori di Richard erano morti entrambi. Suo padre era dece­duto all'improvviso quando Richard era ancora un ragazzo, per un infarto. E da quel momento sua madre aveva iniziato a morire pia­no piano, cosicché quando Richard se ne era andato da casa si era semplicemente spenta: sei mesi dopo essersi trasferito a Londra aveva ripreso il vagone letto per la Scozia e aveva trascorso gli ultimi due giorni in ospedale, seduto accanto al suo capezzale. A volte lo riconosceva, altre volte lo chiamava con il nome di suo padre.

  Richard si sedette sul divano a rimuginare. I fatti dei due giorni precedenti diventavano sempre meno reali, sempre meno verosi­mili. A essere reale restava il messaggio lasciato da Jessica nella sua segreteria. Lo ascoltò e lo riascoltò, quella domenica, speran­do ogni volta che si addolcisse, che nella sua voce apparisse un po' di calore. Non accadde.

  Pensò di uscire a comprare il giornale, poi decise di non farlo. Arnold Stockton, il capo di Jessica, una caricatura di uomo dai molti menti che si era fatto da sé, era il propietario dei giornali della domenica che non appartenevano a Rupert Murdoch. I suoi giornali parlavano di lui. E anche gli altri.

  Invece, si fece un bel bagno caldo, ingurgitò parecchi panini e numerose tazze di tè. Per un po' guardò la televisione e si costruì delle conversazioni immaginarie con Jessica.

  Alla fine di ogni dialogo mentale facevano l'amore in modo selvaggio, rabbioso, appassionato e solcato di lacrime; dopo di che tutto era di nuovo a posto.

  Lunedì mattina la sveglia di Richard non suonò. Si precipitò in strada alle nove meno dieci, la valigetta che ondeggiava furiosa­mente, e si mise a guardare di qua e di là come un folle, alla ricer­ca di un taxi.

  Poi sospirò di sollievo, perché una grossa auto nera era entrata nella sua via e si dirigeva proprio verso di lui, con la scritta gialla TAXI in brillante evidenza. Agitò la mano.

  «Taxi!»

  Il taxi lo superò lentamente, ignorandolo, svoltò l'angolo e sparì.

  Un altro taxi. Un'altra luce gialla a indicare che era libero. Que­sta volta Richard si mise a fare segnali in mezzo alla carreggiata.

  Sterzò per superarlo e continuò per la sua strada.

  Richard cominciò a imprecare sottovoce.

  A quel punto si diresse di corsa verso la stazione della metro­politana più vicina.

  Si tolse di tasca una manciata di monete, colpi con rabbia il pulsante della macchinetta dei biglietti per ottenerne uno di sola andata per Charing Cross, e infilò le monete nella feritoia.

  Ogni moneta che inseriva scendeva dritta attraverso le viscere della macchina, per precipitare rumorosamente nel cassettino sul fondo. Non apparve alcun biglietto.

  Tentò con un altro distributore. E con un altro ancora.

  L'uomo addetto alla vendita dei biglietti era al telefono quando Richard si rivolse a lui per lamentarsi e acquistare direttamente quello che gli serviva; e a dispetto - o forse a causa - delle grida di Richard e del suo disperato picchiettare con una moneta sulla barriera di plexiglass, se ne rimase risolutamente a chiacchierare.

  «Fanculo» annunciò Richard, saltando la barriera.

  Nessuno lo fermò.

  Nessuno parve interessato.

  Scese le scale correndo, sudato e ansimante, e arrivò sulla ban­china affollata proprio mentre arrivava un treno.

  Da bambino, Richard aveva sofferto di incubi in cui semplice­mente non esisteva. Non importava quanto rumore o cosa facesse, nessuno si accorgeva di lui.

  Cominciò a sentirsi cosi anche in quel momento, mentre davanti a lui la gente si spintonava; venne preso a gomitate dalla folla, spinto di qua e di là da chi scendeva e da chi saliva.

  Insistette, spingendo e sgomitando a sua volta, ed era quasi riu­scito a salire - aveva già un braccio sul treno - quando le porte cominciarono a chiudersi sibilando. Ritirò la mano, ma la manica del soprabito rimase incastrata.

  Richard si mise a prendere a pugni la porta e a gridare, aspet­tandosi almeno che il guidatore aprisse quel tanto che bastava a liberargli la manica. Invece il treno cominciò a muoversi e Richard fu costretto a correre sulla banchina, inciampando, sempre più ve
­loce.

  Lasciò cadere la valigetta e prese a tirare disperatamente la manica con la mano libera.

  La manica si strappò e lui cadde in avanti, spellandosi le mani e lacerandosi i pantaloni all'altezza del ginocchio.

  Con qualche difficoltà si rimise in piedi, ripercorse la banchina e recuperò la valigetta.

  Guardò la manica strappata, la mano escoriata e i pantaloni bu­cati.

  Poi risali le scale e lasciò la stazione della metropolitana. Nes­suno gli chiese il biglietto neppure all'uscita.

  «Mi dispiace, sono in ritardo» disse Richard a nessuno in parti­colare.

  L'orologio sul muro dell'ufficio diceva che erano le dieci e mezzo.

  Lasciò cadere la valigetta sulla sedia e si asciugò il sudore dal viso con il fazzoletto.

  «Non potete immaginare cos'è stato arrivare qui» continuò. «Un vero incubo.»

  Abbassò gli occhi sulla sua scrivania. Mancava qualcosa. O, per essere più precisi, mancava tutto.

  «Dove sono le mie cose?» chiese alla stanza, alzando leggermente la voce. «Dove sono i miei telefoni? Dove sono i miei troll?»

  Controllò nei cassetti. Vuoti anche quelli: neppure la carta di un Mars o una graffetta piegata a indicare che Richard fosse mai stato li.

  Sylvia stava arrivando verso di lui, in conversazione con due gentiluomini piuttosto robusti. Richard le andò incontro.

  «Sylvia? Cosa sta succedendo?»

  «Mi scusi?» disse lei educatamente. Indicò la scrivania ai due signori nerboruti che la sollevarono uno da un lato e uno dall'altro e iniziarono a trasportarla fuori dall'ufficio.

  «La mia scrivania. Dove la portano?»

  Sylvia lo guardò fisso, lievemente perplessa. «E lei è...?»

  Non so che farmene di questa merda, pensò Richard. «Richard» rispose sarcastico. «Richard Mayhew.»

  «Salve» disse Sylvia. Quindi la sua attenzione scivolò su Ri­chard come l'acqua sulle penne di un'anatra e disse, «No! Non là!» ai traslocatori, e si mise a rincorrerli mentre portavano via la scrivania.

  La guardò andarsene. Poi attraversò l'ufficio e raggiunse la scri­vania di Garry.

 

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