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Nessun Dove

Page 8

by Neil Gaiman


  Non era un gran che come confortatore di afflitti.

  Gli occhi dallo strano colore di Porta erano colmi di lacrime. «Puoi... puoi concedermi solo un secondo? Starò benissimo.»

  Lui annui e camminò fino al punto più lontano della sala. Quan­do si voltò a guardarla, era ancora là, tutta sola, che si stagliava contro il bianco salone d'ingresso, pieno di quadri di stanze, e si stringeva in un abbraccio solitario, tremando e piangendo come una bambina.

  Richard era ancora turbato per avere perso la borsa.

  Lord Parla-coi-Ratti non aveva ceduto di una virgola. Aveva sentenziato baldanzoso che il ratto - Padron Codalunga - non ave­va assolutamente parlato di restituire a Richard le sue cose. Aveva solo detto di accompagnarlo al mercato.

  Poi aveva comunicato a Anestesia che sarebbe spettato a lei di portare l'uomo del Mondo di Sopra al mercato e che, si, era un ordine. E che era ora di smettere di piagnucolare e il momento di mettersi in marcia.

  A Richard aveva detto che se lui, Lord Parla-coi-Ratti, l'avesse visto di nuovo, lui, Richard, si sarebbe trovato in guai davvero grossi.

  Aveva ribadito che non aveva idea di quanto fosse stato fortu­nato e, ignorando le sue richieste perché gli restituisse la roba - o almeno il portafogli - li accompagnò a una porta, che poi chiuse a chiave dietro di loro.

  Richard e Anestesia camminarono fianco a fianco nel buio.

  Lei portava una lampada improvvisata costruita con una cande­la, una lattina, del filo e una vecchia bottiglietta di tamarindo. Ri­chard si sorprese della rapidità con cui i suoi occhi si adeguarono alla semioscurità. Sembrava stessero passando attraverso una serie di volte sotterranee. In qualche occasione gli parve di cogliere un movimento, negli angoli più lontani delle volte, ma che si trattasse di essere umani, ratti o chissà che altro, quando arrivavano nel luo­go in cui si era verificato il guizzo, non c'era più nulla.

  Quando tentò di parlare di quei movimenti con Anestesia, lei lo zitti con un sibilo.

  Senti una folata gelida sul viso. Di punto in bianco la ragazza-ratto si acquattò, appoggiò a terra la lampada-candela e si mise a tirare e strattonare con forza una grata di metallo fissata nel muro, che si apri di colpo, mandandola a gambe all'aria.

  Fece cenno a Richard di entrare.

  Lui si chinò e procedette lentamente attraverso il foro nel muro. Dopo una trentina di centimetri, il pavimento finiva.

  «Scusa» bisbigliò Richard. «C'è un buco qui.»

  «Non è un gran dislivello» gli disse. «Va' avanti.»

  Richiuse la grata dietro di sé. Adesso si trovava scomodamente vicina a Richard. Lui procedette piano, nell'oscurità. Quindi si fermò.

  «Tieni» disse la ragazza, dandogli da reggere il manico della piccola lampada, e saltò giù nel buio.

  «Ecco» disse. «Non era poi tanto terribile, vero?» Il suo viso si trovava circa un metro al di sotto dei piedi ciondolanti di Richard. «Forza, passami la lampada.»

  La abbassò verso di lei, che dovette saltare per afferrarla.

  «Bene» bisbigliò. «Vieni.»

  Scavalcò il ciglio, rimase sospeso un istante, poi si lasciò anda­re. Atterrò con mani e piedi nel fango soffice e umido. Si tolse il fango dalle mani pulendole sul maglione.

  Pochi passi più in là, Anestesia apri un'altra porta.

  La attraversarono, e lei se la chiuse alle spalle.

  «Possiamo parlare, adesso» disse. «Non ad alta voce, però pos­siamo parlare. Se vuoi.»

  «Oh. Grazie» fece Richard. Non gli veniva in mente niente da dire. «Perciò... hmmm... tu sei un ratto, è cosi?» chiese.

  Lei ridacchiò. «Magari fossi cosi fortunata. Mi piacerebbe. No, io sono una parla-coi-ratti. Noi parliamo ai ratti.»

  «Cioè, chiacchierate e basta?»

  «Oh, no. Facciamo delle cose per loro. Voglio dire,» e il tono della sua voce sottintendeva che Richard non ci sarebbe mai arri­vato da solo a capirlo, «ci sono delle cose che i ratti non possono fare, sai. Voglio dire, non avendo le dita, il pollice, e, insomma, cose. Aspetta...»

  Lo spinse contro il muro, all'improvviso, e gli tappò la bocca con una mano sudicia. Quindi spense la candela.

  Non accadde nulla.

  Poi Richard udì delle voci lontane.

  Aspettarono.

  Delle persone passarono loro accanto e li superarono, parlando a bassa voce.

  Quando ogni suono fu spento, Anestesia gli tolse la mano dalla bocca, riaccese la candela e proseguirono.

  «Chi erano?» chiese Richard.

  Lei fece spallucce. «Non importa» rispose.

  «E allora cosa ti fa pensare che non sarebbero stati contenti di vederci?»

  Lo guardò con aria alquanto triste, come una mamma che cerca di spiegare al suo piccino che, si, anche quella fiamma scotta. Tut­te le fiamme scottano. Fidati, per favore.

  «Vieni» disse. «Conosco una scorciatoia. Possiamo fare un sal­to a Londra Sopra. Per un pochino.»

  Salirono alcuni gradini di pietra, e la ragazza spinse una porta, che si apri. La attraversarono e questa si richiuse alle loro spalle.

  Richard si guardò intorno, perplesso.

  Si trovavano sull'Embankment, l'argine del Tamigi. Era anco­ra notte - o forse era di nuovo notte. Non sapeva per quanto tempo avessero camminato nel sottosuolo e nell'oscurità.

  La luna non si vedeva, ma il cielo era una profusione di nitide e scintillanti stelle autunnali. Anche i lampioni erano accesi, e cosi le luci su ponti e palazzi, che parevano astri terreni e brillavano riflessi nelle acque del Tamigi.

  È il paese delle fate, pensò Richard.

  Anestesia spense la candela.

  «Sei certa che sia la strada giusta?»

  «Si» rispose lei. «Certissima.»

  Si stavano avvicinando a una panchina, e non appena ci posò sopra gli occhi, a Richard parve fosse uno degli oggetti più desi­derabili che avesse mai visto. «Possiamo sederci?» domandò.

  Lei si strinse nelle spalle, e si sedettero agli estremi opposti della panchina.

  «Fino a venerdì» disse Richard «lavoravo da uno dei migliori analisti finanziari di Londra.»

  «Che cosa fa un analista eccetera?»

  «Lavora.»

  Lei annui soddisfatta. «Bene. E...?»

  «In realtà lo stavo solo ricordando a me stesso. Ieri... era come se non esistessi più per nessuno, qui sopra.»

  «E perché è cosi» spiegò Anestesia.

  Una coppia di nottambuli, che si era mossa nella loro direzione camminando lentamente lungo l'argine, tenendosi per mano, ave­va preso posto sulla panchina, nel mezzo, proprio tra Richard e Anestesia. I due avevano cominciato a baciarsi, appassionatamente.

  «Scusate» disse loro Richard.

  L'uomo aveva infilato una mano sotto al maglione della donna e la muoveva in qua e in là con grande entusiasmo, un viaggiatore solitario alla scoperta di un continente inesplorato.

  «Rivoglio la mia vita» disse Richard alla coppia.

  «Ti amo» disse l'uomo alla donna.

  «Ma tua moglie...» fece lei, dandogli una leccatina vicino al­l'orecchio.

  «Che vada a scopare il mare» rispose l'uomo.

  «Non mi frega di quello che si scopa lei» commentò la donna con una risatina da ubriaca. «Basta che io possa scoparmi te...» Gli mise una mano tra le cosce e ridacchiò più forte.

  «Andiamo» disse Richard a Anestesia, sentendo che la panchi­na cominciava a diventare un luogo meno piacevole, quindi si al­zarono e si allontanarono. Incuriosita, Anestesia si voltò a sbircia­re la coppia che stava gradualmente assumendo una posizione sem­pre più orizzontale.

  Richard non disse nulla.

  «Qualcosa non va?» chiese Anestesia.

  «Assolutamente tutto» rispose Richard. «Hai sempre vissuto di sotto?»

  «No. Sono nata qui» esitò. «Non credo ti interessi sapere di me.»

  Richard si rese conto, con una certa sorpresa, che invece gli interessava. «Sbagli.»

  La ragazza si mise a giocherellare con le perline di quarzo infi­late nella
collana che aveva al collo, poi iniziò a parlare, senza guardarlo.

  «La mamma ha avuto me e le mie sorelle, ma è diventata un po' strana nella testa. La signora è venuta e si è presa cura delle mie sorelle, e io sono andata a stare da mia zia. Lei viveva con quel tizio. Mi faceva sempre male. Faceva delle cose. L'ho detto alla zia e lei mi ha picchiata. Diceva che mentivo. Diceva che mi portava dalla polizia. Ma io non mentivo. Perciò sono scappata. Era il giorno del mio compleanno.»

  Avevano raggiunto l'Albert Bridge, più che un ponte un monu­mento kitsch da cui pendevano migliaia di lucine gialle.

  «Faceva cosi freddo» continuò Anestesia, poi fece una pausa. «Dormivo per strada. Dormivo di giorno, quando faceva un pochino più caldo, e andavo in giro di notte, tanto per muovermi. Avevo undici anni. Per mangiare rubavo il pane e il latte davanti alle case. Odiavo farlo. Giravo nelle strade dei mercati e prendevo le mele marce e le arance e le cose che gli altri buttavano. Vivevo sotto un cavalcavia a Notting Hill. Poi mi sono ammalata per davvero. Quan­do sono rinvenuta ero a Londra Sotto. Mi avevano trovata i ratti.»

  «Hai mai cercato di ritornare a tutto questo?» chiese, indicando le case silenziose, calde e deserte. Le auto nella notte. Il mondo reale...

  Scosse il capo. Tutte le fiamme scottano, piccolino. Imparerai. «Non puoi. O uno o l'altro. Nessuno li ha tutti e due.»

  «Mi dispiace» disse Porta con voce esitante. Aveva ancora gli occhi rossi.

  Il Marchese, che si era divertito giocando un gioco degli astra­gali con delle ossa e delle monete antiche, la guardò. «Davvero?»

  Si mordicchiò il labbro inferiore. «No. Veramente no. Non mi dispiace. Ho corso e mi sono nascosta e ho corso cosi tanto che... questa è stata la prima occasione per...» Si interruppe.

  Il Marchese raccolse le monete e le ossa e le ripose in una delle sue tante tasche.

  «Dopo di te» disse.

  La segui di nuovo alla parete di quadri. Lei appoggiò una mano sull'immagine dello studio di suo padre, e con l'altra afferrò la manona del Marchese.

  ... La realtà si alterava...

  Erano nella serra a bagnare le piante.

  Entrata aveva un pìccolo annaffiatoio tutto per lei. Ne era cosi fiera. Era proprio uguale a quello della mamma.

  Cominciò a ridere, una risata spontanea, da bambina.

  E anche sua madre si mise a ridere, finché mister Croup la tirò forte per i capelli, un colpo secco e improvviso, e le tagliò la gola da un orecchio all'altro.

  «Ciao, papà» disse Porta sommessamente.

  Sfiorò il busto del padre con le dita, accarezzandogli una guancia. Un uomo magro, ascetico, quasi calvo. Cesare come Prospe­ro, pensò il Marchese de Carabas. Non si sentiva molto bene. Quel­l'ultima immagine era stata dolorosa.

  Quadro: studio di Lord Portico. Quello era un inizio.

  Osservò la stanza, gli occhi che passavano da un dettaglio al­l'altro. Il coccodrillo impagliato che pendeva dal soffitto; i libri, un astrolabio, specchi, curiosi strumenti scientifici; sui muri c'era­no delle mappe; una scrivania, coperta di lettere.

  La parete bianca dietro la scrivania era deturpata da una mac­chia rosso-marrone.

  Sulla scrivania c'era un piccolo ritratto della famiglia di Porta. Il Marchese lo studiò attentamente.

  «Tua madre e tua sorella. Tuo padre. E tuo fratello. Tutti morti. E tu, come sei riuscita a salvarti?»

  Abbassò la mano. «Sono stata fortunata. Ero andata in esplora­zione per qualche giorno... sapevi che ci sono ancora dei soldati romani accampati vicino al fiume Kilburn?»

  Il Marchese non lo sapeva, e la cosa lo metteva di malumore. «Hmm. Quanti?»

  Lei si strinse nelle spalle. «Poche decine. Erano disertori dalla diciannovesima legione, credo. Il mio latino è un po' approssima­tivo. Comunque, quando sono tornata qui...»

  Fece una pausa e deglutì, gli occhi dallo strano colore colmi di lacrime.

  «Ricomponiti» disse bruscamente il Marchese. «Ci serve il dia­rio di tuo padre. Dobbiamo scoprire chi è stato.»

  Lo guardò con disapprovazione. «Sappiamo già chi è stato: Croup e Vandemar...»

  Lui allargò una mano, e parlò agitando le dita. «Loro sono brac­cia. Mani. Dita. Ma c'è un cervello dietro a tutto questo, e vuole morta anche te. Quei due non costano certo poco.»

  Si guardò intorno nello studio in disordine.

  «Il suo diario?» domandò il Marchese.

  «Non è qui» rispose Porta. «Te l'ho detto. Ho guardato.»

  «Avevo l'errata convinzione che la tua famiglia fosse partico­larmente abile nell'individuare aperture, evidenti oppure no.»

  Lei lo guardò in cagnesco. Poi chiuse gli occhi e mise pollice e indice ai lati del proprio dorso nasale.

  Il Marchese esaminò gli oggetti sulla scrivania di Portico. Un calamaio; un pezzo degli scacchi; un dado in osso; un orologio d'oro da taschino; svariate penne d'oca e...

  Interessante.

  Era una statuina che rappresentava un cinghiale, o un orso accucciato, o forse un toro. Difficile a dirsi. Aveva le dimensioni di un pezzo degli scacchi piuttosto grande ed era stato intagliato grossolanamente in un blocco di ossidiana nera. Gli ricordava qualco­sa, ma non avrebbe saputo dire cosa.

  Lo prese in mano, lo voltò. Lo avvolse con le proprie dita.

  Porta abbassò la mano. Pareva perplessa e confusa.

  «Cosa c'è?» domandò il Marchese.

  «È qui» rispose, semplicemente. Iniziò a camminare su e giù per lo studio, la testa piegata ora da un lato ora dall'altro.

  Il Marchese fece scivolare la statuina in una tasca interna.

  Porta era in piedi davanti a un mobiletto alto. «Qui» disse. Al­lungò la mano: si udi un click e si apri un piccolo pannello latera­le. Porta infilò la mano nella cavità buia, e ne estrasse qualcosa all'incirca della forma e delle dimensioni di una palla da cricket. La passò al Marchese.

  Era una sfera, realizzata in ottone antico e legno pregiato, con inserti in rame lucido e lenti di vetro.

  Gliela tolse di mano.

  «È questo?»

  Lei annui.

  «Ottimo.»

  Aveva un'aria seria. «Non so come ho fatto a non trovarlo prima.»

  «Eri sconvolta» disse il Marchese. «Ero certo che fosse qui. E io mi sbaglio cosi di rado. Ora...» e sollevò il piccolo globo di le­gno. La luce colpi i vetri e rimbalzò dal rame all'ottone.

  Gli scocciava moltissimo, ma lo disse comunque: «Come fun­ziona?»

  Anestesia aveva portato Richard in un piccolo parco sull'altro lato del ponte, poi gli aveva fatto scendere dei gradini di pietra accanto a un muro. Aveva riacceso la candela e aperto una porta di servizio, che si era poi richiusa alle spalle.

  Scesero alcuni scalini, circondati dall'oscurità.

  «C'è una ragazza che si chiama Porta» disse Richard. «È poco più giovane di te. La conosci?»

  «Lady Porta. So chi è.»

  «Quindi, a quale, hmm, baronia appartiene?»

  «Nessuna baronia. È della casata degli Arch. La sua famiglia era molto importante.»

  «Era? Perché non lo è più?»

  «Qualcuno li ha uccisi.»

  Già, ricordava che il Marchese aveva detto qualcosa al riguardo.

  Un ratto attraversò loro la strada. Anestesia si fermò sui gradini e fece un profondo inchino. Il ratto indugiò un attimo.

  «Sire» disse la ragazza.

  «Ciao» fece Richard.

  Il ratto li guardò il tempo di un battito di ciglia e si lanciò giù dalle scale.

  «Allora» disse Richard. «Cos'è un mercato fluttuante?»

  «E molto grande» rispose Anestesia. «Ma i parla-coi-ratti non ci vanno quasi mai. A dire la verità...» Esitava a continuare. «No. Rideresti di me.»

  «No di certo» disse Richard, convinto.

  «Be',» disse la ragazza magra «ho un po' di paura.»

  «Paura? Del mercato?»

  Erano arrivati in cima alla scala. Anestesia era indecisa, poi girò a sinistra. «Oh, no. Durante il mercato c'è l'arm
istizio. Se uno fa del male a un altro, tutta Londra Sotto gli si riversa addosso come una tonnellata di acqua di scarico.»

  «E allora di cosa hai paura?»

  «Di arrivarci. Lo tengono ogni volta in un posto diverso. Si sposta. E per arrivare nel posto dove sarà stasera...» prese a giocherellare nervosamente con le perline di quarzo che aveva al col­lo. «Dovremo attraversare un quartiere proprio brutto.» Sembrava davvero spaventata.

  Richard represse l'istinto di passarle un braccio intorno alle spalle.

  «E dove sarebbe?» chiese.

  Si voltò verso di lui, si tolse i capelli dagli occhi e disse, «Night's Bridge, il ponte della notte.»

  «Vorrai dire Knightsbridge, il ponte dei cavalieri» ribadì Richard, mettendosi a ridacchiare piano per quella pronuncia che fal­sava il senso.

  Lei si allontanò seccata. «Visto?» disse. «L'avevo detto che avresti riso.»

  I tunnel profondi erano stati costruiti negli anni Venti per un tratto ad alta velocità della Northern Line. Durante la seconda guerra mondiale, le truppe acquartierate là erano migliaia, e i loro rifiuti dovevano essere pompati al livello superiore, cioè quello delle fogne, con l'aria compressa: entrambi i lati dei tunnel erano stati ricoperti da letti a castello di metallo. Al termine della guerra i letti a castello rimasero dov'erano, e sulle loro basi di rete venne­ro ammassate delle scatole di cartone, ognuna delle quali contene­va lettere, schedari e carte: segreti del tipo più stupido, depositati giù in fondo per essere dimenticati.

  Il sistema economico aveva fatto chiudere definitivamente i tunnel profondi nei primi anni Novanta. Le scatole con i segreti erano state rimosse, per essere conservate nei computer, fatte a pezzi o bruciate.

  Varney abitava nella parte più profonda dei tunnel profondi, molto, molto al di sotto della metropolitana di Camden Town. Aveva impilato i letti a castello davanti all'unica entrata, quindi aveva realizzato delle decorazioni. A Varney piacevano le armi. Se le costruiva da solo, utilizzando ciò che riusciva a trovare, a pren­dere o a rubare. Pezzi di auto e di macchinari venivano trasformati in uncini, coltelli a serramanico, balestre e baliste, piccoli mangani e trabocchi per rompere i muri, clave, spadoni e mazze ferrate. Se ne stavano appese alle pareti del tunnel profondo, oppure appoggiate in un angolo, con aria cattiva.

 

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