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Nessun Dove

Page 9

by Neil Gaiman


  Varney aveva l'aspetto di un toro, se si riesce a immaginare un toro rasato, senza corna, ricoperto di tatuaggi e i cui denti avessero subito un crollo totale. E russava anche.

  La lampada a olio accanto alla testa aveva la fiammella al mi­nimo. Varney dormiva su un mucchio di stracci, russando e tiran­do su col naso, con l'elsa di una spada a due lame appoggiata al suolo a portata di mano.

  Una mano fece aumentare l'intensità della lampada a olio.

  Varney teneva stretta la spada a due lame prima ancora di avere aperto gli occhi. Sbatté le palpebre, guardandosi intorno. Non c'era nessuno: niente aveva scomposto la pila di letti a castello che bloccava la porta. Cominciò ad abbassare la spada.

  Una voce disse, «Psst.»

  «Eh?» fece Varney.

  «Sorpresa!» disse mister Croup entrando nel cerchio di luce.

  Varney fece un passo indietro: grosso errore. Si trovò un col­tello alla tempia, con la punta della lama accanto all'occhio.

  «Non sono consigliati ulteriori movimenti» disse mister Croup, servizievole. «A mister Vandemar potrebbe accadere di avere un piccolo incidente con il suo vecchio infilza-rane. La maggior parte degli incidenti si verifica tra le mura domestiche. Non è forse vero, mister Vandemar?»

  «Non credo alle statistiche» rispose la voce di mister Vande­mar. Una mano guantata si protese alle spalle di Varney, gli piegò la spada e la lasciò cadere, deformata e ritorta, al suolo.

  «Come stai, Varney?» chiese mister Croup. «Bene, c'è da au­gurarsi! È cosi? In piena forma, con fiocchi e controfiocchi, pron­to per il mercato di stasera? Sai chi siamo?»

  Varney fece la cosa più simile a un cenno di consenso che non implicasse il movimento di alcun muscolo. Sapeva chi erano Croup e Vandemar.

  Con gli occhi scrutava le pareti. Eccola li: la stella del mattino, la mazzafrusto: una sfera di legno munita di punte, ornata di chio­di, appesa a una catena, nell'angolo estremo della stanza...

  «Si dice che una certa giovane signora concederà un'audizione per guardie del corpo, questa sera. Hai pensato di presentarti per il posto?» mister Croup si stuzzicò i denti. «Enuncia con chiarezza.»

  Con la forza della mente, Varney sollevò la stella del mattino. Era la sua specialità. Piano, ora... dolcemente... La tolse dal gancio e la spinse in alto verso la cima dell'arco del tunnel...

  Con la bocca, disse, «Varney è il miglior bravo e guardia del corpo del Mondo di Sotto. Dicono che sono il migliore dai tempi di Hunter.»

  Varney posizionò mentalmente la stella del mattino nell'ombra al di sopra e dietro la testa di mister Croup.

  Per prima cosa spaccherà il cranio di Croup, poi passerà a Vandemar...

  La stella del mattino precipitò verso la testa di mister Croup: Varney si gettò in basso, lontano dalla lama di coltello che gli pe­sava sull'occhio.

  Mister Croup non guardò in alto. Non si voltò. Si limitò a spo­stare la testa, con una rapidità oscena, e la stella del mattino lo su­però andando a fracassarsi a terra, spargendo intorno schegge di mattone e cemento.

  Mister Vandemar afferrò Varney con una mano. «Gli faccio male?» chiese al suo socio.

  Mister Croup scosse il capo: non ancora. A Varney disse, «Ten­tativo passabile. Quindi, 'miglior bravo e guardia del corpo', voglia­mo che tu stasera vada al mercato. Vogliamo che tu faccia ciò che serve per diventare la guardia del corpo personale di quella certa giovane signora. Poi, quando hai avuto il posto, c'è una cosa che non devi dimenticare. Puoi anche proteggerla dal resto del mondo ma quando siamo noi a volerla, noi ce la prendiamo. Capito?»

  Varney si passò la lingua sui suoi ruderi di denti.

  «Mi state corrompendo?» chiese.

  Mister Vandemar aveva sollevato la stella del mattino. Con la mano libera stava smontando la catena, anello dopo anello, e la­sciava cadere a terra i pezzi di metallo contorto. Tink.

  «No» rispose mister Vandemar. Tink. «Ti stiamo intimidendo.» Tink. «E se non fai quello che dice mister Croup, noi ti...» tink «... faremo male...» tink «... molto male, prima di...» tink «... ucciderti, anche peggio.»

  «Ah» fece Varney. «Allora lavoro per voi, non è cosi?»

  «Si, è cosi» disse mister Croup. «Mi spiace dirlo, ma purtroppo non abbiamo lati positivi.»

  «Questo non mi preoccupa» disse Varney.

  «Bene» disse mister Croup. «Benvenuto a bordo.»

  Si trattava di un marchingegno molto elegante, realizzato in le­gno di noce, ottone e vetro, rame e specchi, avorio intagliato e in­tarsiato, prismi di quarzo e ingranaggi di ottone, molle e ruote dentate. Il tutto risultava più grande di un televisore, benché lo schermo vero e proprio non superasse i 15 centimetri. Era una len­te d'ingrandimento sullo schermo stesso ad aumentare le dimen­sioni dell'immagine.

  Dal lato sporgeva una grande tromba di ottone, simile a quelle che si trovano sui vecchi grammofoni. Il meccanismo aveva l'aspet­to che avrebbe avuto un insieme di televisore e videoregistratore se gli stessi fossero stati inventati e costruiti trecento anni prima da Sir Isaac Newton. Cosa che non si distaccava poi molto dalla realtà.

  «Guarda» disse Porta.

  Appoggiò la sfera di legno su una piattaforma. Delle luci attra­versarono la macchina e illuminarono la sfera, che cominciò a gi­rare e rigirare su se stessa.

  Sul piccolo schermo apparve un viso aristocratico, vividamente colorato. Lievemente fuori sincrono, dalla tromba usci una voce crepitante, nel mezzo di un discorso.

  «... Che due città debbano essere cosi vicine e tuttavia in ogni cosa tanto lontane; i possidenti sopra di noi, e gli spodestati, noi che viviamo al di sotto e nel mezzo, che abitiamo nelle fenditure.»

  Porta fissava lo schermo, pallida in volto.

  «... Eppure sono dell'opinione che ciò che rende mutilati, stor­pi, paralizzati noi abitanti del Mondo di Sotto sia la nostra gretta faziosità. Il sistema di baronie e feudi risulta divisivo e insensato.» Lord Portico indossava una giacca da casa vecchia e lisa, e una papalina. La sua voce sembrava giungere fino a loro attraverso i secoli, non risalire a poche settimane o giorni prima.

  Tossì.

  «Non sono il solo ad abbracciare tale convinzione. Ci sono al­cuni che desiderano vedere le cose come stanno. Ci sono altri che desiderano che la situazione peggiori. Ci sono alcuni...»

  «Puoi farlo andare più veloce?» domandò il Marchese.

  Porta annui. Toccò una leva d'avorio posta di lato: l'immagine divenne poco più che un'ombra, si frammentò e si riformò.

  Ora Portico indossava il cappotto. La papalina era sparita. Ave­va un taglio profondo su un lato della fronte. Non era più seduto alla scrivania, e parlava con tono pressante e sommesso. «Non so chi vedrà questo, chi lo ritroverà. Ma chiunque siate, vi prego di portare questo a mia figlia, Lady Porta, se è ancora in vita...» Una scarica elettrostatica attraversò l'immagine e il sonoro.

  «Porta? Ragazza mia, questo è male. Non so quanto tempo mi resta prima che scoprano questa stanza. Penso che la mia povera Ianua, tuo fratello e tua sorella siano morti.»

  La qualità del suono e dell'immagine cominciava a peggiorare.

  Il Marchese lanciò un'occhiata a Porta. Aveva il viso umido: le lacrime traboccavano dai suoi occhi, lasciando una scia lucente sulle guance. Sembrava non rendersi conto di stare piangendo e non tentava in alcun modo di asciugare le lacrime. Si limitava a fissare l'immagine del padre e ad ascoltarne le parole.

  Scrack. Bzzz. Scrack. «Ascoltami, ragazza mia» le disse il pa­dre morto. «Va' da Islington... puoi fidarti di Islington... Credimi... Islington...»

  Diventò un'ombra. Il sangue gli era sceso dalla fronte sugli oc­chi, e lo tolse con la mano. «Porta? Vendicaci. Vendica la tua fa­miglia.» Dalla tromba del grammofono si udì un forte bang. Porti­co voltò il capo verso qualcosa non inquadrato nello schermo. Aveva un'aria stupita e impaurita. «Cosa...?»

  Usci dall'inquadratura. Per un istante l'immagine rimase immu­tata: la scrivania, il muro bianco dietro di essa. Poi un arco di san­gue rosso acceso schizzò quel muro.
/>   Porta diede un colpetto a una leva laterale, facendo diventare grigio lo schermo, e si girò dall'altra parte.

  «Tieni.» Il Marchese le allungò un fazzoletto.

  «Grazie.» Si asciugò il viso e si soffiò energicamente il naso. Poi si mise a fissare il vuoto. Alla fine, disse, «Islington.»

  «Non ho mai avuto niente a che fare con Islington» disse il Marchese.

  «Pensavo fosse solo una leggenda» commentò Porta.

  «No di certo.»

  Il Marchese si allungò sulla scrivania per prendere l'orologio d'oro da taschino e lo apri. «Ottima lavorazione» commentò.

  Lei annui. «Era di mio padre.»

  Richiuse il coperchio con un click. «È ora di andare al mercato. Comincia presto. Il Signor Tempo non ci è amico.»

  Lei si soffiò di nuovo il naso, quindi affondò le mani nelle ta­sche della giacca di pelle. Poi si volse verso di lui, il faccino da elfo accigliato, gli occhi dallo strano colore e luminosissimi. «Sei davvero convinto che possiamo trovare una guardia del corpo in grado di affrontare Croup e Vandemar?»

  Il Marchese le indirizzò uno sfolgorio di denti. «Dopo Hunter non c'è più stato nessuno con la benché minima possibilità. No, cercherò qualcuno che possa darti il tempo di scappare.»

  Assicurò la catena dell'orologio al panciotto, lasciando scivo­lare l'orologio nell'apposito taschino.

  «Cosa stai facendo?» chiese Porta. «Quello è l'orologio di mio padre.»

  «Ma non lo usa più, vero? Ecco fatto. Piuttosto elegante, direi.» Osservò le emozioni alternarsi sul viso di lei: dolore, rabbia, rassegnazione.

  «Andiamo» disse la ragazza.

  «Il Ponte della Notte non è molto lontano da qui» disse Anestesia.

  Richard si augurò che fosse vero. Erano alla terza candela, e si stupiva che fossero ancora sotto Londra: era pressoché convinto di aver percorso quasi tutta la strada per la Fine del Mondo.

  «Ho proprio paura» continuò lei. «Non ho mai attraversato il ponte.»

  «Mi pareva avessi detto che c'eri già stata al mercato.»

  «È il Mercato Fluttuante, sciocco. Te l'ho già detto. Si sposta. Zone diverse. L'ultimo a cui sono andata si teneva in quella gran­de torre con le campane. Il Big... qualcosa. E quello dopo era...»

  «Il Big Ben?»

  «Forse. Eravamo all'interno dove girano tutte quelle ruote enor­mi, ed è stato li che ho preso questo...»

  Gli mostrò la collana. Alla luce della candela i quarzi luccican­ti mandarono bagliori giallastri. Lei sorrise, come una bambina.

  «Ti piace?» chiese.

  «È bellissima. L'hai pagata molto?»

  «Ho dato della roba in cambio. È cosi che funzionano le cose qui sotto. Ci scambiamo la roba.»

  Poi svoltarono un angolo e videro il ponte.

  Avrebbe potuto essere uno dei ponti sul Tamigi, pensò Richard; un enorme ponte di pietra che si estende sopra un baratro, nella notte. Ma non c'era cielo sopra quel ponte, e non c'era acqua sotto.

  Si innalzava nell'oscurità.

  Richard si chiese chi l'avesse costruito e quando. Si chiese come era possibile che qualcosa del genere potesse esistere sotto la città di Londra, senza che nessuno lo sapesse.

  Alle spalle di Richard si udì un brusio di voci.

  Qualcuno gli diede uno spintone mandandolo lungo e disteso per terra. Alzò gli occhi. Un uomo gigantesco, rozzamente tatuato, vestito con abiti improvvisati di pelle e di gomma, che parevano ritagliati da un interno di automobile, lo osservava dall'alto in bas­so. Dietro a lui c'erano dozzine di persone, uomini e donne: perso­ne che parevano dirette a una festa mascherata con costumi di infi­ma qualità presi a nolo.

  «Qualcuno» disse Varney, che non era dell'umore migliore, «mi stava tra i piedi. Qualcuno farebbe bene a guardare dove va.»

  Una volta, da piccolo, mentre tornava da scuola, Richard aveva incontrato un ratto in un fosso a lato della strada. Vedendolo, il ratto si era sollevato sulle zampe posteriori, soffiando e saltando, e spaventando a morte Richard, che aveva indietreggiato, stupito che un essere cosi piccolo fosse pronto a lottare contro qualcosa tanto più grande.

  Anestesia si mise in mezzo, tra Richard e Varney. Lanciò un'oc­chiata furiosa al gigante e cominciò a sibilare come un ratto arrab­biato messo alle strette. Varney fece un passo indietro.

  Sputò sulle scarpe di Richard, dopo di che girò sui tacchi e il manipolo di persone si diresse sul ponte e nel buio.

  «Tutto a posto?» chiese Anestesia, aiutando Richard a rimetter­si in piedi.

  «Sto bene» rispose. «Sei stata coraggiosissima.»

  Lei guardò in basso, con aria timida. «Non sono davvero co­raggiosa» disse. «Ho ancora paura del ponte. Anche quelli aveva­no paura. Ecco perché sono andati tutti insieme. L'unione fa la forza. Dei veri bulli!»

  «Se dovete attraversare il ponte, vengo con voi» disse una voce femminile.

  Richard non riusci mai a capire che accento avesse. In quel momento pensò fosse canadese o americano. In seguito ritenne che potesse essere africano, australiano o persìno indiano. Non riuscì mai a individuarlo.

  Era una donna alta, con lunghi capelli color bruno fulvo e la pelle scura, come lo zucchero caramellato. Indossava indumenti di pelle chiazzata, grigia e marrone. Sulla spalla portava una sacca da viaggio in pelle alquanto vissuta.

  Teneva in mano un bastone, aveva un pugnale alla cintura e una torcia elettrica legata al polso con una cinghia.

  Era, senza alcun dubbio, la donna più bella che Richard avesse mai visto.

  «L'unione fa la forza. Se desidera venire con noi, è la benvenuta» disse, dopo un istante di esitazione. «Mi chiamo Richard Mayhew, e questa è Anestesia. È quella di noi che sa cosa sta facendo.»

  La ragazza-ratto gongolava.

  La donna vestita di pelle lo osservò dalla testa ai piedi. «Vieni da Londra Sopra» gli disse.

  «Si.»

  «E vai in giro con una parla-coi-ratti. Perbacco!»

  «Sono il suo guardiano» disse Anestesia con aria feroce. «E tu chi sei? A quale signore devi fedeltà?»

  La donna sorrise. «Non devo fedeltà a nessun uomo, ragazza-ratto. Qualcuno di voi due ha già attraversato il Night's Bridge, il temibile Ponte della Notte?»

  Anestesia scosse il capo.

  «Bene. Allora ci divertiremo, giusto?»

  Procedettero verso il ponte.

  Anestesia diede a Richard la lampada-candela. «Tieni» disse.

  «Grazie.» Richard guardò la donna vestita di pelle. «C'è dav­vero qualcosa da temere? Cosa c'è sul Knightsbridge, o Night's Bridge che sia cosi pericoloso?»

  «Solo quello che hai detto.»

  «Intendi un tipo in armatura?»

  «Intendo quel tipo di armatura che cala quando finisce il gior­no. Questo c'è da temere.»

  La mano di Anestesia andò in cerca di quella di Richard, che la afferrò con forza, una piccola mano in una più grande. Lei gli sor­rise e ricambiò la stretta.

  Quindi misero piede sul ponte, e Richard iniziò a comprendere il buio: il buio come qualcosa di solido e reale.

  Richard sentiva che gli sfiorava la pelle, cercando, spostandosi, esplorando: gli scorreva nella mente. Poi gli scivolò nei polmoni, dietro gli occhi, in bocca...

  A ogni passo la luce della candela diventava più fioca. Si ac­corse che la stessa cosa stava accadendo anche alla torcia della donna vestita di pelle.

  Buio, totale e assoluto.

  Rumori. Un fruscio, un movimento inconsulto. Richard sbatté le palpebre, accecato dalla notte.

  I suoni erano sempre più cattivi, più affamati. A Richard parve di udire delle voci: un'orda di giganteschi troll deformi, sotto il ponte...

  Qualcosa nell'oscurità scivolò accanto a loro e li superò.

  «Cos'è?» squitti Anestesia. La piccola mano tremava in quella più grande.

  «Shh!» sussurrò la donna. «Non attirare la sua attenzione.»

  «Che succede?» bisbigliò Richard.

  «Il buio» spiegò con calma la donna vestita di pe
lle. «Tutti gli incubi che emergono al calare del sole, fin dai tempi delle caver­ne, quando ci si rannicchiava gli uni accanto agli altri alla ricerca di calore e sicurezza. Questo è il momento di avere paura del­l'oscurità.»

  Richard si rese conto che qualcosa gli stava strisciando sul viso. Chiuse gli occhi: tanto non faceva alcuna differenza rispetto a ciò che vedeva o sentiva. La notte era assoluta.

  E fu allora che cominciarono le allucinazioni.

  Vide una figura cadere verso di lui nella notte, in fiamme, le ali e i capelli che andavano a fuoco.

  Sollevò le mani: li non c'era nulla.

  Jessica lo guardò, il disprezzo negli occhi.

  Avrebbe voluto gridarle qualcosa, dirle che gli dispiaceva.

  Metti un piede dopo l'altro.

  Era un bambino, pìccolo, che tornava a casa da scuola, dì not­te, lungo una strada senza lampioni. Non importava quante volte l'avesse fatto, non diventava mai più facile, mai più piacevole.

  Era in fondo alla fognatura, perso in un labirinto. La Bestia lo stava aspettando.

  Poteva sentire un lento sgocciolio d'acqua. Sapeva che la Be­stia aspettava. Afferrò saldamente la lancia... Poi un rombo, dal profondo della gola della Bestia, da dietro dì lui. Si voltò. Con lentezza, con angosciante, terrìbile lentezza, l'animale caricò, nell'oscurità.

  E caricò.

  Mentre lui moriva. Continuò a camminare.

  Con lentezza, con angosciante, terribile lentezza, l'animale ca­ricò, ancora e ancora, nell'oscurità...

  Ci fu un crepitio, e un chiarore cosi forte da far male. Era la fiamma della candela, nel suo candelabro di bottiglietta di tama­rindo. Non aveva mai fatto caso a quanta luce può produrre una singola candela. La sollevò con orgoglio.

  «Sembra che abbiamo attraversato con successo» disse la don­na vestita di pelle.

  Richard si accorse che il cuore gli batteva all'impazzata, che non riusciva a parlare. Si costrinse a respirare lentamente per cal­marsi.

  «Suppongo» disse esitante «che non siamo mai stati veramente in pericolo. Era come il castello delle streghe... dei rumori nel buio. E l'immaginazione fa il resto. Non c'era niente da temere, vero?»

 

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