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Nessun Dove

Page 14

by Neil Gaiman


  L'accenno di un sorriso si affacciò all'angolo delle labbra per­fette di Hunter. «Continua» disse. «Di' qualcosa di buffo.»

  Il giullare si fissava la punta delle scarpe consunte. Poi mormo­rò, «Il mio segugio è privo di naso.»

  Il Conte era rimasto a fissare il Marchese de Carabas come una miccia a combustione lenta, occhio spalancato, labbra sbiancate, incapace di credere all'evidenza dei propri sensi. Quindi esplose saltando in piedi, un vulcano dalla barba grigia, un anziano ma fe­roce guerriero. La testa sfiorava il tetto della carrozza. Puntò il dito verso il Marchese e gridò, sputacchiando per la rabbia: «Questo non lo tollero, no di certo! Fatelo venire avanti!»

  Halvard agitò una lugubre lancia in direzione del Marchese, che a passo lento si avviò verso la testa del treno, fino ad arrivare ac­canto a Porta, di fronte al trono del Conte. Il levriere emise un ringhio sordo.

  «Tu» fece il Conte, infilzando l'aria con un dito tremante. «Ti conosco, de Carabas. Non ho dimenticato. Sarò anche vecchio, ma non ho dimenticato.»

  Il Marchese fece un inchino.

  «Posso ricordare a vostra grazia» disse cortesemente «che ave­vamo fatto un patto? Io ho negoziato il trattato di pace tra la vostra gente e Raven's Court, e in cambio voi eravate d'accordo a conce­dermi un piccolo favore.»

  Allora esiste una Raven's Court, pensò Richard. Chissà com'è? Chissà se c'è un corvo?

  «Un piccolo favore?» disse il Conte. Aveva assunto un intenso color barbabietola. «È cosi che lo chiami? Ho perso decine di uomini per la tua stupidità durante la ritirata da White City. Ho perso un occhio.»

  «E se mi è permesso dirlo, vostra grazia,» disse garbatamente il Marchese «avete una benda molto affascinante. Si adatta alla per­fezione al vostro viso, mettendolo in risalto.»

  «Ho giurato...» esplose il Conte, la barba che si rizzava, «ho giurato... che se mai avessi rimesso piede sui miei domini, ti avrei...» esitò. Scosse il capo, quindi riprese. «Mi tornerà alla mente. Io non dimentico.»

  «Avrebbe potuto non gradire particolarmente la tua vista?» sus­surrò Porta a de Carabas.

  «Be', non la gradisce» bofonchiò lui in risposta.

  Di nuovo Porta si fece avanti. «Vostra grazia,» disse con voce alta e chiara, «de Carabas è qui con me come mio ospite e mio compagno. Per la fratellanza che c'è sempre stata tra la vostra famiglia e la mia, per l'amicizia che legava mio padre e...»

  «Ha abusato della mia ospitalità» tuonò il Conte. «Ho giurato che... se mai fosse entrato di nuovo nei miei domini l'avrei fatto sbudellare e lasciato a rinsecchire... come, come qualcosa che è stato, hmm, prima sbudellato e poi, be', messo a seccare, hmm...»

  «Forse - un'aringa, mio signore?» suggerì il giullare.

  Il Conte si strinse nelle spalle. «Non ha importanza. Guardie, prendetelo!»

  Lo fecero. Anche se tutte le guardie avevano già visto i sessan­ta, reggevano ognuna una balestra, puntata alla gola del Marchese; e le loro mani non tremavano, né per età né per paura.

  Richard guardò Hunter. Sembrava che la cosa non la disturbas­se affatto: osservava la situazione quasi divertita, come chi ammi­ra la rappresentazione di una pièce teatrale.

  Porta si mise a braccia conserte, la schiena ben dritta e la testa all'indietro, il mento appuntito sollevato e deciso. Non sembrava quasi più un cencioso folletto di strada, ma piuttosto una persona abituata a ottenere ciò che vuole. Gli occhi dallo strano colore lam­peggiavano. «Vostra grazia, il Marchese è con me, mi accompa­gna nella ricerca. Le nostre famiglie sono amiche da cosi lungo tempo...»

  «Si, lo sono» interruppe il Conte. «Da centinaia di anni. Centinaia e centinaia. Conoscevo anche tuo nonno. Tipo simpatico. Un po' vago.»

  «Ma sono costretta ad affermare che considererò qualunque atto di violenza contro il mio compagno come un atto di aggressione contro di me e la mia casata.» La ragazza fissò il vecchio, che tor­reggiava sopra di lei. Rimasero immobili per qualche istante, come congelati. Il Conte, in preda all'agitazione, si tirava la barba rossa e grigia, quindi sporse in avanti il labbro inferiore come fanno i bambini piccoli. «Non ce lo voglio, qui» disse.

  Il Marchese estrasse dal taschino l'orologio d'oro che aveva trovato nello studio di Portico. Lo esaminò con noncuranza, poi si rivolse a Porta come se nessuno dei fatti appena accaduti si fosse mai verificato. «Mia signora,» disse «ti sarò certamente più utile fuori da questo treno. Ho molte altre strade da esplorare.»

  «No» disse lei. «Se te ne vai tu, ce ne andiamo tutti.»

  «Non credo sia il caso» rispose il Marchese. «Hunter si prende­rà cura di te finché sei a Londra Sotto. Ci incontreremo al prossi­mo mercato. E nel frattempo, non fare niente di stupido.»

  Il treno si stava fermando a una stazione.

  Porta fissò lo sguardo sul Conte: grandi occhi dallo strano co­lore in un viso pallido a forma di cuore. «Lo lascerete andare in pace, vostra grazia?» chiese.

  Lui si passò la mano sul volto, strofinò prima l'occhio buono, poi la benda, quindi guardò la ragazza.

  «Lasciatelo andare» disse il Conte. «Ma la prossima volta...» fece correre un ditone rugoso in orizzontale all'altezza del pomo d'Adamo «... Aringa.»

  «Conosco la strada» disse il Marchese alle guardie, e si diresse verso la porta aperta.

  Halvard sollevò la balestra e la puntò in direzione della schiena del Marchese. Hunter allungò la mano e abbassò la punta dell'ar­ma verso il pavimento.

  Il Marchese mise piede sulla banchina, si voltò e fece un ironi­co ciao-ciao con la manona. La porta si chiuse dietro di lui con un sibilo.

  Il Conte si sedette sul grande scranno in fondo al vagone, senza proferire parola.

  Il treno sferragliava e rollava nel tunnel buio.

  «E le buone maniere?» brontolò tra sé il Conte. Li guardò con l'occhio fisso. Poi ripeté la frase, con un boato cosi poderoso che Richard poté sentirlo rimbombare nello stomaco, come un colpo di grancassa. «DOVE SONO LE ME BUONE MANIERE?»

  Fece avvicinare uno degli anziani armigeri. «Saranno affamati dopo il viaggio, Dagvard. E pure assetati, senza dubbio.»

  «Si, vostra grazia.»

  «Fermate il treno!» gridò il Conte.

  Le porte si aprirono sibilando e Dagvard si affrettò a raggiun­gere la banchina.

  Richard fece caso alle persone sulla banchina. Nessuna sali sul­la loro carrozza. Nessuna pareva notare qualcosa di strano.

  Dagvard si diresse a un distributore automatico in un angolo. Si tolse l'elmo, quindi batté ritmicamente sul lato della macchina con il guanto di ferro.

  «Ordini del Conte» disse. «Cioccolato.»

  Un ronzio del motorino in fondo alle viscere della macchina, ed ecco che decine di barrette al cioccolato vennero sputate fuori, una dopo l'altra Dagvard le raccolse nell'elmo di metallo.

  Le porte stavano cominciando a richiudersi. Halvard infilò l'im­pugnatura della picca tra le due porte scorrevoli che si aprirono di nuovo e cominciarono a fare apri-chiudi sbattendo contro l'impu­gnatura dell'arma.

  «Si prega di non ostruire il passaggio» disse una voce dall'al­toparlante. «Il treno non può ripartire se le porte non sono tutte chiuse. »

  Il Conte, un po' sbilenco, stava osservando Porta con l'occhio buono.

  «Allora. Cosa ti conduce da me?»

  Lei si inumidì le labbra. «Be', vostra grazia, indirettamente la morte di mio padre.»

  Annui compassato. «Già. Cerchi vendetta. Con ragione, peral­tro.» Tossi, quindi, con tono basso e profondo declamò, «Valoro­sa è la lama che combatte, lampeggia il fuoco furioso, spada d'ac­ciaio affondata nell'odiato cuore, rosso il... il... qualcosa. Già.»

  «Vendetta? Si, è ciò che ha detto mio padre. Ma io voglio solo capire cosa è successo e proteggere la mia persona. La mia fami­glia non aveva nemici.»

  In quel mentre, Dagvard ritornò barcollando sul treno con l'elmo pieno di barrette di cioccolato e di lattine di Coca Cola; le porte poterono chiudersi e il treno riparti.

  Il cappotto era coperto di monet
ine, banconote - e scarpe. Scar­pe calzate da piedi che prendevano a calci i soldi di metallo, schiac­ciavano e strappavano quelli di carta, lacerando la stoffa del cappotto. C'era denaro dappertutto.

  «Lasciatemi solo» implorava Lear. Aveva le spalle contro il muro del sottopassaggio. Lungo il viso colava del sangue, che gli tingeva di rosso la barba. Il sassofono gli pendeva mollemente e goffamente sul petto.

  Era circondato da un piccolo gruppo di persone - più di venti, meno di cinquanta - che si urtavano e si spingevano, una massa irrazionale, gli occhi vuoti e fissi, che lottava e graffiava nel di­sperato tentativo di dare a Lear il proprio denaro.

  Anche sulla parete piastrellata c'era del sangue, nel punto in cui Lear aveva battuto la testa. Lear allungò un braccio per colpire una donna di mezza età con la borsetta spalancata e un pugno di biglietti da cinque che avanzava verso di lui. Nella foga di dargli il denaro, gli graffiò il viso. Lui si girò per evitarla e cadde sul pavi­mento del tunnel.

  Qualcuno gli calpestò la mano. La faccia gli fu spinta in una poltiglia di soldi. Cominciò a singhiozzare, e a inveire.

  «Te l'avevo detto di non abusarne» disse una voce elegante poco lontano. «Birbantello.»

  «Aiutami» rantolò Lear.

  «Be', ci sarebbe un controincantesimo» ammise la voce, quasi riluttante.

  La folla stava premendo sempre più da presso, ora. Il lancio di una moneta da cinquanta pence gli tagliò la guancia. Si acciambel­lò in posizione fetale, abbracciandosi e nascondendo il viso tra le ginocchia.

  «Recitalo, dannazione» disse Lear. «Tutto quello che vuoi... basta che li fai smettere...»

  Il suono di un fischietto sali dolcemente e echeggiò nel sotto­passaggio. Una frase semplice, ripetuta più e più volte, ogni volta leggermente diversa: le variazioni di de Carabas.

  I passi si allontanarono. Strascicati, all'inizio, poi con un certo ritmo. Si allontanavano da lui. Apri gli occhi.

  Il Marchese de Carabas se ne stava appoggiato contro il muro, suonando il fischietto. Quando vide che Lear lo guardava, si tolse il fischietto dalle labbra e lo ripose in una tasca interna. Gettò a Lear un rattoppato fazzoletto di lino bordato di pizzo perché si togliesse il sangue dalla fronte e dal viso.

  «Mi avrebbero ammazzato» disse, con aria accusatoria.

  «Ti avevo avvertito» disse de Carabas. «Ritieniti fortunato che passavo da queste parti.»

  Aiutò Lear a mettersi seduto.

  «Ora» disse de Carabas «penso proprio che tu mi debba un al­tro favore.»

  Lear sollevò il cappotto - strappato, sporco di fango e coperto dalle impronte di tanti piedi - dal pavimento del sottopassaggio. All'improvviso sentiva molto freddo e si avvolse il cappotto a brandelli intorno alle spalle. Monete e banconote caddero a terra, precipitando o svolazzando. Le lasciò dov'erano.

  «Sono stato davvero fortunato o l'hai fatto apposta?»

  Il Marchese sembrava quasi offeso. «Non so proprio come puoi arrivare a pensare una cosa di questo genere.»

  «Perché ti conosco. Ecco come. Allora, di che si tratta stavol­ta? Furto? Incendio? Omicidio?» Lear sembrava rassegnato, e an­che un po' triste.

  De Carabas si allungò verso di lui e si riprese il fazzoletto. «Furto, temo» disse. «Mi trovo nell'urgente necessità di procurar­mi una statuetta della dinastia Tang.»

  Lear rabbrividì. Poi, lentamente, annui.

  A Richard venne data una barretta al cioccolato di quelle pic­cole, del tipo da distributore automatico, e una larga coppa d'ar­gento, decorata intorno al bordo con pietre che gli sembravano zaf­firi. La coppa era piena di Coca Cola.

  «Vorrei proporre un brindisi ai nostri ospiti» disse Tooley, il vecchio giullare. «Una bambina, una guardia, uno sciocco. Possa ognuno di loro ricevere ciò che merita.»

  «Quale sono io?» bisbigliò Richard a Hunter.

  «Lo sciocco, è ovvio» gli bisbigliò di rimando.

  «Ai vecchi tempi» commentò Halvard malinconico, dopo ave­re sorseggiato la Coca Cola, «bevevamo vino. Io preferisco il vino. Non è cosi appiccicoso.»

  «E tutte le macchine vi danno le cose che chiedete?» domandò Richard.

  «Oh, si» rispose il vecchio. «Ascoltano il Conte, capisci? Lui governa il Mondo di Sotto nella metropolitana. Il pezzo con i tre­ni. È signore delle linee Central, Circle, Jubilee, Victoria, Bakerloo - be', tutte tranne, la Underside Line, la linea del Mondo di Sotto.»

  «Cos'è la Underside Line?» chiese Richard.

  Halvard scosse il capo e increspò le labbra.

  Hunter sfiorò la spalla di Richard con le dita. «Ricordi cosa ti ho detto a proposito dei pastori di Shepherd's Bush?»

  «Hai detto che era meglio che non li incontrassi. E che non fa­cessi domande.»

  «Giusto» disse lei. «Ora alla lista di cose che è meglio tu non sappia aggiungi anche la Underside Line.»

  Porta ripercorse il vagone verso di loro. Sorrideva. «Ha deciso di aiutarci» disse. «Venite, l'incontro è in biblioteca.»

  Richard era quasi orgoglioso di se stesso per non avere chiesto «Quale biblioteca?» o sottolineato il fatto che non si può tenere una biblioteca su un treno. Si limitò a seguire Porta in direzione dello scranno del Conte, ora vuoto, poi dietro di esso e attraverso la por­ta di comunicazione che portava in biblioteca.

  Si trattava di un'ampia stanza di pietra con il soffitto molto alto. I muri erano tutti coperti di scaffali. Ogni scaffale era carico di oggetti. C'erano libri, certo, ma i ripiani ospitavano molte altre cose: racchette da tennis, bastoni da hockey, ombrelli, una vanga, un computer portatile, una gamba di legno, svariate tazzine, deci­ne di scarpe, binocoli, un piccolo ceppo, sei burattini, una lampa­da di lava, numerosi CD, dischi (LP, 45 giri, 78 giri), videocasset­te e filmini in superotto, dadi, automobiline giocattolo, dentiere, orologi, torce, quattro gnomi da giardino di misure assortite (due che pescano, uno dall'aria trasognata), pile di giornali, riviste, li­bri di magia per stregoni, sgabelli a tre piedi, una scatola di sigari, un pastore tedesco di plastica con la testa che va su e giù, calzini... La stanza era un piccolo impero di oggetti smarriti.

  «Questo è il suo vero dominio» mormorò Hunter. «Cose per­dute. Cose dimenticate.»

  Incastonate nel muro di pietra c'erano delle finestre. Attraverso di esse Richard poteva scorgere la sferragliante oscurità e le luci fugaci dei tunnel della metropolitana.

  Il Conte era seduto per terra a gambe larghe, intento a dare ca­rezze e grattatine sotto il mento al levriero. Il giullare gli stava a fianco, con aria imbarazzata. Appena li vide, il Conte si rimise in piedi, aggrottando la fronte.

  «Ah. Eccovi qui. Bene, ci deve essere un motivo se vi ho chie­sto di venire, mi tornerà in mente...» Si tirò la barba grigio-rossa, un gesto piccino per un uomo tanto immenso.

  «L'Angelo Islington, vostra grazia» disse educatamente Porta.

  «Oh, si. Tuo padre aveva un sacco di idee, sai. Ha chiesto il mio parere in proposito. Non mi piacciono i cambiamenti. L'ho mandato da Islington.» Si fermò. Socchiuse l'unico occhio. «Te l'avevo già detto?»

  «Si, vostra grazia. E noi, come possiamo andare da Islington?»

  Annui come se la ragazza avesse affermato qualcosa di molto profondo. «Una sola volta per la via rapida. Dopo di che dovrete seguire la strada più lunga. Pericoloso.»

  Con molta pazienza Porta chiese, «E la via rapida sarebbe...?»

  «No, no. Bisogna essere un apritore per utilizzarla. Va bene solo per la famiglia di Portico.» Le appoggiò una manona sulla spalla. Poi la mano sali fino alla guancia. «Meglio che resti qui con me. A riscaldare la notte di un vecchio, eh?» La guardò con oc­chio lascivo e le toccò una ciocca di capelli con le dita avvizzite.

  Hunter fece un passo verso Porta, che le fece un gesto con la mano: no. Non ancora.

  Porta alzò lo sguardo verso il Conte e disse, «Vostra grazia, sono la figlia maggiore di Portico. Come posso raggiungere l'An­gelo Islington?»

  Richard era stupito della capacità di Porta di mantenere la cal­ma di fronte all'ovvia incapacità del Conte
di vincere la battaglia contro il passare del tempo.

  Il Conte strizzò l'unico occhio in un ammiccamento solenne: un vecchio sparviero con la testa piegata da un lato. Poi le tolse la mano dai capelli.

  «Proprio cosi, proprio cosi. La figlia di Portico. Come sta il tuo caro genitore? Bene, mi auguro. Uomo esperto. Brav'uomo.»

  «Come facciamo ad andare dall'Angelo Islington?» chiese Por­ta. Questa volta la sua voce tremava.

  «Hmm? Usate l'Angelus, ovviamente.»

  Richard si trovò a immaginare il Conte sessanta, ottanta, cin­quecento anni prima: un guerriero possente, un astuto stratega, un grande donnaiolo, un buon amico, un nemico implacabile. Da qual­che parte, in quello che vedeva, c'era ancora il relitto di quel gran­de uomo.

  Il Conte armeggiò sugli scaffali, spostando penne, pipe e cer­bottane, piccoli doccioni e foglie morte. Poi, come un vecchio gat­to che inciampa su un topo, afferrò una piccola pergamena arroto­lata e la diede alla ragazza.

  «Ecco, piccina» disse il Conte. «Qui c'è tutto. E suppongo sia meglio che vi facciamo scendere alla vostra fermata.»

  «Ci fate scendere?» chiese Richard. «Dal treno?»

  Il Conte si guardò intorno alla ricerca della fonte del rumore, mise a fuoco l'immagine di Richard e fece un grandioso sorriso. «Oh, quisquilie» tuonò. «Qualunque cosa per la figlia di Portico.»

  Porta teneva stretta in mano la pergamena con aria trionfante.

  Richard si accorse che il treno cominciava a rallentare e lui, Porta e Hunter vennero condotti fuori dalla sala di pietra e di nuo­vo all'interno del vagone.

  Mentre la velocità diminuiva, Richard sbirciò sulla banchina.

  «Scusate, che stazione è?» chiese.

  Il treno si fermò proprio davanti a uno dei cartelli che indicano il nome della stazione: british MUSEUM. In qualche modo era la stranezza che faceva traboccare il vaso. Poteva accettare la faccen­da di Attenzione allo Spazio Vuoto e la Corte del Conte e persino quella strana biblioteca, ma, dannazione, la piantina della metro­politana la conosceva a menadito. E quello era davvero troppo. «Non c'è una stazione del British Museum» disse Richard con fer­mezza.

 

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