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Nessun Dove

Page 13

by Neil Gaiman


  Hunter abbassò lo sguardo verso di lui. Il suo viso pareva inta­gliato in un legno scuro. «Non credo abbia un nome» rispose. «Vi­vono negli spazi vuoti. Ti avevo avvertito.»

  «Io... io non ne avevo mai visto uno prima.»

  «Non facevi parte del Mondo di Sotto, prima» disse Hunter. «Aspetta vicino al muro. È più sicuro.»

  Il Marchese stava controllando l'ora su un grosso orologio d'oro da tasca. Lo ripose nel taschino del panciotto, consultò il foglio che gli aveva dato Lear e annui soddisfatto. «Siamo fortunati» sentenziò. «Il treno per Earl's Court dovrebbe passare tra circa mez­z'ora.»

  «La stazione di Earl's Court non è sulla Central Line» fece no­tare Richard.

  Il Marchese lo guardò, palesemente divertito. «Una mente come la tua è proprio rincuorante, giovanotto» disse. «Non c'è nulla come la totale ignoranza, vero?»

  Il vento cominciò a soffiare. Un treno della metropolitana si fermò alla loro stazione. Persone che scendevano e persone che sa­livano, immerse negli impegni quotidiani. Richard le guardò con invidia.

  «Attenzione allo spazio vuoto tra treno e banchina» intonò una voce registrata. «Non sostare davanti alle porte. Attenzione allo spazio vuoto. »

  Porta diede un'occhiata a Richard. Poi, preoccupata per ciò che aveva visto, gli si avvicinò prendendogli la mano. Era molto palli­do, e il respiro si era fatto rapido e breve.

  «Attenzione allo spazio vuoto tra treno e banchina» tuonò un'al­tra volta la voce registrata.

  «Sto bene» mentì coraggiosamente Richard a nessuno in parti­colare.

  Il pozzo centrale dell'ospedale di mister Croup e mister Vandemar era un luogo freddo, umido e tetro. Dell'erba ispida e disordi­nata cresceva tra scrivanie abbandonate, pneumatici d'auto e pezzi di mobili per ufficio. L'impressione generale offerta da quell'area era che una decina d'anni prima (forse per noia, forse per frustra­zione, forse addirittura come opera d'arte di qualche genere) un gran numero di persone avesse gettato il contenuto dei propri uffi­ci dalle molteplici finestre affacciate là sopra, lasciando poi il tutto a marcire.

  C'erano vetri rotti. Vetri rotti in abbondanza. C'erano anche parecchi materassi. Per qualche ragione non facilmente compren­sibile, e in un momento non meglio identificato, ad alcuni dei suddetti materassi era stato dato fuoco. Nessuno sapeva perché, e a nessuno importava. L'erba, crescendo, aveva attraversato le molle.

  Intorno alla fontana ornamentale che si trovava al centro del pozzo e che da parecchio tempo non era particolarmente ornamen­tale e neppure molto fontana, si era sviluppata una nicchia ecolo­gica completa. Con l'aiuto della pioggia, un tubo dell'acqua incri­nato e sgocciolante li vicino l'aveva trasformata in luogo di ripro­duzione per numerose ranocchie che ci si lasciavano cadere allegramente, esultanti per la mancanza di predatori naturali non alati. A loro volta, corvi, cornacchie e qualche sporadico gabbiano con­sideravano quel posto un self-service di prelibatezze gastronomiche senza gatti e specializzato in rane.

  Lumache si allungavano indolenti sotto le molle dei materassi bruciati; chiocciole lasciavano tracce bavose sui vetri rotti. Grossi scarafaggi neri si affrettavano con aria operosa su telefoni di pla­stica grigia ormai in frantumi e su vecchie bambole Sindy mutilate.

  Mister Croup e mister Vandemar erano saliti fin li per cambia­re aria. Camminavano lentamente lungo il perimetro del cortile centrale, i pezzi di vetro che scricchiolavano sotto i loro piedi. Nei logori completi neri parevano ombre.

  Mister Croup era in preda a una furia ben celata. Camminava due volte più veloce di mister Vandemar, girandogli intorno, quasi danzando al ritmo della propria rabbia. A volte, incapace di tratte­nere l'ira dentro di sé, mister Croup si lanciava contro il muro del­l'ospedale, attaccandolo tìsicamente a calci e pugni, come fosse un indegno sostituto di una persona vera.

  Mister Vandemar, da parte sua, si limitava a camminare. Era una camminata troppo decisa, troppo costante e inesorabile per poter essere definita una passeggiata. La morte cammina come mister Vandemar. Impassibile, mister Vandemar osservava mister Croup prendere a pedate una lastra di vetro appoggiata al muro. Che si frantumò con un fragore di grande soddisfazione.

  «Io, mister Vandemar,» disse mister Croup contemplando i fram­menti «io, per quanto mi riguarda, ne ho già avuto abbastanza. Quasi. Quel rospo sbiancato... agire con cautela, gingillarsi, cinci-schiare, perdere tempo... potrei fargli schizzare gli occhi dalle or­bite con un dito...»

  Mister Vandemar scosse il capo. «Non ancora» disse. «È il no­stro capo. Per questo lavoro. Dopo che ci ha pagati, magari potre­mo divertirci un po' a modo nostro.»

  Mister Croup sputò per terra. «È un inutile stupido intrigante... Dovremmo macellare quella cagna. Annullarla, cancellarla, inu­marla e ammortizzarla.»

  Un telefono cominciò a squillare, forte. Mister Croup e mister Vandemar si guardarono attorno perplessi. Infine mister Vandemar trovò il telefono a metà di una pila di detriti sopra a un pendio formato da cartelle mediche macchiate di pioggia. Il filo tagliato pen­zolava dal ricevitore. Lo prese e lo passò a mister Croup.

  «Per lei» disse.

  A mister Vandemar i telefoni non piacevano.

  «Qui mister Croup» disse Croup. Poi, ossequioso, «Oh, siete voi signore...»

  Una pausa.

  «Al momento, come avevate richiesto, se ne va in giro libera come l'aria. Purtroppo la vostra idea della guardia del corpo è an­data a male come una mela marcia... Varney? Si, è decisamente morto.»

  Un'altra pausa.

  «Signore, comincio ad avere qualche problema concettuale ri­guardo al ruolo svolto da me e dal mio socio in queste birbonate.»

  Ci fu una terza pausa, e mister Croup divenne più pallido del pallido.

  «Poco professionali?» chiese gentilmente. «Noi?»

  Chiuse la mano a pugno e la sbatté, con una certa forza, contro un muro di mattoni. Nel tono di voce però, non si percepì alcun cambiamento, mentre diceva, «Signore, posso con il dovuto rispet­to ricordarvi che mister Vandemar e io abbiamo bruciato fino alle fondamenta la città di Troia? Abbiamo portato la Morte Nera nelle Fiandre. Il nostro ultimo incarico prima di questo è stato torturare a morte un intero monastero nella Toscana del sedicesimo secolo. Noi siamo estremamente professionali.»

  Mister Vandemar, che si era divertito ad acchiappare piccole rane e a vedere quante riusciva a infilarsene in bocca in una sola volta prima di essere costretto a masticare, disse, con la bocca pie­na, «Mi è piaciuto farlo...»

  «Il punto?» chiese mister Croup, dando un colpetto per togliere della polvere immaginaria dal liso completo nero, ignorando del tutto quella vera. «Il punto è che siamo degli assassini. Dei tagliagole. Noi uccidiamo.»

  Ascoltò qualcosa, poi, «Bene, e per quanto riguarda quello del Mondo di Sopra? Perché non possiamo ammazzarlo?» Mister Croup ebbe uno spasmo, sputò di nuovo e prese a calci il muro, mentre se ne stava li in piedi tenendo in mano il telefono mezzo rotto e co­perto di ruggine.

  «Spaventarla? Siamo tagliagole, non spaventapasseri.» Una pausa. Fece un respiro profondo. «Si, capisco, però non mi piace.» Ma la persona all'altro capo del filo aveva riattaccato. Mister Croup diede un'occhiata al telefono. Quindi lo sollevò con una mano e procedette metodicamente a ridurlo in minuscoli frammenti di me­tallo e plastica sbattendolo contro il muro.

  Mister Vandemar passò oltre. Aveva trovato una grossa lumaca nera con la parte inferiore di un bell'arancione brillante, e la stava masticando come fosse un sigaro di liquirizia. La lumaca, che non era molto astuta, stava cercando di strisciare via lungo il mento di mister Vandemar.

  «Chi era?» chiese mister Vandemar.

  «Chi diavolo pensa che fosse?»

  Mister Vandemar masticò meditabondo, poi succhiò la lumaca aspirandola in bocca quasi fosse un blocco di spaghetti scotti, neri e arancione. «Uno spaventapasseri?» azzardò.

  «Il nostro datore di lavoro.»

  «Era la mia seconda ipotesi.»

  «Spaventapasseri» sputò mister Croup, disgustato. Stava pas­sando da
una rabbia rosso-violacea a un grigio e untuoso malumore.

  Mister Vandemar inghiottì il contenuto della bocca e si pulì le labbra sulla manica. «Il modo migliore per spaventare i passeri» disse mister Vandemar «è di scivolargli alle spalle, mettere la mano intorno ai loro sottili colli da passero e stringere finché non si muo­vono più. Questo li spaventa a morte.»

  Quindi tacque, e da lontano, sopra le loro teste, udirono il ru­more di passeri e corvi che volavano lassù, gracchianti di rabbia.

  «Passeri. Corvi. Famiglia dei passeriformi o passeracei. Nome collettivo» intonò mister Croup, assaporando il suono della paro­la: «omicidio.»

  Richard era rimasto ad aspettare contro il muro, vicino a Porta. Lei parlava poco; si mangiava le unghie, passava le mani nei ca­pelli, che si rizzavano in tutte le direzioni, poi cercava di lisciarli di nuovo.

  Indubbiamente non aveva mai conosciuto una persona cosi.

  Quando si accorse di essere osservata, si strinse nelle spalle e ondeggiando sprofondò ulteriormente nei suoi strati di vestiti, nascondendosi nella giacca di pelle. Gli occhi guardavano il mondo da dentro una giacca. L'espressione sul suo viso fece ricordare a Richard un bambino senza casa che aveva visto dietro il Covent Garden l'inverno precedente: non sapeva se fosse maschio o fem­mina. La madre chiedeva l'elemosina, supplicando i passanti di darle del denaro per nutrire il bambino e il neonato che teneva in braccio. Il bambino, invece, fissava il mondo senza domandare nulla, anche se doveva avere freddo e fame. Stava li, fermo, a fis­sare.

  Hunter si avvicinò a Porta, controllando la banchina a destra e a sinistra. Il Marchese aveva detto dove dovevano aspettare e si era allontanato. Da chissà dove, Richard udi il pianto di un bambino.

  Il Marchese scivolò fuori da una porta con scritto 'uscita' e si diresse verso di loro. Stava succhiando una caramella.

  «Divertito?» chiese Richard. Stava arrivando un treno.

  «Faccende di lavoro» rispose il Marchese. Consultò il pezzo di carta e l'orologio. Indicò un punto sulla banchina. «Questo è il tre­no per Earl's Court. Statemi dietro, voi tre.»

  Poi, mentre il treno del metrò - un treno dall'aspetto alquanto banale, notò Richard, deluso - rimbombava e sferragliava entran­do nella stazione, il Marchese si chinò per superare Richard e dire a Porta, «Mia signora? C'è una cosa che forse avrei fatto meglio a menzionare prima.»

  Gli occhi dallo strano colore si volsero verso di lui. «Si?»

  «Be',» disse «il Conte potrebbe non gradire particolarmente la mia visita.»

  Il treno rallentò e si fermò. La carrozza vicino a cui si trovava Richard era completamente vuota: le luci erano spente, era cupa, deserta e buia. Le altre porte del treno si aprirono con un sibilo. Passeggeri salivano e scendevano. Le porte del vagone buio rima­nevano chiuse.

  Con il pugno, il Marchese tamburellò sulla porta un rap ritmico e complicato. Non accadde nulla. Richard si stava già chiedendo se il treno sarebbe ripartito senza prenderli a bordo, quando la porta del vagone venne aperta dall'interno. Da un'apertura di una ventina di centimetri spuntò un viso di vecchio che li osservò incuriosito.

  «Chi bussa?» chiese.

  Attraverso lo spazio tra le porte scorrevoli Richard poteva vedere alte fiamme, gente e fumo. Attraverso il vetro sulle porte stes­se, però, continuava a vedere solo una carrozza buia e vuota.

  «Lady Porta» disse dolcemente il Marchese «e i suoi compagni.»

  La porta si spalancò, ed eccoli giunti alla Corte del Conte, Earl's Court.

  SETTE

  Sparsa sul pavimento c'era della paglia, sopra a uno strato di giunchi. Un bel fuoco di legna ardeva e crepitava in un grande ca­mino. C'erano polli che becchettavano e si aggiravano con aria sussiegosa. C'erano sedili con cuscini ricamati a mano e arazzi che coprivano porte e finestrini.

  Quando il treno sobbalzò per uscire dalla stazione, Richard bar­collò in avanti. Allungò una mano, si aggrappò alla persona più vicina e riuscì a recuperare l'equilibrio.

  La persona più vicina era un vecchio uomo d'armi basso e gri­gio, che, stabili Richard, avrebbe potuto essere scambiato per un impiegato statale da poco in pensione non fosse stato per l'elmet­to, il sorcotto, la cotta di maglia saldata grossolanamente e la lan­cia. Cosi com'era, pareva comunque un impiegato statale da poco in pensione che, del tutto controvoglia, fosse stato costretto a unir­si alla compagnia teatrale amatoriale del quartiere e obbligato a re­citare la parte dell'armigero.

  L'uomo basso e grigio guardò Richard socchiudendo gli occhi miopi e disse, «Scusi.»

  «Colpa mia» rispose Richard.

  «Lo so» ribadì l'omino.

  Un levriero irlandese camminava a passi felpati lungo il corri­doio, per fermarsi a fianco di un suonatore di liuto, che sedeva sul pavimento pizzicando le corde e producendo in maniera discontinua una lieta melodia. Il cane fissò Richard, sbuffò sdegnoso, si sdraiò e si mise a dormire.

  Nell'angolo più lontano del vagone, un anziano falconiere con un falco incappucciato sul polso stava scambiando battute scher­zose con un piccolo crocchio di damigelle, tutte molto vicine alla data di scadenza e alcune scadute da tempo. Ovviamente qualche passeggero guardava i quattro viaggiatori; altri, altrettanto ovvia­mente, li ignoravano.

  Era come se qualcuno avesse preso una piccola corte medieva­le e l'avesse trasportata, per quanto possibile, su una carrozza di un treno della metropolitana, pensò Richard.

  Un araldo si portò la tromba alle labbra e lanciò uno squillo sto­nato. Un immenso uomo anziano, in pantofole e con un'enorme veste da camera foderata di pelo, attraversò traballando la porta di collegamento con il vagone successivo, il braccio appoggiato sulla spalla di un giullare con un logoro abito da buffone.

  L'omone era davvero immenso. Su un occhio portava una ben­da che lo faceva sembrare leggermente disorientato e confuso, come un uccello con un occhio solo. Sulla barba grigio-rossa c'era­no briciole di cibo e dal fondo della logora vestaglia di pelliccia spuntavano quelli che parevano pantaloni di pigiama.

  Questo, pensò correttamente Richard, deve essere il Conte.

  Il giullare del Conte, un uomo anziano con la bocca contratta e il viso dipinto, sembrava essere sfuggito a un'esistenza fatta di ca­ratteri invisibili in fondo alle locandine dei music hall un centinaio di anni prima. Condusse il Conte a uno scranno intagliato nel le­gno che aveva l'aspetto di un trono piuttosto malfermo, dove il Conte si sedette. Il levriere si alzò, percorse la carrozza con passo felpato e si posizionò accanto ai piedi pantofolati del Conte.

  Earl's Court, la Corte del Conte, pensò Richard. Ma certo. Dopo di che iniziò a chiedersi se a Barons Court ci fosse un Baro­ne e a Ravenscourt un Corvo Imperiale e...

  Il piccolo armigero tossi una tosse asmatica e disse, «Allora, voi. Dichiarate il vostro intento!»

  Porta si fece avanti. Teneva la testa ben dritta, e pareva più alta e più a proprio agio di quanto Richard l'avesse mai vista, e disse, «Chiediamo udienza a Sua Grazia il Conte.»

  Dal fondo del vagone il Conte tuonò: «Halvard, cosa ha detto la giovane ragazza?» Richard si chiese se fosse sordo.

  Halvard, l'anziano uomo d'armi, cambiò posizione, mise le mani a coppa intorno alla bocca e strillò, per superare lo sferra­gliare del treno, «Chiedono udienza, vostra grazia.»

  Il Conte spostò da un lato il pesante cappello di pelo e si grattò la testa meditabondo. Sotto il cappello stava diventando calvo. «Davvero? Un'udienza? Che meraviglia. E chi sono, Halvard?»

  Halvard tornò a rivolgersi a loro. «Vuole sapere chi siete. Fate­la breve, comunque. Non dilungatevi.»

  «Sono Lady Porta» annunciò Porta. «Lord Portico era mio padre.»

  Sentendo questo, il Conte si illuminò, si chinò in avanti e sbir­ciò attraverso il fumo con l'unico occhio buono. «Ha detto di es­sere la figlia maggiore di Portico?» chiese al buffone.

  «Si, vostra grazia.»

  Il Conte fece cenno a Porta di avvicinarsi. «Vieni qui» disse. «Vieni-vieni-vieni. Lasciati guardare.» Avanzò lungo il corridoio, afferrando le grosse manig
lie di corda che pendevano dal soffitto per mantenere l'equilibrio mentre camminava. Davanti allo scranno di legno del Conte fece la riverenza. Lui si grattò la barba e si mise a fissarla.

  «Siamo stati tutti sopraffatti dal dolore alla notizia della sfortu­nata...» cominciò il Conte, poi si interruppe e disse: «Tuo padre... be', tutta la tua famiglia, è stato...» La voce si affievolì, quindi continuò, «Sai che avevo per lui la massima stima e rispetto, ab­biamo fatto qualche affare insieme... Buon vecchio Portico... pie­no di idee...» Si fermò. Diede un colpetto sulla spalla del giullare e sussurrò, con un querulo boato, abbastanza potente da superare con facilità il rumore del treno, «Va' e facci divertire, Tooley. Guada­gnati la pagnotta.»

  Il buffone trotterellò lungo il corridoio con una smorfia artritica e una boccaccia reumatica. Si fermò di fronte a Richard.

  «E tu chi saresti?» chiese.

  «Io?» fece Richard. «Hmm. Io? Il mio nome? Be', è Richard. Richard Mayhew.»

  «Io?» squitti il Buffone, in un'anziana e alquanto teatrale imi­tazione dell'accento scozzese di Richard. «Io? Hmm. Io? Oh, zietto! Questo non è un uomo, ma un citrullo con il gonnellino!»

  I cortigiani ridacchiarono poco interessati.

  «E io» disse de Carabas al giullare, con un sorriso accecante, «sono il Marchese de Carabas.»

  Il buffone strizzò gli occhi.

  «De Carabas il ladro?» chiese. «De Carabas il dissotterratore di cadaveri? De Carabas il traditore?» Si rivolse ai cortigiani intorno a loro. «Ma questo non può essere de Carabas! Perché? Perché de Carabas è stato bandito dalla presenza del Conte molto tempo fa. Forse si tratta piuttosto di una faina troppo cresciuta.»

  I cortigiani ridacchiarono, a disagio, questa volta, e iniziò a pro­pagarsi il sordo brusio di una conversazione preoccupata. Il Conte non disse nulla, ma strinse con forza le labbra e cominciò a tremare.

  «Mi chiamo Hunter» disse Hunter al giullare.

  Al che i cortigiani tacquero. Il giullare apri la bocca come stes­se per dire qualcosa, la guardò e richiuse la bocca.

 

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