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Nessun Dove

Page 18

by Neil Gaiman


  Richard non credeva agli angeli. Non aveva mai creduto agli angeli, e, dannazione, non avrebbe certo cominciato ora. Tuttavia, è molto più facile non credere a qualcosa quando non ti sta guar­dando dritto in faccia, chiamandoti per nome.

  «Richard Mayhew» disse. «Anche tu sei il benvenuto qui, nei miei saloni.»

  Si voltò. «Vi prego,» disse «seguitemi.»

  Richard e Porta seguirono l'angelo. Le candele si spegnevano da sole al loro passaggio.

  Il Marchese de Carabas attraversò a grandi passi l'ospedale vuoto, facendo scricchiolare vetri rotti e vecchie siringhe sotto la punta quadrata degli stivali neri da motociclista.

  Attraversò una doppia porta che conduceva a una scala sul re­tro. Scese i gradini.

  Attraversò i tunnel sotterranei dell'edificio, muovendosi con un po' di fastidio intorno ai mucchi di immondizia in disfacimento. Attraversò le docce e i bagni, scese una vecchia scaletta di ferro che portava a una zona paludosa, quindi apri una porta di legno mezza marcia e entrò.

  Si guardò intorno, ispezionando con disprezzo il gattino man­giato a metà e la pila di lamette da barba.

  Poi rimosse i detriti da una sedia e si mise comodamente a se­dere, nella lussuosa umidità dello scantinato, e chiuse gli occhi.

  Finalmente la porta della stanza venne aperta, e qualcuno entrò.

  Il Marchese de Carabas apri gli occhi e sbadigliò. Poi illuminò mister Croup e mister Vandemar con un largo sorriso.

  «Salve, ragazzi» disse de Carabas. «Pensavo fosse arrivato il momento di venire qui giù a parlarvi di persona.»

  DIECI

  «Bevete vino?» domandò.

  Richard annuì.

  «Ho bevuto del vino solo poche volte» disse Porta. «Mio pa­dre. Lui a cena ci permetteva di assaggiarlo.»

  L'Angelo Islington sollevò la bottiglia. Pareva una sorta di ca­raffa da decantazione. Richard si chiese se fosse di vetro, poiché rifrangeva e rifletteva la luce delle candele in modo molto insolito. Forse si trattava di un cristallo, o di un unico gigantesco diamante. Dava addirittura l'impressione che il vino all'interno brillasse, come fosse fatto di luce.

  L'angelo tolse la parte superiore del cristallo e versò due dita del liquido in esso contenuto in un bicchiere da vino. Era vino bianco, ma di un tipo che Richard non aveva mai visto. Spargeva luce all'intorno, come i raggi del sole su una piscina.

  Porta e Richard si sedettero a un tavolo di legno annerito dal tempo, su enormi sedie di legno, senza proferire parola.

  «Si tratta» spiegò Islington «dell'ultima bottiglia di questo vino. Uno dei tuoi antenati me ne aveva donate una dozzina.»

  Porse il bicchiere a Porta, e cominciò a versare altre due dita di quel vino luminoso dalla caraffa in un secondo bicchiere. Agiva con reverenza, quasi con amore, come un sacerdote che esegue un rituale.

  «Si trattava di un regalo di benvenuto. Erano, oh, trenta, qua­rantamila anni fa. Parecchio tempo, comunque.»

  Passò il vino a Richard.

  «Immagino mi accuserete di sperperare qualcosa che dovrei in­vece tenere in gran conto» disse l'angelo. «Ma ricevo ospiti cosi di rado. E la via per giungere fin qui è molto difficile.»

  «L'Angelus...» mormorò Porta.

  «Voi siete arrivati qui adoperando l'Angelus, certo. Ma è una strada che ogni viaggiatore può percorrere una sola volta.» L'an­gelo sollevò in alto il suo bicchiere, fissando la luce. «Bevete pia­no» li ammonì. «È incredibilmente forte.» Si sedette al tavolo, tra Richard e Porta. «Quando lo si assaggia» disse pensoso «è come immaginare di gustare realmente il sole dei tempi che furono.» Alzò il bicchiere. «Un brindisi: alle glorie passate.»

  «Alle glorie passate» ripeterono in coro Richard e Porta. Poi, con un po' di cautela, assaggiarono il vino, sorseggiando, non be­vendo.

  «È stupefacente» disse Porta.

  «Davvero» concordò Richard. «Pensavo che il vino vecchio diventasse aceto se esposto all'aria.»

  L'angelo scosse il capo. «Non questo. È per il tipo di vite e per il luogo in cui è cresciuta. Purtroppo tutto il vitigno è stato distrut­to quando la vigna è scomparsa tra le onde.»

  «È magico» disse Porta, sorseggiando la luce liquida. «Non avevo mai assaggiato niente di simile.»

  «E non l'assaggerai mai più» disse Islington. «Non è rimasto altro vino di Atlantide.»

  Richard apri la bocca per dire al padrone di casa che Atlantide non è mai esistita, ma si rese conto che neppure gli angeli esiste­vano, e comunque la maggior parte delle cose che gli erano accadute negli ultimi giorni era impossibile, quindi richiuse la bocca e gustò un altro sorso di vino.

  Lo faceva sentire felice. Lo faceva pensare a cieli più vasti e più azzurri di quanto avesse mai visto, con un sole dorato appeso proprio nel mezzo; tutto era più semplice, tutto più giovane rispet­to al mondo che conosceva.

  Alla loro sinistra c'era una cascata; limpide acque che scende­vano veloci dai sassi per raccogliersi nello stagno scavato nella roccia. Sulla destra, tra due piloni di ferro, c'era una porta, costrui­ta con silice liscia posta in una cornice di metallo ormai quasi nera.

  «Pretendi davvero di essere un angelo?» chiese Richard. «Voglio dire, hai veramente incontrato Dio e tutto il resto?»

  Islington sorrise, tollerante. «Io non pretendo nulla, Richard. Però sono un angelo.»

  «E ci fai un grande onore» disse Porta.

  «No. Siete stati voi a farmi un onore ben più grande venendo qui. Tuo padre era un brav'uomo, Porta, e per me un vero amico. La sua morte mi ha profondamente rattristato.»

  «Ha detto... nel suo diario... ha detto che dovevo venire da te. Ha detto che potevo fidarmi di te.»

  «Spero soltanto di essere degno di tale fiducia.» L'angelo sor­seggiò il suo vino. «Londra Sotto è la seconda città di cui mi sono preso cura. La prima è affondata tra le onde, e non c'era nulla che potessi fare per evitarlo. So cosa significa il dolore, e la perdita. Ti faccio le mie condoglianze. Cosa vorresti sapere?»

  Porta esitò un istante. «La mia famiglia... sono stati uccisi da mister Croup e mister Vandemar. Ma - chi l'ha ordinato? Voglio... voglio sapere perché.»

  L'angelo annui. «Molti segreti trovano il modo di arrivare fino a me» disse. Poi si rivolse a Richard. «E tu? Tu cosa vuoi, Richard Mayew?»

  Richard si strinse nelle spalle. «Rivoglio la mia vita. E il mio appartamento. E il mio lavoro.»

  «Questo può accadere» disse l'angelo.

  «Già. Bene» commentò Richard con tono piatto.

  «Dubiti di me, Richard Mayhew?» chiese l'Angelo Islington. Richard lo guardò negli occhi. Si trovò a fissare occhi antichi come l'universo: occhi che avevano visto la polvere di stelle condensarsi in galassie.

  Scosse il capo.

  Islington gli sorrise, con dolcezza. «Non sarà semplice, e tu e i tuoi compagni affronterete alcune difficoltà. Ma c'è una via possi­bile. La chiave per risolvere entrambi i vostri problemi.» Si alzò, raggiunse un piccolo scaffale di roccia e prese una statuina, una tra le tante sui ripiani. Era una statuetta nera raffigurante un ani­male, fatta di vetro vulcanico. L'angelo la offri a Porta.

  «Questa vi farà superare sani e salvi l'ultima parte del viaggio che vi ricondurrà qui da me» disse. «Il resto spetta a voi.»

  «Cosa vuole che facciamo?» domandò Richard.

  «I Frati Neri custodiscono una chiave, portatemela.»

  «E la puoi usare per scoprire chi ha fatto uccidere la mia fami­glia?» chiese Porta.

  «Lo spero» rispose l'angelo.

  Richard fini il suo bicchiere di vino. Sentiva che lo riscaldava, mentre gli scendeva in tutto il corpo. Aveva la strana sensazione che se avesse abbassato gli occhi a guardarsi le dita avrebbe potu­to vedere il vino brillare attraverso di esse, come fossero fatte di luce...

  «Buona fortuna» sussurrò l'Angelo Islington.

  Si udì un rumore impetuoso, come di vento che geme attraver­sando una foresta distrutta, o come il battito di ali possenti.

  Richard e Porta erano seduti sul pavimen
to in una sala del British Museum a fissare il dipinto intagliato di un angelo sul portale di una cattedrale.

  La stanza era buia e vuota.

  La festa era finita da molto tempo. Fuori, il cielo cominciava a rischiarare.

  Richard si alzò, poi si chinò per aiutare Porta ad alzarsi. «I Fra­ti Neri, Blackfriars?» chiese.

  Porta annui.

  «Persone o posto?» chiese ancora.

  «Persone.»

  Richard si diresse verso l'Angelus e con un dito ne sfiorò l'abi­to dipinto. «Pensi possa farlo davvero? Ridarmi la mia vita?»

  «Non ho mai sentito che sia capitata una cosa del genere, ma non credo che ci avrebbe mentito. È un angelo.»

  Porta apri la mano e osservò la statua della Bestia.

  «Mio padre ne aveva una uguale» disse.

  La ficcò bene in fondo a una delle tasche della giacca di pelle marrone.

  «Be',» fece Richard «di certo non riporteremo indietro la chia­ve se ce ne stiamo qui a cincischiare, giusto?»

  Si avviarono per i lunghi corridoi.

  «Allora, cosa sai di questa chiave?» chiese Richard.

  «Nulla» rispose Porta. Avevano raggiunto l'ingresso principale del museo. «Ho sentito parlare dei Frati Neri, ma in realtà non ho mai avuto niente a che fare con loro.»

  Toccò una porta a vetri, che si apri immediatamente.

  «Un gruppo di monaci...» disse Richard, soprappensiero. «Scom­metto che basta dire che è per un angelo, per un angelo vero, per­ché ci diano la sacra chiave, oltre ad aggiungere l'apriscatole ma­gico e lo stupefacente cavatappi che fischia come regalo extra.» Cominciò a ridere.

  «Sei di buon umore» commentò Porta.

  Richard annui convinto. «Sto per andare a casa. Tutto tornerà di nuovo normale. Di nuovo noioso. Di nuovo meraviglioso.»

  Dopo un'occhiata ai gradini di pietra del British Museum, Ri­chard decise che erano stati creati apposta per essere discesi dan­zando da Fred Astaire e Ginger Rogers. E visto che nessuno dei due si trovava nei paraggi, cominciò a ballare scendendo la scali­nata, in quella che ingenuamente immaginava essere una superla­tiva interpretazione di Fred Astaire, mentre canticchiava qualcosa a metà tra Puttin' on the Ritz e Wombling White Tie and Tails.

  Porta rimase ferma in cima alle scale, fissandolo inorridita. Poi fu preda di un'inarrestabile ridarella.

  Lui alzò lo sguardo verso di lei e sollevò un immaginario cilin­dro di seta bianca nella sua direzione.

  «Sciocco» disse Porta sorridendo.

  Per tutta risposta, Richard le afferrò la mano e continuò a dan­zare su e giù per gli scalini. Porta esitò un attimo, quindi anche lei si mise a ballare. E ballava decisamente molto meglio di Richard.

  In fondo alla scalinata ruzzolarono, senza fiato, esausti e ridac­chianti, uno nelle braccia dell'altra.

  Il mondo di Richard girava vorticosamente.

  «Andiamo a cercare la nostra guardia del corpo» disse Porta.

  E si allontanarono insieme, sul marciapiede, incespicando di quando in quando.

  «Cosa vuoi?» domandò mister Croup.

  «Cosa vogliamo tutti?» domandò il Marchese de Carabas.

  «Cose morte» rispose mister Vandemar. «Altri denti.»

  «Pensavo che forse avremmo potuto trovare un accordo» disse il Marchese.

  Mister Croup cominciò a ridere. Il suono era quello di una lavagna fatta strisciare contro un muro di unghie spezzate. «Oh, messer Marchese. Penso di poter baldanzosamente affermare, sen­za tema di smentita da parte di alcuno dei presenti, che hai perso il bene di quell'intelletto che avevi la reputazione di avere. Se mi scusi la volgarità, direi che sei completamente fuori di testa.»

  «Una parola,» disse mister Vandemar, che ora stava in piedi accanto alla sedia del Marchese, «e il collo sarà fuori dalla testa prima che possiate dire Jack Ketch.»

  Il Marchese si soffiò con forza sulle unghie e se le lucido sul risvolto del trench. «Ho sempre ritenuto» disse in confidenza «che la violenza fosse l'ultimo rifugio degli incompetenti, e le vuote mi­nacce il santuario finale degli inetti senza speranza.»

  Mister Croup lo guardava, furioso. «Che ci sei venuto a fare, qui?» sibilò.

  Il Marchese de Carabas si allungò come un grosso felino: una lince, forse, o una gigantesca pantera nera. Al termine dell'allun­gamento era in piedi, le mani affondate nelle tasche.

  «Mi è dato di capire» disse con tono colloquiale «che tu, mister Croup, sei un collezionista di statuine della dinastia Tang.»

  «Come fai a saperlo?»

  «La gente mi racconta delle cose. Sono un tipo affabile.» Il sor­riso del Marchese era puro, sereno, schietto: il sorriso di un uomo che ti sta vendendo per nuova un'auto usata.

  «Anche se lo fossi...» cominciò mister Croup.

  «Se tu lo fossi,» interloquì il Marchese de Carabas «potresti essere interessato a questa.»

  Estrasse di tasca una mano e ne mostrò il contenuto a mister Croup.

  Fino a poco prima, quella sera, si trovava in un contenitore di vetro nella cassaforte di una delle principali banche d'affari di Londra. Era nota come 'Lo spirito d'autunno (figurina tombale)'. Era alta circa venti centimetri: un pezzo di porcellana vetriata. Era stata modellata, dipinta e cotta mentre l'Europa viveva i secoli bui dell'alto Medioevo.

  Mister Croup emise involontariamente un sibilo e allungò la mano verso la statuina. Il Marchese la mise fuori portata, stringen­dosela al petto.

  «Cosa ci impedisce di prenderla? E di spargere pezzetti di te in tutto il Mondo di Sotto?» chiese mister Croup. «Non abbiamo mai avuto occasione di smembrare un marchese.»

  «L'abbiamo avuta» intervenne mister Vandemar. «A York. Nel quattordicesimo secolo. Pioveva.»

  «Non era un marchese» disse mister Croup. «Era il conte di Exeter.»

  «E marchese di Westmorland.» Mister Vandemar pareva al­quanto soddisfatto di sé.

  Mister Croup tirò su col naso. «Cosa ci impedisce di ridurre anche te in tanti pezzi come il marchese di Westmorland?» chiese.

  De Carabas tolse di tasca anche l'altra mano. Teneva stretto un piccolo martello. Lanciò il martello in aria, come un barista in un video sulla preparazione dei cocktail, e lo afferrò per il manico, con la parte in ferro appoggiata sulla figurina di porcellana. «Oh, per favore» disse. «Basta con i trucchetti cretini. Penso che mi sen­tirei meglio se rimaneste tutti e due laggiù.»

  Mister Vandemar lanciò un'occhiata a mister Croup, che fece un cenno di assenso quasi impercettibile. L'aria tremò, e mister Vandemar era accanto a mister Croup.

  Mister Croup sorrise come un teschio. «In effetti è vero che sono noto per avere occasionalmente acquistato qualche pezzo Tang. Quello è in vendita?»

  «Nel Mondo di Sotto non siamo molto portati per la compra­vendita, mister Croup. Baratto. Scambio. Ecco quello che cerchia­mo. Comunque si, certo, questo desiderabile oggettino è sicura­mente qui per essere arraffato.»

  «Di' il tuo prezzo» disse mister Croup.

  Il Marchese fece un sospiro di sollievo. «Primo, tre risposte a tre domande» disse.

  Croup annui. «Reciproco. Anche noi otteniamo tre risposte.»

  «D'accordo» disse il Marchese. «Secondo, un salvacondotto per andarmene da qui. E accettate di darmi almeno un'ora di vantaggio.»

  Croup annuì con foga. «Concesso. Fai la tua prima domanda.» Il suo sguardo era fisso sulla statuina.

  «Prima domanda: per chi lavorate?»

  «Oh, questa è facile» disse mister Croup. «È una risposta sem­plice. Lavoriamo per il nostro principale, che desidera restare ano­nimo.»

  «Hmm. Perché avete ucciso la famiglia di Porta?»

  «Ordini del principale» rispose mister Croup, il cui sorriso di­ventava più volpino di minuto in minuto.

  «Perché non avete ucciso Porta quando ne avete avuto l'occa­sione?»

  Prima che mister Croup potesse rispondere, mister Vandemar disse, «Dobbiamo tenerla in vita. È l'unica che può aprire la porta.»

  Mister Croup lanciò un'o
cchiata furiosa al suo socio. «Bravo!» disse. «Perché non gli racconta tutto?»

  «Volevo partecipare anch'io» mormorò mister Vandemar.

  «Bene» disse mister Croup. «Hai avuto le tue tre risposte, per quello che ti possono servire. La mia prima domanda è: perché la stai proteggendo?»

  «Suo padre mi ha salvato la vita» rispose il Marchese. «Non gli ho mai ripagato il debito. E io preferisco avere crediti, piuttosto.»

  «Ho una domanda» intervenne mister Vandemar.

  «Anch'io, mister Vandemar. Quello del Mondo di Sopra, Ri­chard Mayhew, perché viaggia con la ragazza? Perché glielo per­mette?»

  «È solo sentimentalismo, da parte sua» spiegò il Marchese de Carabas.

  «Adesso io» disse mister Vandemar. «A che numero sto pen­sando?»

  «Come, scusa?»

  «A che numero sto pensando?» ripeté mister Vandemar. E, per aiutare ulteriormente, aggiunse, «È tra uno e un sacco.»

  «Sette» rispose il Marchese.

  Mister Vandemar annui, molto colpito.

  Mister Croup cominciò, «Dov'è la...» ma il Marchese scosse il capo. «Ah-ah» disse. «Stiamo diventando ingordi!»

  Nello scantinato umido ci fu un momento di assoluto silenzio. Poi l'acqua prese a colare e i vermi a strisciare, e il Marchese dis­se, «Un'ora di vantaggio, ricordatevelo.»

  «Naturalmente» disse mister Croup.

  Il Marchese de Carabas lanciò la figurina a mister Croup, che l'afferrò con impazienza, come un tossicodipendente che afferri una bustina di plastica piena di una polverina bianca di dubbia legalità.

  Poi, senza voltarsi indietro, il Marchese lasciò il sotterraneo.

  Mister Croup esaminò minuziosamente la statuetta, girandola e rigirandola tra le mani, come un prete dickensiano appartenente alla chiesa della Mostra itinerante dell'antiquariato. Di quando in quando la lingua gli sporgeva tra le labbra, simile a quella di un serpente.

  «Oh, bella, bella» sussurrava. «È davvero della dinastia Tang. Vecchia di milleduecento anni, le più raffinate figurine di porcel­lana mai realizzate su questa terra. Questa è stata creata da Kai Lung, il migliore dei ceramisti: non ne esiste un'altra uguale. Esa­mini il colore della vetrina; il senso delle proporzioni; la vita...» Sorrideva, ora, come un bambino; il sorriso innocente sembrava perso e confuso sull'ambiguo terreno della faccia di mister Croup. «Regala al mondo un tocco in più di meraviglia e di bellezza.»

 

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