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Nessun Dove

Page 19

by Neil Gaiman


  Quindi la bocca gli si allargò in un ghigno eccessivo, abbassò la faccia verso la figurina e ne frantumò la testa tra i denti, mor­dendo e masticando selvaggiamente, inghiottendo pezzo dopo pezzo. I denti avevano ridotto la porcellana a una polvere sottile che gli ricopriva la parte inferiore del viso.

  Si compiaceva di quella distruzione, e le dedicava la strana follia e l'incontrollabile brama sanguinaria di una volpe in un pollaio.

  Poi, quando non rimase altro che polvere, si rivolse a mister Vandemar. Sembrava insolitamente mite, quasi languido. «Quanto tempo abbiamo detto che gli concedevamo?»

  «Un'ora.»

  «Hmm. E quanto è trascorso?»

  «Sei minuti.»

  Mister Croup abbassò la testa e si passò un dito sul mento, che leccò per non sprecare neppure una piccola parte della polvere di porcellana.

  «Lo segua, mister Vandemar» disse mister Croup. «Io ho biso­gno di qualche altro minuto per assaporare il momento.»

  Hunter senti il rumore dei loro passi mentre scendevano le sca­le. Era in piedi nell'ombra, a braccia incrociate, nella stessa posi­zione in cui si trovava quando l'avevano lasciata.

  Richard canterellava a bocca chiusa, in modo enfatico.

  Porta non riusciva a smettere di ridacchiare. Si fermava e diceva a Richard di stare zitto. Per ricominciare subito a ridacchiare.

  Passarono davanti a Hunter senza accorgersene.

  Lei usci dall'ombra e disse, «Siete stati via otto ore.» Era un'af­fermazione del tutto priva di biasimo o di curiosità.

  Porta la guardò di sottecchi. «Non mi è sembrato cosi tanto.»

  Hunter non commentò.

  Richard le fece un largo sorriso un po' offuscato. «Non vuoi saper cos'è successo? Be', mister Croup e mister Vandemar ci han­no teso un'imboscata. Purtroppo non avevamo una guardia del corpo a portata di mano, ma gliel'ho fatta vedere io.»

  Hunter inarcò un sopracciglio perfetto. «Mi sento in soggezio­ne davanti al tuo talento pugilistico» disse con freddezza.

  Porta sogghignò. «Sta scherzando. In realtà - ci hanno uccisi.»

  «In quanto esperta nella terminazione delle funzioni organiche vitali» disse Hunter «mi permetto di non essere d'accordo. Nessu­no di voi è morto. A occhio e croce direi che siete entrambi molto ubriachi.»

  Porta fece la linguaccia alla sua guardia del corpo. «Stupidag­gini. Ne ho toccata appena una goccia. Tanto così.»

  Allungò due dita per mostrare che quantità infinitesimale fosse «tanto cosi.»

  «Siamo solo andati a una festa» spiegò Richard «e abbiamo vi­sto Jessica e abbiamo visto un vero angelo e ci hanno dato un porcello pazzerello tutto nero e cicciottello e siamo tornati qui.»

  «Abbiamo bevuto pochissimo» continuò Porta, tutta seria. «Un vino vecchio vecchio. Pochiiino pochiiino. Proprio poco. Quasi niente.»

  Cominciò ad avere il singhiozzo. Poi si mise di nuovo a ridac­chiare. Fu interrotta da un singhiozzo e si sedette di colpo sulla banchina.

  «Penso che forse siamo un po' sbronzi» ammise Porta, già più sobria. .

  Quindi chiuse gli occhi e iniziò solennemente a russare.

  Il Marchese de Carabas correva lungo le strade sotterranee come se avesse alle calcagna tutti i diavoli dell'inferno. Avanzava sguaz­zando nei quindici grigi centimetri del fiume Tyburn, il fiume del­l'impiccato, al sicuro nell'oscurità di una fognatura di mattoni sotto Park Lane, alla volta di Buckingham Palace. Aveva corso per diciassette minuti.

  Circa un metro al di sotto di Marble Arch si fermò. La fognatu­ra si divideva in due diramazioni.

  Il Marchese de Carabas scelse quella a sinistra.

  Parecchi minuti più tardi, mister Vandemar si incamminava nella fognatura. Raggiunto il punto di confluenza, si fermò per qualche istante, annusando l'aria. Poi, anche lui prese la diramazione di sinistra.

  Con un grugnito, Hunter lasciò cadere il corpo inanimato di Richard Mayhew su un cumulo di paglia. Lui si rotolò nella pa­glia, disse qualcosa che suonava come «Forsta griugli brufluf paf» e si rimise a dormire.

  Accanto a lui adagiò anche Porta, ma più gentilmente. Poi si accovacciò vicino alla ragazza, nella buia scuderia sotterranea, sempre all'erta.

  Il Marchese de Carabas era esausto. Si appoggiò contro il muro del tunnel a fissare i gradini che gli si paravano davanti. Quindi estrasse l'orologio da taschino d'oro e controllò l'ora. Erano pas­sati trentacinque minuti dal momento in cui aveva lasciato lo scan­tinato dell'ospedale.

  «È già un'ora?» chiese mister Vandemar.

  Era seduto sui gradini di fronte al Marchese, e si esplorava le narici con un coltello.

  «Neanche per sogno» disse il Marchese con il fiato corto.

  «Sembrava un'ora» disse mister Vandemar.

  Il mondo tremò, ed ecco mister Croup accanto al Marchese de Carabas. Gli era rimasta ancora qualche traccia di polvere sul mento.

  De Carabas fissò mister Croup. Si voltò a guardare mister Van­demar. Poi, involontariamente, scoppiò a ridere.

  Mister Croup sorrise. «Ci trovi buffi, vero messer Marchese? Una fonte di divertimento. Non è cosi? Con i nostri bei vestiti e le nostre involute circumlocuzioni...»

  Mister Vandemar mormorò «Io non ce l'ho una circumlo...»

  «... E le nostre sciocchezzuole nelle maniere e nei modi. E for­se siamo buffi.» In quel momento mister Croup sollevò un dito e lo agitò verso de Carabas. «Ma, messer Marchese, non devi mai credere che solo perché una cosa è buffa non possa anche essere pericolosa.»

  E mister Vandemar lanciò con forza e accuratezza il coltello contro il Marchese, che fu colpito alla tempia con il manico. Gli si rivoltarono gli occhi, e le ginocchia cedettero.

  «Circumlocuzione» spiegò mister Croup «è un modo di parlare intorno a qualcosa. Una digressione. Verbosità.»

  Mister Vandemar sollevò il Marchese de Carabas afferrandolo per la cintura e lo trascinò su per le scale, la testa che sbatacchiava rumorosamente contro ogni scalino.

  Mister Vandemar fece un cenno di assenso. «Ero curioso» disse.

  Sapeva che li stava aspettando. Ogni tunnel che percorreva, ogni svolta, ogni diramazione, la percezione cresceva, sempre più pressante e più pesante. La sensazione di catastrofe imminente aumentava a ogni passo.

  Avrebbe dovuto sentirsi sollevato quando aveva svoltato l'ulti­mo angolo e l'aveva vista là, in piedi, incorniciata dal tunnel, ad attenderlo. Invece, provò soltanto paura.

  Nel sogno era grande come il mondo. Non c'era altro che la Bestia, dai fianchi fumanti. Dalla sua pelle spuntavano lance spez­zate e frammenti di vecchie armi. Sulle corna e sulle zanne c'era del sangue rappreso. Era grassa, enorme e cattiva.

  E la Bestia caricò.

  Sollevò la mano (ma non era la sua mano) e scagliò la lancia contro la creatura.

  Vide i suoi occhi, rossi, maligni e gongolanti, che fluttuavano verso di lui, il tutto in una frazione di secondo che divenne una minuscola eternità. E poi fu su di lui...

  L'acqua era fredda, e colpi il viso di Richard come uno schiaf­fo. Spalancò gli occhi e trattenne il respiro.

  Hunter lo guardava dall'alto in basso. Teneva in mano un gros­so secchiello di legno. Vuoto.

  Allungò una mano e constatò di avere i capelli zuppi. Si tolse l'acqua dagli occhi e rabbrividì.

  «Non c'era bisogno che lo facessi» disse Richard. Dal sapore che aveva in bocca pareva che numerosi animaletti l'avessero usata come gabinetto, prima di liquefarsi in qualcosa di vagamente verdognolo. Cercò di mettersi in piedi, ma si risedette di colpo. «Ooh!» spiegò.

  «Come va la testa?» chiese Hunter con tono professionale.

  «È stata meglio» rispose Richard.

  Hunter prese un altro secchiello di legno, questa volta pieno d'acqua, e lo trascinò sul pavimento della scuderia. «Non so cosa avete bevuto,» disse «ma doveva essere molto potente.»

  Hunter tuffò la mano nel secchiello e la agitò davanti al viso di Porta, spruzzandolo d'acqua. Gli occhi della ragazza sbatterono leggermente.

  «Non c
'è da meravigliarsi che Atlantide sia affondata» borbot­tò Richard. «Se la mattina si sentivano tutti cosi, con ogni proba­bilità è stato un sollievo. Dove siamo?»

  Hunter spruzzò dell'altra acqua sul viso di Porta. «Nelle scude­rie di un'amica» rispose.

  Richard si guardò attorno. In effetti il luogo poteva avere l'aspet­to di una scuderia. Si chiese dove fossero i cavalli - che tipo di cavalli potrebbe vivere sottoterra? Sul muro era dipinto uno stem­ma: la lettera S (o si trattava forse di un serpente? Richard non era in grado di stabilirlo) circondata da un cerchio formato da sette stelle.

  Porta allungò una mano incerta verso la propria testa e la toccò con circospezione, quasi non fosse sicura di cosa avrebbe trovato. «Ooh» disse in un sussurro o poco più. «Per Temple e Arch! Sono morta?»

  «No» rispose Hunter.

  «Peccato.»

  Hunter la aiutò ad assumere una posizione eretta. «Be',» com­mentò Porta insonnolita «ci aveva avvertiti che era forte.»

  Poi Porta si svegliò completamente, di colpo, in fretta. Afferrò la spalla di Richard e puntò il dito verso lo stemma sul muro, la S sinuosa come un serpente circondata di stelle. Rimase senza fiato, e sembrava in tutto e per tutto un topo che si è appena accorto di essersi svegliato in un allevamento di gatti.

  «Serpentine!» disse a Richard, a Hunter. «È il cimiero di Ser­pentine. Richard, alzati! Dobbiamo scappare - prima che scopra che siamo qui...»

  «E tu pensi» disse una voce asciutta dalla soglia «di poter entrare nella casa di Serpentine senza che Serpentine lo sappia, bambina?»

  Porta indietreggiò contro il legno che copriva i muri della scu­deria. Tremava. Nonostante il martellamento che aveva in testa, Richard si rese conto di non aver mai visto Porta spaventata, finora.

  Serpentine era rimasta sulla soglia. Indossava un corsetto di pelle bianca, alti stivali di pelle dello stesso colore e i resti di quel­lo che sembrava essere stato, tanto tempo prima, un vestito da spo­sa in seta e pizzo decisamente fru fru, e che ora era ridotto a bran­delli, strappato e macchiato di fango. Torreggiava su tutti loro: la folta e arruffata massa di capelli che cominciavano a ingrigire sfio­rava l'architrave della porta. Aveva occhi penetranti, e la bocca era uno squarcio crudele su un volto autoritario.

  Guardò Porta come se pensasse che il terrore le fosse dovuto, come se non fosse solo avvezza alla paura, ma se l'aspettasse, ad­dirittura la desiderasse.

  «Calmati» disse Hunter.

  «Ma è Serpentine» piagnucolò Porta. «Delle Sette Sorelle.»

  Serpentine inclinò cortesemente il capo. Poi si allontanò dalla soglia. Dietro di lei c'era una donna magra dal viso severo e dai lunghi capelli scuri, che indossava un vestito nero stretto alla vita sottile. La donna non disse nulla.

  Serpentine raggiunse Hunter.

  «Hunter ha lavorato per me, tanto tempo fa» disse Serpentine. Allungò un dito bianco e accarezzò dolcemente la guancia bruna di Hunter, un gesto di possesso e di affetto. Poi, «Hai badato al tuo aspetto meglio di me, Hunter.»

  Hunter abbassò lo sguardo.

  «I suoi amici sono miei amici, bambina» disse Serpentine. «Sei Porta?»

  «Si» rispose Porta, la bocca arida.

  Serpentine si rivolse a Richard. «E tu cosa sei?» chiese, per niente impressionata.

  «Richard» rispose lui.

  «Io sono Serpentine» gli disse con cortesia.

  «Cosi ho arguito» commentò Richard.

  «C'è del cibo che vi aspetta» disse Serpentine «se desiderate interrompere il vostro digiuno.»

  «Oddio, no» gemette educatamente Richard.

  Porta non apri bocca. Era ancora con le spalle contro il muro, e ancora tremava dolcemente, come una foglia nella brezza estiva.

  «Che c'è da mangiare?» chiese Hunter.

  Serpentine guardò la donna dal vitino di vespa rimasta sulla soglia. «Be'?» fece.

  La donna ammiccò con il sorriso più freddo che Richard aves­se mai visto solcare un volto umano. Quindi disse «Uova fritte uova in camicia uova in salamoia cervo al curry cipolle in salamo­ia aringhe in salamoia aringhe affumicate aringhe sotto sale funghi in umido bacon salato cavolo ripieno stufato di montone gelatina di stinco di vitello...»

  Richard apri la bocca per implorarla di smettere, ma era troppo tardi. Improvvisamente, violentemente, disperatamente, diede di stomaco.

  Voleva qualcuno che lo sostenesse e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, che presto si sarebbe sentito meglio; qualcuno che gli desse un'aspirina e un bicchiere d'acqua, e lo riportasse nel suo letto. Ma nessuno lo fece; e il suo letto distava un'altra vita da li. Si lavò il vomito dal viso e dalle mani con l'acqua del secchiel­lo. Poi si sciacquò la bocca con cura. Quindi, oscillando lievemen­te, segui le quattro donne per la prima colazione.

  «Passami la gelatina di stinco di vitello» disse Hunter con la bocca piena.

  La sala da pranzo di Serpentine era posta su quella che a Ri­chard parve la più piccola banchina di metropolitana mai vista. Era lunga circa quattro metri, la maggior parte dei quali era occupata da un tavolo da pranzo su cui era stata stesa una tovaglia di dama­sco bianco, apparecchiato in modo molto formale e ricco di argen­ti. Il tavolo era sommerso di cibarie maleodoranti. Secondo Ri­chard, la puzza peggiore proveniva dalle uova di quaglia in sala­moia.

  La pelle di Richard sembrava appiccicaticcia, gli occhi pareva­no essere stati inseriti male, mentre il cranio dava la vaga impres­sione di essere stato scambiato con uno di due o tre misure più pic­colo.

  Un treno della metropolitana passò a qualche centimetro da loro, e il vento causato dal suo passaggio sferzò la tavola imbandi­ta. Il rumore del treno attraversò la testa di Richard come un col­tello rovente che sezioni un cervello. Emise un lamento.

  «Il tuo eroe non regge il vino, a quanto pare» osservò impertur­babile Serpentine.

  «Non è il mio eroe» disse Porta.

  «Invece ho paura che lo sia. Si impara a riconoscere il genere. Qualcosa negli occhi, forse.» Si rivolse alla donna in nero, che a quanto pareva fungeva da una sorta di maggiordomo. «Un tonico per il signore.»

  La donna fece un sorriso secco e scivolò via.

  Porta si servi dal piatto di funghi. «Ti siamo molto grati per tutto questo, Lady Serpentine» disse.

  Serpentine arricciò il naso con disprezzo. «Solo Serpentine, bambina. Non ho tempo per stupidi titoli onorifici. Dunque, tu sei la figlia maggiore di Portico.»

  «Si.»

  Serpentine tuffò un dito nella salsa salmastra che conteneva quelle che sembravano numerose piccole anguille. Si leccò il dito e fece un cenno di approvazione. «Non ho mai avuto molto in comune con tuo padre. Tutte quelle ridicolaggini sul fatto di riunire il Mondo di Sotto. Stupidaggini, balle! Che uomo sciocco. Anda­va solo in cerca di guai. L'ultima volta che l'ho visto gli ho detto che se avesse rimesso piede qui l'avrei trasformato in un orbetti­no.» Si rivolse a Porta. «A proposito, come sta tuo padre?»

  «È morto» rispose Porta.

  Serpentine sembrava molto soddisfatta. «Visto?» commentò. «Proprio come dicevo io.»

  Porta, invece, non disse nulla.

  Serpentine afferrò qualcosa che aveva tra i capelli e lo esaminò con attenzione, per poi schiacciarlo tra pollice e indice e lasciarlo cadere sulla banchina. Quindi si rivolse a Hunter, che stava divo­rando una montagnola di aringhe in salamoia. «Sei a caccia della Bestia, allora?» disse.

  Hunter fece cenno di si, con la bocca piena.

  «Di sicuro ti servirà una lancia» continuò Serpentine.

  La donna dal vitino di vespa si trovava ora accanto a Richard, con in mano un piccolo vassoio. Sul vassoio c'era un bicchierino contenente un liquido dall'aggressivo color smeraldo. Richard lo fissò, poi guardò Porta.

  «Cosa gli dai?» chiese Porta.

  «Niente che possa fargli male» disse Serpentine con un sorriso glaciale. «Siete ospiti.»

  Richard tracannò il liquido verde, che sapeva di timo, menta piperita e mattine d'inverno.

  Lo senti scendere, e si
preparò a cercare di evitare che risalisse. Fece un respiro profondo e si accorse con un po' di stupore che invece la testa non gli doleva più.

  E che aveva una gran fame.

  Old Bailey non era, intrinsecamente, una di quelle persone mes­se al mondo per raccontare barzellette. Nonostante questo handi­cap, continuava imperterrito a raccontarle. Le barzellette che si ostinava a riferire tendevano a essere storielle eccessivamente lun­ghe dal finale paradossale, di norma un infelice gioco di parole che, peraltro, spesso e volentieri Old Bailey non riusciva a ricordare al momento giusto.

  Gli unici ascoltatori delle barzellette di Old Bailey erano i suoi uccelli in gabbia e, in particolare i corvi comuni, vedevano le sto­rielle come parabole profonde e filosofiche recanti profondi e penetranti indicazioni di ciò che significa essere umani, e in realtà ogni tanto gli chiedevano di raccontarne qualcuna.

  «Va bene, va bene, va bene» stava dicendo Old Bailey. «Se l'avete già sentita, fermatemi. C'è un uomo che entra in un bar. No, non era un uomo. È per questo che fa ridere. Scusate. Era un cavallo. Un cavallo... no... un filo. Tre fili. D'accordo. Tre fili en­trano in un bar.»

  Un gigantesco vecchio corvo gracchiò una domanda.

  Old Bailey si sfregò il mento, poi si strinse nelle spalle. «Lo fanno e basta. È una barzelletta. Nelle barzellette possono cammi­nare. Chiede un drink per sé e per i suoi amici. E il barista dice, qui non serviamo i fili. A un filo. Questo torna dagli amici e riferi­sce che in quel bar non servono i fili. Vedete, è una storiella, per­ciò anche il secondo filo va dal barista, e gli altri restano al tavolo, perché sono in tre, giusto? Finché l'ultimo, invece di andare al bancone, ordina il drink ad alta voce da lontano...»

  Il corvo gracchiò di nuovo, con espressione saggia.

  «I drink. Va bene, sono tre. E il barista, arrivato al tavolo con i bicchieri, gli fa, ehi, ma non sei un pezzo di filo anche tu? E il filo gli risponde, no di certo, non ti sei accorto che sono solo un gran filone? Capito? Filo, filone. È una battuta. Molto, molto divertente.»

 

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