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Nessun Dove

Page 22

by Neil Gaiman


  «Toccami» disse Garry.

  Richard allungò la mano, che entrò nel viso di Garry, schiac­ciando e distorcendo, come stesse facendo pressione su una gom­ma da masticare tiepida. Richard non senti nulla nell'aria che gli circondava la mano, quindi la tolse dal viso di Garry.

  «Visto?» disse Garry. «Non sono qui. Tutto quello che c'è sei tu, che cammini avanti e indietro lungo la banchina, parlando da solo e cercando di trovare il coraggio per...»

  Richard non aveva intenzione di commentare, ma la bocca si mosse e udi la propria voce che diceva: «Cercando di trovare il coraggio per fare cosa?»

  Con tono profondo, l'altoparlante annunciò: «L'Azienda londi­nese per il trasporto pubblico si scusa per il ritardo, dovuto a un incidente verificatosi alla stazione di Blackfriars.»

  «Per fare questo» disse Garry. «Diventare un incidente verificatosi alla stazione di Blackfriars. Farla finita con tutto. La tua vita è una vuota messinscena, priva di gioia e di amore. Non hai amici...»

  «Ho te» sussurrò Richard.

  Garry lo esaminò con occhi sinceri. «Sei proprio un illuso» disse.

  «Ho Porta, e Hunter, e Anestesia.»

  Garry sorrise. C'era un compatimento, in quel sorriso, che ferì Richard più di qualunque altra cosa. «Altri amici immaginari? In ufficio ridevamo tutti per quei troll. Te li ricordi? Sulla tua scriva­nia.» Scoppiò a ridere.

  Anche Richard si mise a ridere. Era tutto troppo orribile: non si poteva fare altro che mettersi a ridere.

  Dopo un po' smise.

  Garry si infilò la mano in tasca e ne estrasse un troll. Aveva i capelli viola, e un tempo trovava posto sul monitor del computer di Richard. «Ecco» disse Garry. E gli tirò il troll.

  Richard cercò di afferrarlo. Allungò le mani ma l'oggetto le at­traversò come non fossero li.

  Allora si mise carponi, alla ricerca del troll. In quel momento gli sembrava fosse l'unico frammento rimasto della sua vera vita, e che se solo avesse potuto riaverlo, forse avrebbe potuto riavere anche tutto il resto...

  Flash.

  Era di nuovo l'ora di punta. Un treno scaricò centinaia di per­sone, mentre altre centinaia cercavano di salire, e Richard era an­cora carponi, preso a calci e a botte dai pendolari. Qualcuno gli calpestò le dita della mano, con forza. Lanciò uno strillo acuto e si ficcò le dita in bocca, come un bambino che si fosse scottato. Ave­vano un sapore davvero pessimo.

  Non se ne curò. Poteva vedere il troll sul bordo della banchina, a circa tre metri.

  Strisciò, lentamente, sulle mani e sulle ginocchia, attraverso la folla, fino alla fine della banchina. La gente lo insultò, gli intralciò la strada e lo spinse malamente. Non aveva mai immaginato che ci si potesse impiegare tanto a percorrere tre metri. Udì una voce pe­netrante sogghignare, e si chiese a chi potesse appartenere. Era una risatina fastidiosa, strana e sgradevole. Si chiese che tipo di persona potesse sogghignare a quel modo. Degluti, e il sogghigno si ar­restò. Ora lo sapeva.

  Una donna anziana sali sul treno, e nel farlo colpi con un piede il troll dai capelli viola spedendolo nel buio, giù nello spazio vuo­to tra treno e banchina.

  «No» disse Richard. Stava ancora ridendo, una risata sgraziata e ansimante, ma negli occhi gli spuntarono delle lacrime che si sparsero sulle guance. Si strofinò gli occhi con le mani, facendoli bruciare ancora di più.

  Flash.

  La banchina era di nuovo deserta e buia.

  Si alzò in piedi e percorse barcollando gli ultimi centimetri che lo separavano dal bordo.

  Poteva vederlo, laggiù sulle rotaie, accanto al terzo binario, quello sotto tensione: una piccola chiazza viola. Il suo troll.

  Guardò davanti a sé: attaccati al muro dall'altra parte dei binari c'erano dei manifesti di grandi dimensioni. Pubblicizzavano carte di credito e scarpe sportive e vacanze a Cipro. Mentre guardava, il mondo si distorse e mutò.

  Nuovi messaggi:

  FALLA FINITA era uno di essi.

  METTI FINE ALLE TUE SOFFERENZE.

  SII UOMO - UCCIDITI.

  PROCURATI UN INCIDENTE FATALE, OGGI.

  Annuì. Stava parlando da solo. In realtà sui manifesti non c'era­no quelle scritte. Si. Parlava con se stesso; ed era tempo che si ascoltasse.

  Poteva sentire un treno, non molto distante, che si avvicinava alla stazione.

  Strinse i denti e cominciò a dondolare avanti e indietro come stesse ancora ricevendo gli spintoni dei pendolari, anche se sulla banchina era solo.

  Il treno si stava dirigendo verso di lui. In quel momento com­prese che bastava davvero uno sforzo piccolissimo per mettere fine al dolore, per far si che il dolore sparisse per sempre.

  Si ficcò le mani in tasca e fece un respiro profondo. Era cosi facile. Un momento di sofferenza, e tutto si sarebbe concluso e compiuto...

  In una delle tasche c'era qualcosa. Lo sentiva con le dita: qual­cosa di liscio e solido, approssimativamente sferico.

  Lo estrasse: era una perlina di quarzo.

  Allora si ricordò di averla raccolta da terra. Era stato dall'altra parte del Ponte della Notte. Si trattava di un pezzo della collana di Anestesia.

  E da chissà dove, nella sua testa o fuori di essa, gli parve di sentire la ragazza-ratto che diceva, «Tieni duro, Richard!»

  Annui e si rimise in tasca la perlina. Restò in piedi sulla ban­china e aspettò che arrivasse il treno. Quello arrivò, rallentò e si fermò completamente.

  Le porte del treno si aprirono con un sibilo.

  Il vagone era pieno di morti; morti di tutti i tipi. C'erano cada­veri ancora caldi, con tagli grossolani alla gola e buchi di pallotto­la alla tempia. C'erano cadaveri vecchi e rinsecchiti. C'erano cor­pi coperti di ragnatele che si reggevano alle maniglie del treno, e esseri sciatti e cancerosi mollemente abbandonati nei relativi posti a sedere. Per quanto si poteva desumere, tutti i cadaveri sembrava­no essere defunti per mano propria.

  C'erano corpi di uomini e corpi di donne.

  A Richard pareva di avere già visto alcuni di quei visi, appesi a un lungo muro, ma non riusciva più a ricordare dove, né quando.

  Il vagone puzzava come potrebbe puzzare un obitorio al termi­ne di una lunga estate calda durante la quale il sistema di refrige­razione si fosse rotto definitivamente.

  Richard non sapeva più chi era, non aveva idea di cosa fosse vero e cosa no, e nemmeno se era coraggioso o vigliacco, pazzo o sano di mente.

  Però sapeva qual'era la successiva cosa da fare. Salire sul treno.

  E a quel punto tutte le luci si spensero.

  I chiavistelli vennero tirati di nuovo. Due sonori schiocchi echeg­giarono nella stanza. La porta del minuscolo santuario si apri, la­sciando entrare la luce delle lampade nel corridoio.

  Era una piccola stanza con un alto soffitto a volta. Da un filo appeso nel punto più elevato del soffitto pendeva una chiave d'ar­gento. Il soffio d'aria provocato dall'apertura della porta la fece oscillare avanti e indietro, quindi ruotare lentamente, prima da una parte, poi dall'altra.

  L'Abate si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso e i due uomini entrarono nel santuario fianco a fianco. Poi l'Abate lasciò il braccio del fratello e disse: «Prendi il cadavere, fratello Caliginoso.»

  «Ma, ma padre...»

  «Cosa c'è?»

  Fratello Caliginoso appoggiò un ginocchio a terra. L'Abate po­teva udire le dita che sfioravano abiti e pelle. «Non è morto.»

  L'Abate sospirò. Era un pensiero immorale, lo sapeva, ma sin­ceramente riteneva fosse molto più clemente farli morire subito. In questo modo era molto peggio. «Uno di quelli, eh?» disse. «Be', ci occuperemo della povera creatura finché giungerà a ottenere la sua ricompensa finale. Portiamolo in infermeria.»

  A quel punto una flebile voce disse, con grande calma, «Non sono... una povera creatura...»

  L'Abate senti qualcuno alzarsi in piedi; senti il brusco respiro di fratello Caliginoso.

  «Penso... penso di averla superata» disse, esitante, la voce di Richard Mayhew. «A meno che anche questo faccia parte della prova.»


  «No, figliolo» lo rassicurò l'Abate.

  Calò il silenzio. Poi Richard disse, «Io... io credo che adesso la gradirei quella tazza di tè, se per voi non è un problema.»

  «Certo» disse l'Abate. «Da questa parte.»

  Richard fissò il vecchio. Stava tremando. Gli occhi glauchi guar­davano il nulla. Sembrava contento che Richard fosse vivo, ma...

  «Scusi, signore» disse pieno di rispetto fratello Caliginoso, ri­volto a Richard. «Non dimentichi la chiave.»

  «Oh, si. Grazie.»

  Si era dimenticato della chiave. Allungò la mano e la richiuse sulla chiave d'argento, che ruotava lentamente appesa alla corda. Tirò, e il filo si spezzò senza opporre resistenza.

  Richard apri la mano e osservò la chiave che lo fissava dal suo palmo.

  «Dipende dai miei denti irregolari» disse Richard, che ora ri­cordava. «Chi sono?»

  La mise in tasca, accanto alla perlina di quarzo, e insieme la­sciarono quel luogo.

  La nebbia aveva cominciato a diradare. Hunter ne era lieta. Adesso era certa che, se fosse stato necessario, avrebbe potuto por­tar via Lady Porta ai frati senza che le succedesse nulla, cavando­sela lei stessa solo con qualche ferita superficiale.

  All'altro lato del ponte ci fu un movimento, carico di eccitazione.

  «Succede qualcosa» disse Hunter a bassa voce. «Preparati a scappare.»

  I frati si scostarono.

  Richard, l'uomo del Mondo di Sopra, camminava nella nebbia, a fianco dell'Abate. Richard sembrava... Hunter lo esaminò atten­tamente per cercare di capire in cosa fosse cambiato. Il suo punto di equilibrio si era abbassato, era più centrato. No... non si trattava solo di quello. Sembrava...

  Sembrava che fosse cresciuto.

  «Ancora vivo?» chiese Hunter.

  Richard annui, mise la mano in tasca e ne tolse una chiave d'ar­gento. La lanciò a Porta, che la prese al volo, per poi correre verso di lui e mettergli le braccia al collo, stringendolo più forte che poteva.

  Quindi Porta si staccò da Richard e andò dall'Abate. «Non so dirle quanto ciò significhi per noi» gli disse.

  Lui sorrise, debolmente ma con dolcezza. «Possano Temple e Arch essere con tutti voi, nel vostro viaggio attraverso il Mondo di Sotto.»

  Porta fece un inchino poi, tenendo la chiave stretta in mano, tornò da Richard e da Hunter.

  I viaggiatori superarono il ponte.

  I frati rimasero sul ponte finché i tre uscirono dal loro campo visivo, persi nella vecchia nebbia del mondo sotto il mondo.

  «Abbiamo perduto la chiave» disse l'Abate. «Che Dio ci aiuti.»

  TREDICI

  L'Angelo Islington stava sognando un sogno oscuro e frenetico.

  Onde immense si innalzavano e si infrangevano sulla città; il cielo era squarciato da orizzonte a orizzonte da lampi biforcuti; cadde la pioggia e la città tremò; accanto al grande anfiteatro scoppiarono i primi incendi. Islington li osservava dall'alto, librandosi nell'aria, come ci si libra nei sogni, come si era librato in quei gior­ni tanto lontani. In quella città c'erano edifici alti oltre trenta me­tri, ma a confronto delle verdi onde atlantiche parevano minuscoli.

  Poi udì la gente gridare.

  C'erano quattro milioni di persone ad Atlantide, e, nel sogno, Islington udiva ogni singola voce, chiara e distinta, mentre urlava­no, soffocavano, bruciavano e morivano.

  Le onde inghiottirono la città, e la tempesta si placò.

  Al sorgere dell'alba, nulla indicava che là ci fosse mai stata una metropoli. Nulla tranne i corpi gonfi d'acqua di bambini, di donne e di uomini che galleggiavano sulle gelide onde del mattino; corpi su cui i gabbiani bianchi e grigi avevano già cominciato a infierire con i loro becchi crudeli.

  E Islington si svegliò.

  Era in piedi accanto alla grande porta nera, fatta di silice e ar­gento annerito. Sfiorò la liscia freddezza della silice, il gelo del metallo.

  Toccò il tavolo. Con leggerezza, fece scorrere le dita lungo i muri.

  Poi si incamminò attraversando tutte le stanze dei suoi saloni, una dopo l'altra, toccando gli oggetti.

  Camminando, seguiva un percorso ben preciso, delle levigate scanalature che i suoi piedi nudi avevano scavato nella roccia nel corso dei secoli. Raggiunto lo stagno, si fermò. Si chinò e toccò l'acqua con le dita.

  Sulla superficie dello stagno si formò un'increspatura, e il ri­flesso dell'angelo e delle candele che lo circondavano scintillò e si trasformò.

  Ora vedeva uno scantinato.

  L'angelo si concentrò un momento.

  Poteva udire un telefono che squillava, da qualche parte, lontano.

  Mister Croup si diresse verso il telefono e sollevò il ricevitore. Pareva alquanto soddisfatto di sé. «Croup e Vandemar,» latrò «oc­chi cavati, nasi deformati, lingue forate, menti tagliati, gole squarciate.»

  «Mister Croup,» disse l'angelo «adesso hanno la chiave. Vo­glio che la ragazza di nome Porta non corra pericoli durante il viag­gio che la ricondurrà da me.»

  «Niente pericoli» ripeté mister Croup, impassibile. «D'accor­do. Faremo in modo che non corra pericoli. Che idea meravigliosa - quale originalità. Assolutamente sbalorditiva. La maggior parte delle persone si accontenterebbe di assoldare degli assassini per esecuzioni, ingegnosi delitti, persino per ignobili omicidi. Solo voi, signore, potete assoldare i due migliori tagliagole di tutto lo spazio e il tempo e chiedere loro di assicurare che la salute di una ragaz­zina non venga messa a rischio.»

  «Fate in modo che le cose vadano cosi, mister Croup. Nulla deve nuocerle. Fatele del male in qualche modo e ne sarò profon­damente dispiaciuto. Chiaro?»

  «Si.»

  «C'è altro?» chiese Islington.

  «Si, signore.» Croup si tossicchiò nella mano. «Ricordate il Marchese de Carabas?»

  «Certamente.»

  «Suppongo che non ci sia una proibizione simile riguardo al­l'estirpazione del Marchese...?»

  «No,» disse l'angelo «basta che proteggiate la ragazza.»

  Allontanò la mano dall'acqua. Ora il riflesso era solo di fiammelle di candela, e di un angelo.

  Quindi, l'Angelo Islington si alzò e ritornò alle stanze interne, in attesa dei suoi risolutivi visitatori.

  «Cosa ha detto?» domandò mister Vandemar.

  «Ha detto, mister Vandemar, che dobbiamo sentirci liberi di fare al Marchese tutto ciò che desideriamo.»

  Vandemar annui. «Questo prevedeva anche la possibilità di uc­ciderlo facendolo soffrire?» chiese.

  «Si, mister Vandemar, riflettendoci bene direi proprio di si.»

  «Ottimo, mister Croup. Non mi sarebbe piaciuto un altro rim­provero.» Alzò lo sguardo verso la cosa sanguinolenta che penzo­lava sopra le loro teste. «Meglio sbarazzarci del corpo, allora.»

  Una delle rotelle anteriori del carrello del supermercato cigola­va e aveva la pronunciata tendenza a tirare verso sinistra. Mister Vandemar l'aveva trovato su un'erbosa isola spartitraffico vicino all'ospedale. Vedendolo, si era reso conto che era proprio della misura giusta per trasportare un cadavere. Naturalmente avrebbe potuto portarlo a braccia, ma era probabile che il corpo sanguinasse o perdesse altri fluidi, e lui aveva soltanto quei vestiti.

  Quindi stava spingendo il carrello con il corpo del Marchese de Carabas lungo il canale di scolo delle acque piovane, e quello con­tinuava a fare squiik squiik e a tirare verso sinistra.

  Avrebbe voluto che fosse mister Croup a spingere il carrello, tanto per cambiare.

  Ma mister Croup stava parlando. «Sa, mister Vandemar,» stava dicendo «attualmente sono troppo pieno di gioia, troppo deliziato, per non dire troppo completamente e illimitatamente in estasi per brontolare, bofonchiare o borbottare - dato che finalmente ci è sta­to permesso di fare ciò che sappiamo fare meglio...»

  Mister Vandemar superò un angolo particolarmente disagevo­le. «Intende dire uccidere qualcuno?»

  Mister Croup fece un sorrisone. «Uccidere qualcuno, è proprio quello che intendevo, mister Vandemar, anima coraggiosa, brillan­te e nobile compagno. Tuttavia, a ques
to punto avrà certo percepi­to un latente 'ma' celato sotto la mia apparenza felice, vivace e gioiosa. Una minuscola contrarietà, come il più infinitesimale pezzetto di fegato crudo appiccicato all'interno di uno stivale. Non ho dubbi che ora si starà dicendo, 'Mister Croup ha un peso sul cuore. Devo convincerlo a liberarsi di quel fardello parlandone con me'.»

  Mister Vandemar meditava su quelle parole mentre apriva a forza la tonda botola di ferro che divideva il canale di scolo dalla fognatura e ci si arrampicava a fatica. Poi sollevò il carrello con il corpo del Marchese de Carabas per farlo passare attraverso l'aper­tura. Quindi, quasi certo di non aver pensato a nulla di simile, dis­se, «No.»

  Mister Croup ignorò l'esternazione e continuò. «... E se, in ri­sposta alla sua implorazione decidessi di rivelarle ciò che mi di­sturba, le confesserei che il mio animo è infastidito dalla necessità di mettere la fiaccola sotto il moggio. Dovremmo esporre i tristi resti del fu Marchese de Carabas sulla forca più alta di Londra Sot­to, non gettarli via come un vecchio...»

  Esitò, alla ricerca dell'analogia più esatta.

  «Ratto?» suggerì mister Vandemar. «Parrocchetto canoro? Rene?»

  A mister Croup non piaceva nessuna delle tre alternative. «Si, va be'» disse.

  Davanti a loro c'era un profondo canale di acqua marrone. Sul­la superficie dell'acqua venivano trascinate masse schiumose bian­castre, preservativi usati e occasionali frammenti di carta igienica.

  Mister Vandemar fermò il carrello.

  Mister Croup si chinò, sollevò la testa del Marchese prenden­dola per i capelli e gli sibilò nell'orecchio morto, «Prima questa faccenda sarà finita e risolta e più sarò contento. Ci sono altri tem­pi e altri luoghi in grado di apprezzare adeguatamente due paia di mani abili con il filo della garrota e il coltello per disossare.»

  Quindi si raddrizzò. «Buonanotte, buon Marchese. Non dimen­ticarti di scrivere.»

  Mister Vandemar capovolse il carrello e il cadavere del Mar­chese ruzzolò fuori e cadde schizzando nell'acqua marrone sotto di loro.

  E dato che era arrivato a detestarlo profondamente, mister Van­demar spinse nella fogna anche il carrello del supermercato, rima­nendo a guardare la corrente che se lo portava via.

 

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