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Nessun Dove

Page 29

by Neil Gaiman


  «Non ha alcuna rilevanza, ora» disse l'angelo. «Presto, tutte le ricompense che le vostre piccole e rivoltanti menti possono conce­pire vi saranno date. Quando avrò il mio trono.»

  «Per la marmellata, ripassate domani, eh?» commentò Richard.

  «Non mi piace la marmellata» disse mister Vandemar. «Mi fa ruttare.»

  Mister Croup agitò un dito verso mister Vandemar. «Vuole truffarci» disse. «Non si viene meno a un impegno con mister Croup e mister Vandemar, caro il mio millantatore. Noi i nostri crediti li recuperiamo.»

  Mister Vandemar si avvicinò a mister Croup. «Completamen­te» disse.

  «Con gli interessi» abbaiò mister Croup.

  «E con ganci da macellaio» aggiunse mister Vandemar.

  «Dal Paradiso?» gridò Richard alle loro spalle.

  Mister Croup e mister Vandemar si diressero verso l'angelo in contemplazione. «Ehi!» disse mister Croup.

  La porta si era socchiusa, solo uno spiraglio, ma era socchiusa. Dalla fessura irrompeva una forte luce. L'angelo fece un passo avanti. Era come se stesse sognando a occhi aperti. La luce prove­niente da dietro la porta gli bagnava il viso e lui la beveva quasi fosse vino.

  «Non temete» disse. «Perché quando la vastità della creazione sarà mia, e tutti si raduneranno intorno al mio trono per cantare osanna al mio nome, ricompenserò i meritevoli e abbatterò quanti mi sono odiosi alla vista.»

  Poi, sottovoce, mormorò qualcos'altro. Richard non avrebbe mai saputo per certo cosa avesse detto, anche se in seguito affer­mò che sembrava proprio qualcosa come, «Quel dannato Gabriele, tanto per cominciare.»

  Con uno sforzo, Porta spalancò la porta nera.

  Ciò che si vedeva attraverso di essa era di un'intensità accecan­te: un turbinante vortice di luce e di colore. Richard socchiuse gli occhi e voltò la testa per non fissare quel bagliore. Allora è cosi il Paradiso? Sembra piuttosto l'Inferno.

  Quindi senti il vento.

  Una candela quasi gli sfiorò la testa e scomparve oltre la porta. Poi un'altra. Poi l'aria fu piena di candele, che ruotavano e rotola­vano nel vento in direzione della luce. Era come se l'intera stanza stesse per essere risucchiata attraverso la porta. Non si trattava solo di vento, Richard lo sapeva. Era molto di più. Nel punto in cui era ammanettato cominciarono a dolergli i polsi - come se all'improv­viso il suo peso fosse raddoppiato. Poi la sua prospettiva cambiò. La vista che si godeva guardando oltre la porta - si guardava verso il basso: non era soltanto il vento a trascinare tutto in quella direzione. Era la forza di gravità. Il vento si era creato semplicemente perché l'aria nel salone veniva risucchiata in un altro luogo oltre la porta. Si chiese cosa ci fosse da quel lato - la superficie di una stella, il liscio orizzonte di un buco nero o qualcosa che non era neppure in grado di immaginare.

  Islington afferrò il pilone a lato della porta e ci si aggrappò di­speratamente.

  «Questo non è il Paradiso» urlò l'angelo. «Tu, piccola pazza strega! Cos'hai fatto?»

  Porta stringeva forte le sue catene, facendosi diventare bianche le nocche. Non disse nulla, ma aveva il trionfo negli occhi.

  Mister Vandemar aveva afferrato una gamba del tavolo, mentre mister Croup aveva a sua volta afferrato mister Vandemar.

  «Non era la chiave vera» spiegò Porta trionfante, superando il ruggito del vento. «Si trattava di una copia che ho fatto fare a Fab­broferraio la sera del mercato.»

  «Ma ha aperto la porta» gridò l'angelo.

  «No» disse la ragazza con gli occhi dallo strano colore. «Ho aper­to una porta. Ce l'ho messa davvero tutta, e ho aperto una porta.»

  Sul volto dell'angelo era scomparsa ogni traccia di dolcezza o di compassione; era rimasto solo odio, puro, semplice e freddo. «Ti ucciderò» disse.

  «Come hai ucciso la mia famiglia? Penso proprio che non ucci­derai mai più nessuno.»

  L'angelo si teneva attaccato al pilone con le dita pallide, ma il suo corpo formava un angolo di novanta gradi con la stanza ed era in buona parte già oltre la porta. Appariva allo stesso tempo comi­co e orribile. Si inumidi le labbra. «Ferma tutto questo!» supplicò. «Chiudi la porta! Ti dirò dov'è tua sorella... È ancora viva...»

  Porta trasalì.

  E Islington fu risucchiato fuori dal Salone, una minuscola figu­ra che precipita e rimpicciolisce man mano che cade a capofitto nell'accecante abisso sottostante.

  La forza d'attrazione diventava sempre più intensa. Richard pregava che manette e catene reggessero: si sentiva risucchiare ver­so il varco e, con la coda dell'occhio, poteva vedere il Marchese che penzolava appeso alle catene come un burattino risucchiato da un aspirapolvere.

  Il tavolo, alla cui gamba era strettamente avvinghiato mister Vandemar, volò nell'aria e andò a incastrarsi nel vano della porta. Mister Croup e mister Vandemar oscillavano all'esterno. Mister Croup, che si aggrappava letteralmente alle code dell'abito di mi­ster Vandemar, fece un respiro profondo e cominciò lentamente ad arrampicarsi con mani e piedi sulla schiena di mister Vandemar.

  Il tavolo scricchiolò.

  Mister Croup guardò Porta e le dedicò un acido sorriso volpino. «Io ho ucciso la tua famiglia, non lui. E ora - finalmente - sto per finire il...»

  Fu in quel momento che la stoffa del completo scuro di mister Vandemar cedette. Urlando, mister Croup rotolò nel vuoto, con ben stretta in mano una lunga striscia di stoffa nera.

  Mister Vandemar guardò in basso verso la sagoma di mister Croup che agitava disperatamente le braccia mentre precipitava lontano da loro. Anche lui rivolse uno sguardo a Porta, ma in quel­lo sguardo non c'era niente di minaccioso. Si strinse nelle spalle, per quanto possa stringersi nelle spalle uno che cerca di salvarsi la pelle tenendosi avvinghiato a una gamba di tavolo, poi, con dolcezza, disse, «Ciao» e lasciò la presa.

  Silenziosamente precipitò oltre la porta, nella luce, rimpiccio­lendo nella caduta, in direzione della minuscola sagoma di mister Croup. Presto non furono che un unico puntino nero in un mare di luce ribollente. Poi, anche il puntino scomparve.

  In qualche modo aveva senso, pensò Richard: dopo tutto erano una squadra.

  Respirare stava diventando sempre più faticoso. Richard si sen­tiva stordito e in preda alle vertigini.

  Il tavolo nel vano della porta si spaccò e fu risucchiato dall'al­tra parte.

  Una delle manette di Richard si era aperta, e il suo braccio de­stro ondeggiava libero. Con tutta la forza che riusci a trovare af­ferrò la catena che legava la mano sinistra, grato del fatto che il dito rotto appartenesse alla mano ancora stretta dalle manette. An­che cosi, lampi di dolore blu e rossi gli percorrevano il braccio si­nistro. Poteva sentirsi urlare.

  Non riusciva a respirare. Macchie di luce bianca gli esplosero dietro gli occhi.

  Sentiva che la catena cominciava a cedere...

  Il rumore della porta nera che si richiudeva violentemente riem­pi tutto il suo mondo.

  Richard ricadde di peso contro il pilone e crollò a terra. Nel salone regnava il silenzio; silenzio e totale oscurità, nel Gran Salo­ne sotto la terra.

  «Allora, dove li hai mandati?» Era la voce del Marchese.

  Quindi Richard udì la voce di una ragazza. Sapeva che doveva essere quella di Porta, ma sembrava cosi giovane, quella di un bambino piccolo all'ora di andare a dormire. «Non lo so. Molto lontano. Sono... sono tanto stanca adesso. Io...»

  «Porta,» disse il Marchese «cerca di scuoterti.» Era giusto che lo dicesse, pensò Richard. Qualcuno doveva farlo. E Richard non ricordava più come si fa a parlare.

  Si udì un click, nel buio: il rumore di manette che si aprono, seguito dal rumore di catene che cadono contro un pilone di me­tallo. Poi il rumore di un fiammifero che viene strofinato su una superficie ruvida. Una candela si accese: faceva una luce molto debole e ondeggiava nell'aria leggera.

  Fuoco, fiamma e luce di candela, pensò Richard, senza però riuscire a ricordare perché.

  Con passo malfermo, Porta si diresse verso il Marchese, tenen­do in mano la candela. Allungò l'altra mano, toccò le catene, e le manette
si aprirono con un click. Lui si massaggiò i polsi.

  Poi la ragazza andò da Richard e sfiorò le manette ancora chiu­se. Si aprirono. Porta sospirò e si mise a sedere accanto a lui. Ri­chard allungò un braccio e prese a cullarla, tenendola stretta a sé. La cullava lentamente avanti e indietro, canticchiando a mezza voce un ninna nanna senza parole.

  Faceva freddo, molto freddo, là nel vuoto salone dell'angelo; presto, però, il calore della perdita di coscienza si impadroni di entrambi, avvolgendoli.

  Il Marchese de Carabas guardava i bambini dormire. L'idea del sonno - di tornare, anche per un breve periodo, a uno stato tanto orribilmente vicino alla morte - lo spaventava più di quanto avreb­be mai creduto possibile. Alla fine, però, anche lui appoggiò la te­sta su un braccio e chiuse gli occhi.

  E allora non ci fu più nessuno.

  DICIOTTO

  Lady Serpentine che, escludendo Olympia, era la maggiore del­le Sette Sorelle, camminava lungo il labirinto, gli stivali bianchi che sguazzavano nel fango. Da oltre un centinaio di anni non si allontanava tanto da casa. Il suo maggiordomo dal vitino di vespa, vestita dalla testa ai piedi di pelle nera, procedeva davanti a lei reg­gendo una grossa lanterna da carrozza. Altre due donne vestite in modo simile la seguivano a rispettosa distanza.

  Lo strascico di pizzo strappato dell'abito di Serpentine striscia­va nel pantano, ma lei non ci badava. Alla luce della lanterna scor­se qualcosa di scintillante e, accanto a quel qualcosa, una sagoma voluminosa.

  «Eccola» disse.

  Le due donne che la seguivano si affrettarono a correre avanti, nella palude, e all'avvicinarsi della donna con la lampada le om­bre si trasformarono in oggetti. Il baluginio proveniva da una lunga lancia di bronzo. Il corpo di Hunter, freddo e in condizioni pie­tose, giaceva sulla schiena, semi sepolto sotto il cadavere di un enorme animale. Aveva gli occhi chiusi.

  Le donne di Serpentine estrassero il corpo da sotto la Bestia e lo adagiarono nel fango.

  Serpentine si inginocchiò nel pantano e fece scorrere un dito lungo la guancia gelida di Hunter, fino a sfiorare le labbra nere di sangue. Li indugiò qualche istante, poi si alzò.

  «Prendete la lancia» disse.

  Una delle donne sollevò il corpo di Hunter, l'altra strappò la lancia dalla carcassa della Bestia e se la mise in spalla.

  Quindi le quattro figure si voltarono e ripercorsero la strada da cui erano venute; una processione silenziosa nelle profondità sotto il mondo.

  Mentre camminavano, la luce della lanterna tremolava sul viso devastato di Serpentine, che però non rivelava alcuna emozione, né felicità né tristezza.

  DICIANNOVE

  Per un momento non avrebbe proprio saputo dire chi era. Si trattava di una sensazione estremamente liberatoria, quasi avesse la possibilità di essere qualunque cosa desiderasse: chiunque in assoluto - provare nuove identità. Poteva essere un uomo o una donna, un ratto o un uccello, un mostro o un dio.

  Poi qualcuno produsse un fruscio, e si svegliò senza avere ter­minato l'elenco. Era Richard Mayhew, chiunque egli fosse, qua­lunque cosa ciò significasse.

  Era Richard Mayhew e non sapeva dove si trovava. Il suo viso premeva contro del ruvido lino, e aveva male dappertutto. In alcu­ni punti - il mignolo della mano sinistra, per esempio - più che in altri.

  Vicino a lui c'era qualcuno. Sentiva respirare.

  Sollevò la testa, e nel farlo scopri altri punti dolenti. Alcuni dolevano molto, molto forte.

  Lontano - a camere e camere di distanza - delle persone canta­vano. Il suono era cosi sfocato e sommesso che sapeva che l'avreb­be perduto se avesse aperto gli occhi: un salmodiare profondo e melodioso...

  Aprì gli occhi. La stanza era piccola e scarsamente illuminata. Si trovava su un letto basso e il fruscio che aveva udito era prodot­to da una figura incappucciata vestita di nero che gli dava le spal­le. L'individuo stava spolverando la stanza con un piumino dai colori accesi e bizarri.

  «Dove sono?» chiese Richard.

  La figura in nero si voltò, rivelando un volto magro, molto ner­voso e di un color bruno intenso. «Vuole dell'acqua?» domandò, come uno a cui è stato spiegato che se il paziente dovesse svegliar­si bisogna chiedergli se vuole dell'acqua e che negli ultimi venti minuti si è ripetuto in continuazione la frase, per essere certo di non dimenticarsene.

  «Io...» e Richard si rese conto di avere una sete terribile. Si mise a sedere sul letto. «Si, per favore. Grazie mille.»

  Da una caraffa di metallo il frate versò un po' d'acqua in una malconcia tazza, sempre di metallo, che passò a Richard. Lui sor­seggiò con lentezza, resistendo all'impulso di inghiottirla tutta in una volta. Era fresca e cristallina, come di sorgente.

  Richard abbassò lo sguardo. I suoi abiti erano spariti. Era stato vestito con qualcosa di lungo, simile al saio dei Frati Neri ma gri­gio. Il dito rotto era stato steccato e bendato con cura.

  Si portò un dito all'orecchio, su cui c'era un cerotto appiccico­so. Sotto il cerotto, quelli che al tatto sembravano punti.

  «Sei uno dei Frati Neri?» disse Richard.

  «Si, signore.»

  «Come sono arrivato qui? Dove sono i miei amici?»

  Il frate indicò il corridoio, senza pronunciare parola e con aria nervosa.

  Richard scese dal letto. Controllò sotto la veste grigia: era nudo. Petto e gambe erano coperti da innumerevoli lividi violacei, che sembravano essere stati trattati con un unguento non meglio identificato: odorava di sciroppo per la tosse e toast imburrato. Aveva un ginocchio bendato. Si chiedeva dove fossero andati a finire i suoi abiti. Accanto al letto c'erano dei sandali, e se li infilò. Quin­di usci dalla stanza.

  Nel corridoio vide l'Abate che si stava dirigendo verso di lui, gli occhi ciechi di un bianco perlaceo nell'oscurità al di sotto del cappuccio. Si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso.

  «Allora sei sveglio, Richard Mayhew» disse l'Abate. «Come ti senti?»

  Richard fece una smorfia. «La mano...»

  «Ti abbiamo sistemato il dito. Era rotto. Ti abbiamo curato tagli e lividi. Poi avevi bisogno di riposo, che ti abbiamo procurato.»

  «Dov'è Porta? E il Marchese? Come siamo arrivati qui?»

  «Vi ho portato qui io» disse l'Abate. I due frati iniziarono a camminare lungo il corridoio, e Richard camminava con loro.

  «Hunter» disse Richard. «Avete recuperato il suo corpo?»

  L'Abate scosse il capo. «Non c'era alcun corpo. Solo la Bestia.»

  «Ah, hmm. I miei vestiti...»

  Giunsero alla porta di una cella, molto simile a quella in cui Richard si era svegliato. Porta se ne stava seduta sul bordo del let­to, leggendo una copia di Mansfìeld Park che Richard era certo i frati non avessero mai saputo di possedere. Anche la ragazza in­dossava un saio grigio dei monaci. Era infinitamente troppo gran­de per lei, in modo quasi comico. Quando entrarono alzò la testa. «Ciao» disse. «Hai dormito per secoli! Come ti senti?»

  «Bene, credo. E tu?»

  Lei sorrise, ma non era un sorriso molto convincente. «Un po' debole» disse.

  Nel corridoio si udì uno sferragliare. Richard si voltò e vide il Marchese de Carabas che arrivava verso di loro a bordo di una vecchia e traballante poltrona a rotelle spinta da un Frate Nero grande e grosso. Si chiese come il Marchese riuscisse a far sem­brare una romantica smargiassata anche il fatto di essere spinto su una sedia a rotelle.

  Il Marchese li onorò di un immenso sorriso.

  «Buona sera a lor signori... e signora» disse.

  «Bene» commentò l'Abate. «Ci siete tutti. Dobbiamo parlare.»

  Li condusse in una stanza molto ampia, riscaldata da un crepi­tante fuoco di eterogenei frammenti di legno. Si disposero intorno a un tavolo. Con un gesto, l'Abate li invitò a mettersi a sedere, e lui stesso cercò la sua sedia con la mano e si accomodò. Poi man­dò fuori dalla stanza fratello Caliginoso e fratello Tenebre (che era colui che spingeva la poltrona a rotelle del Marchese).

  «Dunque» disse l'Abate «al lavoro. Dov'è Islington?»

  Porta si strinse nelle s
palle. «Nel luogo più lontano in cui sono riuscita a mandarlo. A metà strada nello spazio-tempo.»

  «Capisco» disse l'Abate. Quindi aggiunse, «Bene.»

  «Perché non ci avete messi in guardia contro di lui?» chiese Richard.

  «Non era compito nostro.»

  «Allora,» disse Richard «adesso cosa succede?»

  L'Abate non rispose.

  «In che senso?» domandò Porta.

  «Be', tu volevi vendicare la tua famiglia. E l'hai fatto. E hai spedito tutti quelli che erano coinvolti in un qualche angolo remoto del nulla. Voglio dire, nessuno cercherà più di ucciderti, giusto?»

  «Non per il momento» disse Porta, tutta seria.

  «E lei?» Richard domandò al Marchese. «Ha avuto ciò che vo­leva?»

  Il Marchese annui. «Ritengo di si. Il mio debito nei confronti di Lord Portico è stato pagato, e Lady Porta mi deve un favore di una certa importanza.»

  Richard guardò Porta, che fece un cenno di assenso.

  «Bene, e io?» chiese.

  «Be',» disse Porta «non ce l'avremmo fatta senza di te.»

  «Non è questo che intendevo. Che ne è della mia possibilità di tornare a casa?»

  Il Marchese inarcò un sopracciglio. «Chi pensi che sia lei - il Mago di Oz? Non possiamo rimandarti a casa. La tua casa è questa.»

  Porta disse, «Ho già cercato di spiegartelo, Richard.»

  «Ci deve essere un modo!» e picchiò con forza la mano sinistra sul tavolo, per dare maggiore enfasi alle parole. Poi aggiunse, «Ahi! » perché picchiare la mano sul tavolo per dare maggiore enfasi non è la cosa più saggia da fare quando si ha un dito rotto.

  «Prova a crescere!» disse il Marchese.

  Richard si massaggiò la mano. Lo spirito combattivo l'aveva abbandonato.

  «Dov'è la chiave?» chiese l'Abate.

  Richard inclinò la testa. «Porta» disse.

  Lei scosse il capo. «Non ce l'ho io» spiegò. «Te l'ho fatta sci­volare in tasca dopo l'ultimo mercato.»

  Richard apri la bocca, poi la richiuse di nuovo. Quindi la riapri e disse, «Vuoi dire che quando ho detto a Croup e Vandemar che l'avevo io e che potevano anche perquisirmi... ce l'avevo davvero?»

 

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