02 Hold Me. Qui
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Zelda
NON riesco a dormire per l’agitazione. Domani è il grande giorno, il giorno in cui scapperò da questa casa, grazie all’aiuto di Elijah. I miei genitori devono presenziare all’inaugurazione di un ristorante, e gli hanno chiesto di venire a tenermi d’occhio. Non voglio immaginare cosa accadrà quando scopriranno che ho eluso la sua vigilanza e sono riuscita a scappare, ma mio fratello sa bene a cosa va incontro, e poi è un ottimo avvocato. Di sicuro sa come tirarsi fuori da situazioni del genere.
Da quando ho di nuovo un cellulare, scambio tutti i giorni dei messaggi con Jasmine. Lei è il mio unico collegamento con Malik, che invece non riesco a contattare: Jasmine mi ha scritto che non lascia avvicinare nessuno, a quanto pare sta proprio male. Per questo le ho chiesto di non dirgli del mio tentativo di fuga, non voglio alimentare le sue speranze, nel caso qualcosa andasse storto. Non posso deluderlo.
Elijah mi ha aiutato via email a fare qualche calcolo, abbiamo valutato quanto potrei guadagnare realisticamente con dei lavoretti, ed elencato tutte le spese correnti. Alcune cose non potrò più permettermele, per esempio la macchina, di cui i miei genitori hanno già rescisso il contratto di leasing. Ma a Pearley si può vivere anche senza, come fa Tamsin, per esempio. Il problema principale sono le tasse universitarie, non so davvero come potrei pagarle. Probabilmente, almeno all’inizio, dovrò congelare gli studi, ma tanto negli ultimi mesi stavo solo sprecando tempo, perciò per il momento è meglio concentrarmi sulle cose più importanti: la mia indipendenza economica e Malik.
La mattina seguente, a colazione, l’atmosfera è particolarmente tesa. O forse è solo una mia impressione, perché so cosa sta per accadere. Non vedo l’ora che i miei escano, e fino all’ultimo secondo ho paura che ci ripensino. Invece, se ne vanno appena arriva Elijah, che non mi degna di uno sguardo, per non insospettirli.
«Come al solito sei il ritratto della felicità», commento, cercando di suonare il più autentica possibile. «Che fortuna averti come babysitter, ci divertiremo un mondo.»
Elijah sospira e alza gli occhi al cielo.
«Grazie tesoro, per questo favore», gli dice mia madre, sfiorandogli la guancia con un bacio. «Sappiamo che hai cose più importanti a cui pensare.»
«Non preoccuparti, mamma, mi sono portato del lavoro. Spero di non doverla anche intrattenere.»
Quindi questo sarà il suo alibi, la spiegazione che darà quando gli chiederanno perché non si è accorto che sono sparita. Aveva del lavoro importante da fare. Ancora una volta sono ammirata dalla sua astuzia.
«Non preoccuparti, immagino che fissare il muro in camera mia sia comunque più emozionante che passare la giornata con te. Quindi posso stare tranquillamente da sola.»
Con queste parole mi volto e salgo le scale, perché non riesco più a trattenere un sorriso.
Un paio di minuti più tardi, Elijah bussa alla mia porta.
«Allora? Hai preso tutto?» chiede.
Gli mostro il cellulare e il libro di John Rawls. «Non mi serve altro. In fondo sto tornando a casa.» Il pensiero del mio appartamento mi riempie di calore.
«Direi di dargli una mezz’oretta, così possiamo stare sicuri che non torneranno indietro all’improvviso, nel caso avessero dimenticato qualcosa.»
Ci sediamo insieme in sala da pranzo e beviamo un caffè. Elijah non ha mentito, ha davvero del lavoro da sbrigare e legge concentrato dei documenti.
«Cosa sono?» chiedo.
«Contratti.»
«Roba interessante?» Sono così di buonumore che non riesco a smettere di parlare, anche se so che lo sto disturbando.
«Più o meno.»
«Come facevi a sapere che saresti diventato un avvocato?»
«Non lo sapevo. Lo speravo», risponde senza alzare la testa.
«Alla fine lo sei diventato. Ti piace?»
«Abbastanza.»
«E Sebastian?» chiedo. «Per lui com’è andata?»
«Non ne ho idea.» Alza lo sguardo dalle carte. «A dir la verità, non ho un rapporto molto stretto né con lui né con Zachary. Non so quasi niente di loro.»
«Magari anche loro sono simpatici», rifletto ad alta voce. «In fondo, fino a poco tempo fa pensavo che tu fossi uno stronzo. Potrei essermi sbagliata anche su di loro.»
«Può darsi», dice Elijah. «Anche se non ci scommetterei.» Mi fa l’occhiolino, e io mi sento invadere da una strana sensazione di solidarietà e vicinanza. È tutto molto nuovo per me, non sono abituata a non essere sola in questa famiglia.
«Sai qual è la cosa più divertente?» chiedo, mentre Elijah con un sospiro rimette i documenti nella sua valigetta.
«Quale?»
«Che se oggi va tutto secondo i piani, tu sarai la mia famiglia, d’ora in poi. In realtà è già così.»
«È una bella responsabilità», dice Elijah sorridendo. «Ma mi fa piacere assumerla.»
«Pensi che glielo dirai, prima o poi?»
«Che ti ho aiutata?»
«No, di te e di Marcus.»
«Certamente. È già da un po’ che lui mi dice di voler conoscere la mia famiglia.»
«Intanto potrei conoscerlo io!» propongo entusiasta. «E poi gli presenterai gli altri quando sarai pronto.»
Elijah sorride. «Sì, dovresti proprio conoscerlo.»
Dopo quella che mi sembra un’eternità, si alza dal tavolo.
«Okay, credo sia ora di andare. E prima che mi dimentichi…» Mi porge il biglietto da visita di un ristorante. «Malik può farsi vivo qui e dire che l’ho mandato io. Loro sanno già tutto.»
Ci abbracciamo forte.
«Grazie mille», dico stretta al suo petto.
«Di niente. E adesso vai, non abbiamo molto tempo!»
Ha ragione. In casa, al momento, c’è soltanto Agnes, ma tra mezz’ora arriverà il giardiniere. La cuoca si è presa un giorno libero e il portiere non c’è, perché i miei non aspettano visite.
Elijah prende la sua valigetta, va nello studio e chiama Agnes. La tratterrà il più possibile, finché io non sarò sgattaiolata fuori, così i miei genitori non potranno prendersela con lei.
Quando sento il pesante portone di legno chiudersi alle mie spalle, tiro un sospiro di sollievo e scendo le scale. Sono a piedi nudi perché non sono riuscita a trovare le mie Converse, i miei genitori probabilmente le hanno bruciate. Ma per fortuna il sole ha riscaldato l’asfalto.
Dietro la prima curva mi aspetta l’auto che mi porterà a Pearley, me l’ha prenotata Elijah. Ma adesso che la vedo da vicino, la Subaru nera mi sembra stranamente familiare. Affretto il passo, la portiera si apre e dalla macchina vedo scendere Miloš.
«Signorina Zelda!» mi saluta con un sorriso.
«Miloš!» esclamo, correndogli incontro. All’ultimo mi fermo, non so se è troppo sconveniente saltargli addosso per abbracciarlo.
«Che ci fa qui?» chiedo confusa.
«Suo fratello mi ha chiesto di portarla a casa.»
«Ma i miei genitori si infurieranno con lei», dico preoccupata. «E poi sua moglie? Non dovrebbe essere con lei e con la bambina?»
«Non si preoccupi, signorina Zelda. Per un paio d’ore se la caveranno anche senza di me. Inoltre, sono ancora in ferie e questa è la mia auto privata, perciò i suoi i genitori non ne sapranno niente.»
Non ne sono del tutto convinta. D’altra parte, però, Elijah non è il tipo da correre rischi inutili.
«E poi lo sa», sussurra Miloš facendomi l’occhiolino, «le missioni segrete sono la mia specialità.»
Mi apre la portiera, io salgo sul sedile posteriore e lui fa partire la nostra playlist, che comincia con Take on me.
Durante il viaggio chiacchieriamo e cantiamo le canzoni più trash. Miloš mi porge il cellulare per mostrarmi le foto di sua figlia Layla e io mi entusiasmo, anche se in realtà non so nulla di neonati.
Sono fuori di me, ho la sensazione che i colori della natura siano ancora più vividi del solito. Cominciare una nuova vita mi riempie di orgoglio e di gioia. Adesso tutto è possibile.
«Dove la lascio?» chiede Miloš quando arriviamo a Pearle
y.
«A casa mia.» Per prima cosa devo trovare dei vestiti normali e delle scarpe. Voglio tornare a essere me stessa, prima di rivedere Malik.
Superiamo un paio di incroci e mi viene un’altra idea. «Anzi, può lasciarmi qui?» domando.
Miloš mi lancia un’occhiata interrogativa, ma quando vede il mio volto sorridente annuisce. «Certo.»
Accosta e io scendo prima che lui faccia in tempo a venire ad aprirmi la portiera.
«Miloš, davvero, adesso la deve smettere con questa storia», gli dico con un sorriso. «Non ce n’era bisogno nemmeno prima, ma da oggi non faccio ufficialmente più parte dell’alta società.»
Miloš mi mette le mani sulle spalle e mi guarda: «Vede, Zelda, per me lei sarà sempre una delle persone migliori che io conosca, alta società o meno». Mi abbraccia e mi stringe forte a sé.
Elijah mi ha dato un po’ di soldi per tirare avanti le prime settimane. Non sono molti e devo starci attenta, ma spendere quaranta dollari per cambiare colore di capelli è l’investimento migliore che possa fare: li farò blu, come il cielo sopra Pearley.
Quando rientro nel mio appartamento, con le piante dei piedi nere di sporcizia, vengo accolta da grida di giubilo. Sia Leon sia Arush sono a casa, e dire che sono felici di vedermi è l’eufemismo del secolo.
Vado a lavarmi i piedi in bagno, e nel frattempo racconto tutta la storia. Loro si siedono sull’orlo della vasca e ascoltano ipnotizzati. Vuoto il sacco completamente, parlo della mia doppia vita, culminata con il mio radicale cambio di look per la festa. Quando arrivo al bacio tra me e Malik, loro spalancano gli occhi, e di fronte alla descrizione dettagliata della reazione di mia madre Arush si porta una mano davanti alla bocca. Racconto anche quello che è successo la mattina dopo a colazione, e spiego che il messaggio l’ha mandato lei.
«Tua madre!» esclama Leon sorpreso. «Incredibile! In effetti, abbiamo pensato che ti avesse dato di volta il cervello.»
Apro l’armadietto del bagno dove tengo gli smalti e scelgo dieci colori diversi, uno per ogni unghia. Non porto lo smalto da così tanto tempo che un solo colore non mi basta. Nel frattempo, finisco di raccontare di Elijah e della mia fuga.
«E adesso che hai intenzione di fare?» chiede Arush, quando finisco.
«Vivere la mia vita.»
Per la prima volta mi muovo con l’autobus a Pearley. E non con uno solo, devo cambiare ben due volte. Ma sono molto felice di constatare che funziona tutto perfettamente. Sull’ultimo, comincio a tamburellare impaziente con le dita sullo schienale del sedile di fronte al mio. Ogni fermata mi avvicina sempre di più a Malik, il mio cuore batte veloce nel petto, le labbra si distendono in un sorriso senza che io possa farci niente. È come se la forza di gravità non valesse più. L’autobus procede verso sud e una signora anziana mi sorride.
«È proprio di buon umore, signorina», commenta.
Annuisco. «Oggi è una bella giornata.»
«Ha ragione», risponde la signora, tirando fuori una caramella dalla sua enorme borsa e mettendosela in bocca.
Alla fermata successiva le porte dell’autobus si aprono con un cigolio che sembra un sospiro. Io mi alzo di scatto ed esco, sotto i raggi del sole che mi solleticano il naso.
Avrei quasi voglia di correre per gli ultimi cinquecento metri che mi separano dalla casa di Malik, ma non voglio essere senza fiato quando ci rivedremo. O sudata.
Quando arrivo finalmente al suo portone – pensando per l’ennesima volta a quanto sarebbe bello avere delle gambe lunghe e non essere così lenta – saltello sui gradini. Il mondo è così bello che mi viene voglia di ballare.
Suono il campanello e dopo un po’, non avendo ottenuto risposta, suono di nuovo. Questa volta più a lungo. Ma nessuno mi apre. Maledizione! Forse non è in casa. Premo un’ultima volta il pulsantino nero, a lungo e con una certa energia. Ma niente. Mi sembra tutto sbagliato. Dopo quello che abbiamo passato, il nostro incontro non può fallire per un motivo così banale! Premo di nuovo il pulsante con l’indice. E poi ancora. E ancora. Sempre più a lungo. Come se non volessi arrendermi all’evidenza. Come se insistere al campanello avesse il potere di far materializzare Malik in casa.
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Malik
MA che diavolo succede? Perché quello stupido citofono non la smette? Mi copro le orecchie con le mani, ma il suono penetrante non vuole saperne di cessare. Forse Rhys ha dimenticato le chiavi? Ma dovrebbe essere in tribunale già da parecchio.
Scendo di malavoglia dal letto e mi avvolgo la coperta di lana intorno alle spalle, mi trascino in corridoio e premo il pulsante che apre il portone, poi socchiudo la porta e rimango in piedi ad aspettare. Ho lasciato aperta solo una fessura, nel caso non sia Rhys. Sento dei passi veloci, non credo sia lui e mi irrito, perché potevo evitare di alzarmi.
Poi vedo una figura minuta ai piedi della rampa di scale e mi si mozza il fiato. Sono così a pezzi da avere le allucinazioni? Lei alza la testa e io la guardo in faccia, poi sale esitante un paio di gradini, con gli occhi sempre fissi su di me. Apro la porta di un altro paio di centimetri, per vederla meglio. Non può essere. Zelda è dai suoi genitori, nel mondo a cui appartiene. Devo essere impazzito.
«Ciao», dice a un certo punto. Io deglutisco. È proprio la sua voce.
Sale gli ultimi gradini e poi si ferma. Io scuoto la testa e rimango a bocca aperta. Non ci posso credere.
«Ciao», ripete lei, avvicinandosi un altro po’. Adesso c’è a malapena a un metro a dividerci.
«Che ci fai qui?» chiedo con voce roca. Le mie corde vocali sono inutilizzate da un bel pezzo, ma devo sapere la verità. Mi schiarisco la gola.
Lei aggrotta la fronte. «Che vuoi dire?» chiede. «Sono qui per te.»
Per me. «Sì, ma…» comincio, con la voce che si fa sempre più roca. Non capisco.
«Sei malato?»
Scuoto la testa e apro la bocca per dire qualcosa, ma dalle mie labbra non esce alcun suono. Continuo a fissarla, incredulo. È davvero qui? È qui per me? Il mio cuore comincia a battere più forte. Lei distende le labbra in un sorriso che fa comparire l’impronta lieve della sua fossetta sulla guancia. Ma sembra preoccupata.
«Pensavo…» balbetto, ma non oso dire ad alta voce quello che vorrei. E se fosse solo un sogno? «Perché non sei dai tuoi?» Adesso il mio tono è più sicuro, ma anche più freddo. Non mi fido.
«Sono scappata.» Nella sua voce percepisco orgoglio, ma anche un po’ di insicurezza.
«Scappata», ripeto. Non capisco cosa possa voler dire. Perciò lo ripeto ancora una volta, perplesso: «Scappata?»
«Pensavi che mi sarei lasciata tenere in ostaggio da loro per sempre?»
«Tenere in ostaggio.» Continuo a ripetere quello che dice, come un maledetto pappagallo. Ma che sta dicendo?
«Sono scappata per vederti. Perché voglio stare con te. E non mi importa dei miei genitori.»
È come essere colpito da un fulmine. La nebbia che ancora sento intorno a me mi impedisce di elaborare subito quello che ha detto, ma dalla nostra strana conversazione ho capito due cose: che lei è qui e che vuole stare con me. Con me. Insieme. Sento un peso sollevarsi dal petto e, all’improvviso, riesco di nuovo a respirare. È solo un flebile sospiro, ma è già qualcosa.
«Ah, e mio fratello ti ha trovato un lavoro in un ristorante.» Fruga nella borsa e mi porge un biglietto da visita. «Dovresti farti vivo appena puoi, cercano qualcuno per la cucina.»
Prendo il biglietto da visita, ma non lo guardo. I miei occhi sono fissi su Zelda.
«Che significa?» chiedo con voce rotta. Il mio labbro inferiore comincia a tremare, non posso farci niente.
«Significa che adesso sono qui. E non ho intenzione di andarmene. E che se vuoi puoi lavorare di nuovo in una cucina. Non sarà la stessa cosa, ma è un inizio.»
Lascio cadere le braccia lungo i fianchi e la coperta che mi ero messo sulle spalle scivola a terra. Gli occhi di Zelda vagano dai pantaloni neri della tuta al mio petto nudo, e la vedo deglutire.
Respiro di nuovo, questa volta più a fondo, e qualcosa scatta dentro di me, così di colpo da farmi quasi barcollare
. Devo fare un passo indietro per non perdere l’equilibrio. La porta che finora ho tenuto socchiusa si spalanca. Io indietreggio e mi appoggio alla parete. Mi serve un appiglio. Sul mio volto fa capolino un cauto sorriso, ma il labbro trema ancora. Mi accascio lentamente lungo la parete, perché le gambe non mi sorreggono più, e comincio a piangere.
«Che succede, Malik?» chiede Zelda, preoccupata.
Non riesco a rispondere. Le mie spalle sono scosse da singhiozzi incontrollabili. È come se avessi rotto una diga, devo essere uno spettacolo penoso, ma davvero non riesco a smettere.
«Dio mio.» Mi imbarazza che Zelda mi veda così. Mi strofino gli occhi con le mani, per fermare le lacrime. «Scusa, non posso farci niente.»
Zelda si accovaccia davanti a me e posa le mani sulle mie ginocchia, poi con l’indice asciuga una delle lacrime che mi scorrono sulla guancia. Mi sfiora soltanto, ma il suo tocco mi trasmette una sensazione di calore che si diffonde dappertutto. Un calore che scaccia via la nebbia. La sensazione di sicurezza che ho sempre provato in presenza di Zelda torna ad affacciarsi. La sento.
«Penserai che mi abbia dato di volta il cervello», dico tentando di sorridere.
«Un po’», risponde lei, prendendomi la mano.
I miei singhiozzi si mescolano a qualcosa che vorrebbe essere una risata, ma suona come qualcos’altro, come se stessi per soffocare. Mi asciugo di nuovo gli occhi e butto fuori lentamente l’aria dai polmoni. Infine, guardo Zelda, intensamente, dalla testa ai piedi e ritorno. Indugio sui leggings, su cui sono disegnate delle piccole zebre. Poi le tocco i capelli.
«Blu», affermo. «Il mio colore preferito.»
Lei sorride e io le accarezzo dolcemente la fossetta. «Speravo tanto che ti piacessero.»
Annuisco e la prendo tra le braccia, perché non ce la faccio più a stare così lontano da lei. Inspiro il suo profumo, accosto il naso al suo collo. E subito le mie spalle riprendono a sussultare, ma non in maniera incontrollata come poco fa. Non so bene se sto ridendo o piangendo, ma in ogni caso sarebbero lacrime di gioia. La stringo ancora di più nel mio abbraccio. È così bello sentirla. Mi dà fiducia. E sicurezza.