Sussurri
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Ormai eccitatissimo, con il cuore che batteva forte, il sangue che pulsava nelle orecchie e il dolore della voglia, Frye si alzò, si sfilò velocemente i vestiti e li gettò sulla cassettiera in modo che non dessero fastidio.
Abbassò lo sguardo sulla propria erezione. Quella vista lo stimolò. Era d'acciaio. Gigantesco. Rosso.
Tornò sul letto.
Ormai si era calmata. Aveva lo sguardo vacuo.
Le strappò di dosso le mutandine e tornò a sistemarsi in mezzo alle gambe spalancate. Perdeva saliva e le bagnò il seno.
La penetrò con forza. Le conficcò il tronco demoniaco sino in fondo. Ululava come una bestia. La pugnalò con il suo pene satanico. Continuò a colpire finché il seme schizzò dentro di lei.
Cercò di immaginarsi il liquido lattiginoso che la inondava all'interno.
Gli venne da pensare al sangue che zampilla dalle ferite, come tanti petali rossi che spuntano tutt'intorno alla lama di un coltello.
A quell'idea, si eccitò ancora di più: lo sperma e il sangue.
Nessuna dolcezza.
Sudando, gemendo, sbavando, continuò a fendere i suoi colpi. Dentro, sempre più dentro. Profondi.
Poi avrebbe usato anche il coltello.
Joshua Rhinehart sfiorò il pulsante accanto al telefono e si fece passare la telefonata attraverso l'altoparlante, in modo che anche Tony e Hilary potessero ascoltare la conversazione con il dottor Nicholas Rudge.
"Ho provato a chiamarla a casa," esordì Rudge. "Non pensavo di trovarla ancora in ufficio."
"Sono un drogato del lavoro, dottore."
"Dovrebbe cercare di curarsi," rispose Rudge con un tono che sembrava di genuina preoccupazione. "Non è così che si deve vivere. Ho curato molti uomini esageratamente ambiziosi il cui lavoro era diventato l'interesse primario della loro esistenza. Un atteggiamento ossessivo nei confronti del lavoro può distruggere una persona."
"Dottor Rudge, in che cosa è specializzato?"
"In psichiatria."
"Lo sospettavo."
"È lei l'esecutore testamentario?"
"Sì. Immagino che lei sappia già tutto sulla sua morte."
"Solo quello che è stato pubblicato sui giornali."
"Occupandomi dell'eredità, ho scoperto che Mr Frye aveva iniziato una cura da lei un anno e mezzo prima di morire."
"Veniva una volta al mese," confermò Rudge.
"E non si era reso conto che poteva trattarsi di un soggetto potenzialmente omicida?"
"Assolutamente no," rispose Rudge.
"Dopo averlo avuto in cura per tanto tempo, non ha capito che era un soggetto violento?"
"Avevo capito che era un soggetto molto disturbato," ammise Rudge. "Ma non pensavo che rappresentasse un pericolo. E, comunque, deve darmi atto del fatto che non mi ha offerto molte possibilità di accorgermi della sua componente violenta. Dopotutto veniva da me una volta al mese. Avevo esposto il desiderio di vederlo un paio di volte la settimana, ma lui si è rifiutato. Voleva che lo aiutassi, ma aveva anche il terrore di svelarsi troppo. E allora avevo deciso di non insistere per farlo venire su base settimanale, nel timore che cancellasse anche l'unica seduta mensile che si era concesso. Pensavo che fosse meglio di niente, capisce?"
"E perché si è rivolto a lei?"
"Mi sta chiedendo di che disturbi soffriva?"
"Esatto, le sto chiedendo proprio questo."
"In qualità di avvocato, Mr Rhinehart, dovrebbe rendersi conto che non sono autorizzato a rilasciare dichiarazioni di questo genere. Ho il dovere di proteggere i miei pazienti."
"In questo caso il paziente è morto, dottor Rudge."
"Questo non significa niente."
"Invece significa moltissimo per il paziente."
"Ma lui si era fidato di me."
"Quando il paziente muore, il segreto professionale del medico perde validità legale."
"Forse perde validità legale," concesse Rudge. "Ma rimane quella morale. Io continuo ad avere le mie responsabilità. Non farei mai niente che potesse danneggiare la reputazione di un mio paziente, che sia morto oppure no."
"Encomiabile," fu il commento di Joshua. "Ma in questo caso non correrà il rischio di dire qualcosa che danneggi la sua reputazione più di quanto non sia già stata rovinata dal paziente stesso."
"Anche questo non significa niente."
"Dottore, questa è una situazione un po' speciale. Proprio oggi ho raccolto alcune informazioni in base alle quali risulta che Bruno Frye ha ammazzato una serie di donne nel corso degli ultimi cinque anni. Non un paio, ma molte donne, e l'ha sempre passata liscia."
"Lei sta scherzando."
"Io non conosco il suo senso dell'umorismo, dottor Rudge. Ma io non mi diverto a scherzare su una catena di omicidi."
Rudge piombò nel silenzio.
Joshua riprese: "Inoltre ho ragione di credere che Frye non agisse da solo. Potrebbe esserci un complice che in questo momento si aggira libero per le strade del paese."
"Questa è una situazione speciale."
"È quanto sostengo anch'io."
"Ha già passato alla polizia le informazioni?"
"No," rispose Joshua. "Con tutta probabilità non verrebbero considerate sufficienti. Ciò che ho scoperto convince me e altre due persone coinvolte in questa faccenda. Ma per la polizia rappresenterebbero solo prove circostanziali. In secondo luogo, ancora non ho capito quale dipartimento di polizia debba avere la giurisdizione in un caso come questo. Gli omicidi sono stati commessi in contee diverse, in città diverse. Frye potrebbe averle raccontato qualcosa che a lei può anche apparire irrilevante, ma che potrebbe incastrarsi con i dati che sono riuscito a scoprire. Se durante i diciotto mesi di terapia è riuscito a raccogliere qualche informazione che possa completare le mie, potrei giungere alla decisione di mettermi in contatto con la polizia e cercare di convincere le autorità che la situazione è molto grave."
"Be'..."
"Dottor Rudge, se lei insiste nel voler proteggere questo paziente, potrebbero verificarsi altri omicidi. Morirebbero altre donne. Vuole avere quei cadaveri sulla coscienza?"
"D'accordo," si arrese Rudge. "Però non per telefono."
"Sarò a San Francisco domani, mi dica quando le è più comodo."
"Ho la mattinata libera," rispose Rudge.
"Va bene se vengo con i miei amici nel suo ufficio verso le dieci?"
"D'accordo. Però l'avverto. Prima di raccontarle della terapia di Mr Frye, voglio sapere che prove è riuscito a raccogliere lei."
"Ma certo."
"E se non riterrò reale il pericolo, non le mostrerò il mio archivio."
"Oh, ci scommetto che riusciremo a convincerla," gli assicurò Joshua. "Anzi, sono certo che le si rizzeranno i capelli in testa. Ci vediamo domani mattina, dottore." Riappese, poi si rivolse a Hilary e Tony. "Domani sarà una giornata faticosa. Prima andremo a San Francisco dal dottor Rudge e poi a Hollister da Rita Yancy."
Hilary si alzò dal divano sul quale era rimasta seduta durante la telefonata. "Non mi importa se dobbiamo volare per mezzo continente, se non altro sembra che si stia muovendo qualcosa. Per la prima volta, ho la sensazione che riusciremo a scoprire che cosa c'è sotto."
"Anch'io," aggiunse Tony e poi, rivolgendosi a Joshua: "Sa, da come ha trattato quel Rudge... si vede che ci sa fare con gli interrogatori. Sarebbe un perfetto investigatore."
"Farò incidere anche questo sulla tomba," ribattè Joshua. "'Qui giace Joshua Rhinehart, uno scontroso carino che avrebbe potuto essere un perfetto investigatore.'" Poi si alzò. "Sto morendo di fame. In casa ho qualche bistecca in freezer e un bel po' di bottiglie di Cabernet Souvignon di Robert Mondavi. Che cosa stiamo aspettando?"
Frye girò le spalle al letto inzuppato di sangue e alla parete chiazzata di rosso.
Appoggiò il coltello insanguinato sulla cassettiera e uscì dalla stanza.
La casa era immersa nel silenzio.
Tutta la sua energia demoniaca era sparita. Si sentiva le palpebre pesanti e le membra intorpidite, ma era completamente saz
io.
In bagno regolò l'acqua della doccia finché non la giudicò calda a sufficienza per resistere sotto il getto. Entrò in doccia e si insaponò, rimuovendo le chiazze di sangue dai capelli, dalla faccia e dal corpo. Ripetè l'operazione due volte e infine si risciacquò.
Aveva la mente svuotata. Non pensava a nient'altro che ai dettagli della pulizia personale. La vista del sangue che sgocciolava con l'acqua nel canale di scarico non gli fece tornare in mente il cadavere che c'era nella stanza accanto; ai suoi occhi era solo sporcizia da eliminare.
Voleva soltanto rendersi presentabile e tornare al furgone per prendersi qualche ora di sonno. Era esausto. Si sentiva le braccia di piombo e le gambe di gomma. Uscì dalla doccia e si infilò un accappatoio. Sapeva di donna, ma questo non gli procurò alcuna associazione di idee.
Rimase a lungo davanti al lavandino per pulirsi le unghie con uno spazzolino che aveva trovato sul portasapone. Doveva cancellare ogni traccia di sangue dalle grinze delle nocche e dalle unghie incrostate.
Uscendo dal bagno e dirigendosi nella stanza per riprendere i vestiti, notò sulla porta uno specchio che non aveva visto prima. Si fermò per esaminarsi, alla ricerca di eventuali chiazze di sangue che potessero essergli sfuggite. Ma ormai era immacolato, fresco e lindo come un neonato.
Rimase a fissare il pene ormai flaccido e i testicoli penzolanti. Cercò di intravedere il marchio del diavolo. Sapeva di non essere come gli altri uomini: su questo non aveva alcun dubbio. Sua madre aveva vissuto nel terrore che la gente lo scoprisse e che venisse a sapere della sua essenza semidemoniaca, frutto dell'incrocio fra una donna normale e una bestia squamosa e sulfurea, dotata di zanne. Fin dalla più tenera età, era riuscita a trasmettere a Bruno la paura di essere scoperto e ancora oggi era terrorizzato all'idea di finire sul rogo. Non si era mai mostrato nudo davanti a un'altra persona. A scuola non aveva mai intrapreso attività sportive ed era stato dispensato dal fare la doccia insieme con gli altri per presunta obiezione religiosa. Non si era mai nemmeno spogliato davanti a un medico. Sua madre era convinta che se qualcuno gli avesse visto l'organo genitale, si sarebbe immediatamente accorto della parentela con un demone, e lui era stato profondamente influenzato dalla sua terrificante certezza.
Ma guardandosi allo specchio, non riuscì a localizzare nessun dettaglio che rendesse il suo organo diverso da quello degli altri uomini. Subito dopo la morte della madre, aveva iniziato a frequentare le sale a luci rosse di San Francisco, desideroso di scoprire come fosse il pene degli altri. Era rimasto sorpreso nel constatare che gli uomini di quei film erano fatti tutti come lui. Ne aveva visti molti, ma non era mai riuscito a trovare anche un solo uomo che presentasse caratteristiche diverse dalle sue. Alcuni avevano un pene più grosso del suo, altri più piccolo, altri più tozzo, altri più sottile; alcuni l'avevano leggermente incurvato e in qualche caso persino circonciso. Ma si trattava di piccole variazioni sul tema, non delle differenze scioccanti ed evidenti che si sarebbe aspettato.
Sbalordito e preoccupato, aveva fatto ritorno a St. Helena per riflettere sulle sue ultime scoperte. La prima cosa che gli era venuta in mente era che sua madre gli avesse mentito. Ma questo era impossibile. Gli aveva raccontato più volte la settimana la storia del suo concepimento, e questo per anni e anni. Ogni volta che parlava del demonio che l'aveva violentata, sussultava, rabbrividiva e piangeva. Per lei era stata un'esperienza di vita, non una semplice storia, inventata per ingannarlo. Eppure... quel pomeriggio di cinque anni prima, seduto da solo con se stesso a riflettere, non era riuscito a trovare una spiegazione che non implicasse menzogne da parte di sua madre.
Il giorno dopo era tornato a San Francisco in stato di febbrile eccitazione, perché aveva deciso di avere rapporti con una donna per la prima volta dopo trentacinque anni di vita.
Si era rivolto a un bordello miseramente travestito da salone di massaggi, dove aveva scelto una biondina snella e attraente. Si faceva chiamare Tammy e, fatta eccezione per i denti leggermente sporgenti e il collo un po' troppo lungo, era la ragazza più bella che avesse mai visto; almeno così l'aveva giudicata lui, mentre cercava di evitare un'eiaculazione precoce nei pantaloni. In una delle cabine che sapevano di disinfettante al pino e di sperma stantio, aveva pattuito la tariffa con Tammy, l'aveva pagata ed era rimasto a osservarla mentre si spogliava. Aveva un corpo liscio, armonioso e molto sexy e lui era rimasto impietrito dalla soggezione, pensando a tutte le cose che avrebbe potuto fare con lei. Si era seduta sull'orlo della brandina e gli aveva sorriso, dopo avergli proposto di spogliarsi a sua volta. Lui aveva accettato l'invito fino a quando non si era trattato di togliersi anche gli slip. Quando era arrivato al punto di mettere in mostra il pene irrigidito, non se l'era sentita di correre il rischio. Aveva iniziato a pensare al rogo e alla morte e si era bloccato. Aveva guardato le gambe affusolate di Tammy, i peli arruffati del suo pube e i suoi seni rotondi. La desiderava disperatamente, ma aveva paura di possederla. Percependo la sua riluttanza, Tammy l'aveva toccato sul pene, massaggiandolo attraverso gli slip. Senza smettere, aveva esclamato: "Oh, lo voglio. È grossissimo. Non ne ho mai avuto uno così prima d'ora. Fammelo vedere. Voglio vederlo. Non ho mai avuto un cazzo del genere." All'udire quelle parole, lui si era reso conto di essere diverso, anche se non riusciva a capire come. Tammy aveva cercato di sfilargli gli slip, ma lui l'aveva schiaffeggiata e l'aveva spinta con violenza sulla brandina; lei aveva sbattuto la testa contro il muro e aveva cercato di proteggersi dalla sua furia con le mani. Urlava. A quel punto Bruno si era chiesto se fosse il caso o no di ammazzarla. Ancora non gli aveva visto il cazzo demoniaco, ma sicuramente ne aveva riconosciuto le caratteristiche inumane solo al tatto. Prima che potesse prendere qualsiasi decisione, la porta della cabina si era spalancata e un signore in giacca nera si era precipitato all'interno, richiamato dalle urla della ragazza. Il buttafuori era imponente almeno quanto Bruno ed era anche armato. Ormai Frye si era rassegnato alla sconfitta, all'oltraggio, alla maledizione, alla tortura e al rogo; ma, con sua grande sorpresa, lo costrinsero solo a rivestirsi e lo cacciarono dal locale. Tammy non aveva proferito parola sulle stranezze del pene di Bruno. Evidentemente, anche se si era resa conto della diversità, non aveva capito in che cosa fosse diverso. Non sapeva che quello era il marchio del demonio che l'aveva concepito, la prova delle sue origini sataniche. Sollevato, si era prontamente rivestito e se n'era andato dal salone, rosso per l'imbarazzo, ma felice che il suo segreto non fosse stato scoperto. Era tornato a St. Helena a parlare con se stesso e aveva deciso, sempre solo con se stesso, che Katherine aveva ragione: avrebbe dovuto continuare a soddisfare i suoi bisogni sessuali da solo.
Poi Katherine aveva iniziato a ritornare dalla tomba e Bruno aveva avuto la possibilità di soddisfarsi con lei, inondando con spropositate quantità di sperma i corpi delle donne che andava a occupare. Nella maggior parte dei casi aveva continuato ad avere rapporti sessuali con se stesso, con l'altra parte di sé, con l'altra metà. Ma di tanto in tanto era estremamente eccitante avere la possibilità di conficcare il cazzo nel centro umido, caldo e stretto di una donna.
Fermo davanti allo specchio fissato alla porta del bagno di Sally, continuò a osservare affascinato il suo pene, chiedendosi di che cosa poteva essersi accorta Tammy quando gli aveva palpato l'erezione nella cabina per i massaggi, cinque anni prima.
Poi, cominciò a risalire con lo sguardo; partendo dagli organi genitali ormai flaccidi, passò ad analizzare la pancia muscolosa, poi più su, verso l'ampio torace, finché non si scontrò con lo sguardo dell'altro Bruno che si stava rimirando allo specchio. Guardandosi negli occhi, i contorni della realtà sbiadirono e ogni forma si fuse assumendo nuove dimensioni; senza l'apporto di droghe o di alcol, Bruno si sentì trasportare nel vortice di un'allucinazione. Allungò una mano e andò a toccare lo specchio. Le dita di Bruno toccarono quelle dell'altro Bruno. Come in un sogno, si sentì spingere verso lo specchio dove premette il naso contro quello dell'altro Bruno. Tutt'e due si scrutarono a fondo. Per un istante, dimenticò di essere di fronte a una semplice immagine rifl
essa e l'altro Bruno diventò reale. Gli diede un bacio, un bacio freddo. Poi si scostò di qualche centimetro. Lo stesso fece anche l'altro Bruno. Si leccò le labbra. Così fece anche l'altro Bruno. E tornarono a baciarsi. Iniziò a leccare le labbra dell'altro Bruno e improvvisamente il bacio divenne caldo, ma non morbido e piacevole come si sarebbe aspettato. Nonostante i tre potenti orgasmi che Sally-Katherine gli aveva fatto raggiungere, il pene tornò a rizzarsi. Lo premette contro il pene dell'altro Bruno e prese a roteare i fianchi, massaggiandosi il pene ritto, baciando l'altro, senza staccare gli occhi dalla sua controfigura. Per un paio di minuti, si sentì felice come non lo era da parecchio tempo.
Ma l'allucinazione si dissolse di colpo e la realtà lo colpì come una martellata sulla testa. Si accorse subito di trovarsi di fronte solo a un'immagine riflessa e non all'altra metà di se stesso. La sinapsi tra gli occhi venne attraversata da una violenta scossa elettrica e il corpo sussultò per lo choc. Si trattava semplicemente di uno choc emotivo, che influì anche a livello fisico, facendolo sussultare. Lo stato di letargo venne spazzato via. Tutt'a un tratto si sentì rigenerato; la mente era tornata a girare spumeggiante.
Si ricordò che era morto. Morto per metà. La puttana l'aveva pugnalato la settimana prima a Los Angeles. E adesso era morto e vivo nello stesso tempo.
Si sentì pervadere da un profondo dolore.
Gli spuntarono le lacrime agli occhi.
Si rese conto di non potersi più aggrappare a se stesso come faceva un tempo. Non più.
Non avrebbe più potuto trastullarsi con se stesso come una volta. Non più.
Ormai aveva soltanto due mani, non quattro; un solo pene, non più due; una sola bocca, non due.
Non avrebbe più potuto baciarsi da solo, non avrebbe più sentito le due lingue che si accarezzavano dolcemente. Mai più.
Era morto per metà. E scoppiò a piangere.
Non avrebbe più potuto scopare con se stesso come aveva fatto migliaia di volte in passato. Non avrebbe avuto altro amante al di fuori delle sue stesse mani. Il piacere limitato della masturbazione.