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Nessun Dove

Page 12

by Neil Gaiman


  L'ascensore?

  Qualcosa produsse un suono metallico, e le porte dell'ascensore si aprirono con maestosa lentezza, inondando di luce il corridoio.

  Varney armeggiò alla ricerca del coltello: prese a imprecare, accorgendosi che ce l'aveva ancora quella puttana di Hunter. Al­lungò la mano verso il machete che teneva nel fodero sulla spalla.

  Era sparito.

  Dietro di sé udì un educato tossicchiare, e si voltò.

  Mister Vandemar era seduto sui gradini in fondo alla scala a chiocciola.

  Si stava pulendo le unghie con il machete di Varney.

  A quel punto mister Croup gli fu addosso, tutto denti, artigli e piccole lame; e Varney non ebbe neppure il tempo di gridare.

  «Addio» disse mister Vandemar, impassibile, senza smettere di tagliarsi le unghie.

  Allora cominciò a scorrere il sangue. Sangue rosso e tiepido in una quantità spaventosa, dato che Varney era un omone e se l'era tenuto tutto dentro.

  Quando mister Croup e mister Vandemar ebbero finito, però, era quasi impossibile notare la minuscola macchiolina di sangue in fondo alla scala a chiocciola.

  Alla prima lavata, ogni traccia sarebbe scomparsa per sempre.

  Hunter procedeva per prima. Porta camminava nel mezzo. Il Marchese de Carabas si occupava della retroguardia. Nessuno dei tre aveva pronunciato verbo dopo avere lasciato Richard, mezz'ora prima.

  All'improvviso Porta si fermò. «Non possiamo farlo» disse con tono piatto. «Non possiamo lasciarlo là da solo.»

  «Certo che possiamo» disse il Marchese. «Anzi, l'abbiamo già fatto.»

  Lei scosse il capo. Si era sentita colpevole e stupida fin dal momento in cui aveva visto Richard all'audizione, sdraiato sulla schiena sotto il peso di Ruislip. Non le andava proprio.

  «Non essere sciocca» disse il Marchese.

  «Mi ha salvato la vita» ribadi lei. «Avrebbe potuto lasciarmi sul marciapiede, ma non l'ha fatto.»

  Il Marchese alzò un sopracciglio: distaccato, distante, un vero seguace dell'ironia. «Mia cara giovane signora,» disse «non abbia­mo in programma di portare con noi un passeggero, durante questa spedizione.»

  «Non assumere quell'aria di superiorità con me, de Carabas» disse Porta. Sembrava stanca. «Penso di poter decidere chi viene con noi. Lavori per me anche tu, no? O è vero il contrario?»

  Lui la fissò con una freddezza piena di rabbia. «Lui non viene con noi» affermò con un tono che non ammette replica. «E comun­que a quest'ora sarà già morto.»

  Richard non era morto. Se ne stava seduto al buio, su un corni­cione a lato di un canale per le acque piovane, chiedendosi cosa fare, chiedendosi in quali acque infinitamente troppo profonde per le sue possibilità si sarebbe potuto trovare.

  Decise che fino a quel momento la vita l'aveva preparato alla perfezione per lavorare in Borsa, fare acquisti al supermercato, guardare la partita di calcio in TV la domenica pomeriggio e accendere il riscaldamento quando aveva freddo. Aveva però total­mente fallito nell'addestrarlo a un'esistenza da non-persona sui tet­ti e nelle fogne di Londra, a un'esistenza al freddo, all'umido e al buio.

  Il baluginio di una luce. Passi che si avvicinano. Se, pensò, si fosse trattato di un branco di assassini, cannibali o mostri, non sa­rebbe nemmeno stato in grado di provare a battersi. Che lo finisse­ro pure, ne aveva avuto abbastanza. Abbassò gli occhi nell'oscuri­tà e li fissò nel punto in cui avrebbero dovuto trovarsi i suoi piedi. I passi si avvicinarono ulteriormente.

  «Richard?» Era la voce di Porta.

  Sobbalzò. Poi la ignorò deliberatamente. Se non fosse per te, pensò...

  «Richard?»

  Non alzò gli occhi. «Cosa?» rispose.

  «Senti,» disse lei «tu non ti troveresti in questo guaio se non fosse per me. E non credo che sarai più al sicuro restando con noi, però... Be'...» Si strinse nelle spalle. Un respiro profondo. «Mi dispiace. Vieni?»

  «Dato che al momento non ho altri impegni,» disse con una stu­diata noncuranza che rasentava l'isterismo, «perché no?»

  Lei lo abbracciò stretto.

  «E cercheremo di farti tornare indietro» disse. «Promesso. Una volta trovato quello che sto cercando.»

  Cominciarono a percorrere il tunnel. Richard poteva vedere Hunter e il Marchese che li aspettavano all'entrata. Il Marchese aveva l'aria di uno che è stato costretto a inghiottire della polpa di limone. «E cosa stai cercando?» chiese Richard, il cui morale ave­va ripreso leggermente quota.

  «È una lunga storia» rispose la ragazza con tono solenne. «Al momento stiamo cercando un angelo di nome Islington.»

  Richard scoppiò a ridere. Non riusciva a frenarsi. C'era indub­biamente un po' di isterismo, ma anche la stanchezza di chi è in qualche modo riuscito a credere a svariate decine di cose incredi­bili, senza neppure avere prima fatto una colazione decente. La sua risata echeggiò nei tunnel.

  «Un angelo?» disse ridacchiando confuso. «Che si chiama Islin­gton come il quartiere?»

  «Abbiamo molta strada da fare» disse Porta.

  E Richard scosse il capo, sentendosi spremuto, svuotato e de­fraudato.

  «Un angelo» bisbigliò ai tunnel e al buio. «Un angelo!»

  Il Gran Salone era tutto ricoperto di candele. C'erano candele accanto ai piloni di ferro che sostenevano il soffitto. Candele in attesa vicino alla cascatella che scendeva da un muro e nel piccolo stagno scavato nella roccia sottostante. Candele raggnippate ai lati del muro di roccia. Candele ammassate sul pavimento. C'erano candele nei candelabri che facevano ala alla grande porta tra due neri piloni di ferro. La porta era realizzata con liscia silice nera inserita in una base d'argento che si era scurita con il passare dei secoli diventando quasi nera anch'essa.

  Le candele erano spente, ma al suo passaggio guizzanti fiammelle prendevano vita. Nessuna mano le aveva toccate, nessun fuo­co aveva sfiorato i loro stoppini. Il suo abito era semplice e bianco; o più che bianco. Un colore, o un'assenza di colore, cosi lumi­noso da far trasalire. Aveva i piedi nudi sul freddo pavimento di roccia del Gran Salone. Il viso era pallido, saggio e gentile; e, for­se, un po' malinconico.

  Era molto bello.

  E in un attimo, tutte le candele del Salone erano accese.

  Si arrestò presso lo stagno nella roccia; si inginocchiò vicino all'acqua, mise le mani a coppa, le tuffò nel liquido cristallino e bevve. L'acqua era molto fredda, ma anche molto pura. Terminato di bere chiuse gli occhi per un istante, quasi stesse benedicendo.

  Quindi si alzò e se ne andò per dove era venuto, attraversando il Salone; e quando passava le candele si spegnevano, come ave­vano fatto per decine di migliaia di anni.

  Non aveva ali, eppure era senza alcun dubbio un angelo. Islington lasciò il Gran Salone, anche l'ultima candela si spense e tor­nò il buio.

  SEI

  Richard scrisse mentalmente un appunto per il suo diario.

  Caro Diario, cominciò, venerdì avevo un lavoro, una fidanza­ta, una casa e una vita che aveva senso. (Be', per quanto senso possa avere qualunque vita). Poi ho trovato una ragazza ferita e sanguinante sul marciapiede e ho cercato di fare il Buon Samari­tano. Adesso non ho più fidanzata, né casa, né lavoro, e me ne vado in giro a quasi un centinaio di metri sotto le strade di Lon­dra con un'aspettativa di vita pari a quella di un'efemera.

  «Da questa parte» disse il Marchese.

  «Ma non sembrano tutti uguali questi tunnel?» chiese Richard, mettendo temporaneamente da parte le annotazioni per il diario. «Come si fa a capire qual'è uno e qual'è l'altro?»

  «Non si capisce» disse il Marchese. «Infatti ci siamo irrimedia­bilmente persi. Non ci troveranno mai più. Tra un paio di giorni ci uccideremo a vicenda per procurarci il cibo.»

  «Sul serio?»

  «No.»

  Richard riprese a redigere il diario mentale.

  Ci sono centinaia di persone in quest'altra Londra. Forse mi­gliaia. Persone che provengono da qui o persone che sono cadute nelle fenditure. Io sto vagando senza meta con una ragazza che si chiama Porta, la sua guardia del corpo e i
l suo psicotico gran visir. La notte scorsa abbiamo dormito in un piccolo tunnel che secondo Porta una volta era una sezione della fognatura del quartiere di Regency. Quando mi sono addormentato, la guardia del corpo era sveglia, e lo era anche quando mi hanno svegliato. Cre­do non dorma mai. Per colazione abbiamo avuto della torta di frutta; il Marchese ne aveva in tasca un bel pezzo. Perché mai qualcuno dovrebbe tenersi in tasca delle fette di torta di frutta? Mentre dormivo mi si sono asciugate le scarpe. Quasi del tutto.

  Voglio andare a casa.

  E sottolineò mentalmente l'ultima frase per tre volte, la riscris­se a caratteri cubitali con l'inchiostro rosso e ci fece intorno un circoletto, prima di aggiungere punti esclamativi a profusione sul margine mentale lì a fianco.

  Per lo meno il tunnel in cui stavano procedendo era asciutto. Era un tunnel high-tech: tutto tubi d'argento e muri bianchi.

  Il Marchese e Porta camminavano insieme, davanti. Hunter si spostava in continuazione: a volte era dietro di loro, a volte su un lato o sull'altro, spesso li precedeva di qualche passo, fusa con le ombre. Quando si muoveva non produceva alcun rumore, fatto che Richard trovava piuttosto sconcertante.

  Davanti a loro spuntò una luce.

  «Ci siamo» disse il Marchese. «È la stazione di Bank. Ottimo posto da cui cominciare le ricerche.»

  «È fuori di testa» commentò Richard. Non intendeva farsi sen­tire, ma anche la più sotto delle voci si diffondeva e riecheggiava nell'oscurità.

  «Davvero?» disse il Marchese.

  Il terreno cominciò a rimbombare: un treno della metropolita­na, da qualche parte, molto vicino.

  «Richard, lascia perdere» disse Porta.

  Ma ormai gli stava uscendo di bocca: «Be',» disse «vi state comportando da sciocchi tutti e due. Non esistono gli angeli.»

  Il Marchese annui commentando, «E già, certo. Adesso si che ti capisco. Gli angeli non esistono. Cosi come non esiste una Lon­dra Sotto, né parla-coi-ratti, né pastori a Shepherd's Bush.»

  «Non ci sono pastori a Shepherd's Bush solo perché si chiama 'boschetto dei pastori'» puntualizzò seccamente Richard.

  «Ci sono» disse Hunter dall'oscurità, proprio accanto al suo orecchio. «Prega di non incontrarli mai.» Sembrava serissima.

  «Dite quello che volete,» riprese Richard «ma io continuo a non credere che qui sotto si aggirino stuoli di angeli.»

  «Non stuoli di angeli» precisò il Marchese. «Un angelo.» Erano giunti alla fine del tunnel. Davanti a loro c'era una porta chiusa a chiave. Il Marchese si fece da parte. «Mia signora?» disse a Porta.

  Lei appoggiò per un attimo la mano sulla porta, che si apri sen­za far rumore.

  «Forse» insistette Richard «intendiamo cose diverse. Gli angeli che ho in mente io sono tutti ali, aureole, trombe e pace-in-terra-agli-uomini-di-buona-volontà. »

  «Esatto» disse Porta. «È proprio cosi: un angelo.»

  Attraversarono la porta.

  Istintivamente Richard chiuse gli occhi. Troppa luce, che gli trafiggeva la testa come un attacco di emicrania. Quando gli occhi si furono abituati al chiarore, Richard si accorse di trovarsi nel lun­go tunnel pedonale che unisce le stazioni della metropolitana di Monument e Bank. Nei tunnel si aggiravano numerosi pendolari, nessuno dei quali diede ai quattro neppure un'occhiata di striscio.

  Nel tunnel echeggiava il vivace lamento di un sassofono: I'll Never Fall in Love Again di Burt Bacharach e Hal David, suonata neanche troppo male.

  Richard si impose di non canticchiare.

  Si stavano dirigendo verso Bank.

  «Allora chi stiamo cercando» chiese con aria da innocentino. «L'angelo Gabriele? Raffaele? Michele?»

  Passando davanti a una piantina del metrò il Marchese indicò col dito: «'Angel', stazione dell'angelo: 'Islington'.»

  Richard cambiò argomento. «Sapete, un paio di giorni fa ho tentato di salire su un treno della metropolitana, ma non me lo ha permesso.»

  «Devi solo fargli capire chi è che comanda, tutto qui» disse dolcemente Hunter, dietro di lui.

  Porta si mordicchiava il labbro inferiore. «Questo ci lascerà sa­lire» disse. «Se riusciamo a trovarlo.»

  Innamorarsi vuol dire stare

  sempre nell'occhio del ciclone...

  Io, no non mi innamoro più...

  Scesero qualche scalino e svoltarono a un angolo.

  Il suonatore di sassofono aveva steso il cappotto davanti a sé, sul pavimento del tunnel. Sul cappotto c'erano delle monete che parevano messe da lui stesso per convincere i passanti che chi li aveva preceduti aveva lasciato qualcosa.

  Non si faceva imbrogliare nessuno.

  Il suonatore di sassofono era estremamente alto; aveva i capelli neri fino alle spalle, e una lunga barba biforcuta che incorniciava degli occhi infossati e un naso severo. Indossava una maglietta sbrindellata e jeans macchiati di olio.

  Quando i viaggiatori lo raggiunsero smise di suonare, tolse la saliva dall'imboccatura, riposizionò l'ancia e si lanciò in un'interpretazione della canzone di Julie London Cry me a river.

  Ora, dici mi dispiace...

  Con sorpresa, Richard si rese conto che l'uomo poteva vederli - e che faceva del suo meglio per fingere di non riuscirci. Il Mar­chese si fermò di fronte a lui. Il lamento del sassofono si affievolì nervosamente. Il Marchese fece lampeggiare un largo e gelido sor­riso.

  «Sei Lear, vero?» chiese.

  L'uomo annui circospetto. Le dita accarezzavano i tasti del sas­sofono.

  «Cerchiamo Earl's Court» continuò il Marchese. «Capita per caso che sulla tua persona si trovi qualcosa di simile a un orario dei treni?»

  Lear si inumidì le labbra con la punta della lingua. «Non è im­possibile. Cosa me ne verrebbe se ce l'avessi?»

  Il Marchese si ficcò le mani nelle tasche del soprabito. Poi sor­rise, come un gatto a cui siano state affidate le chiavi di un istituto per canarini disobbedienti ma cicciottelli.

  «Si dice» buttò li oziosamente, come stesse solo passando il tempo, «che Blaise, il maestro di Merlino, una volta scrisse una musica da danza cosi allettante da attirare il denaro fuori dalle ta­sche di chiunque la ascolti.»

  Gli occhi di Lear divennero due fessure. «Questo varrebbe ben più di un orario dei treni» disse. «Se tu ce l'avessi davvero.»

  Il Marchese fece una perfetta imitazione di qualcuno che scopre: perbacco, ha ragione, varrebbe di più! «Be', allora,» disse magna­nimo «suppongo ciò significhi che mi dovresti un favore, giusto?»

  Lear annui, lentamente e con riluttanza. Si frugò nella tasca posteriore, ne estrasse un pezzo di carta piegato e spiegazzato che tenne ben alto in mano.

  Il Marchese si allungò per prenderlo. Lear allontanò la mano. «Prima fammi ascoltare la musica, vecchio imbroglione» disse. «E sarà meglio che funzioni.»

  Il Marchese alzò un sopracciglio. Infilò velocemente la mano in una delle tasche interne del soprabito, e quando la tirò fuori di nuovo conteneva un fischietto e una piccola sfera di cristallo. Guar­dò la sfera di cristallo facendo quel tipo di «hmm» che significa «ah, ecco dov'era finita», e se la rimise in tasca. Quindi piegò le dita, si portò il fischietto alle labbra e cominciò a suonare.

  Era un motivetto strano e brioso, che saltellava e si contorceva. Richard credette quasi di avere ancora tredici anni, quando a scuo­la, durante l'intervallo per il pranzo, ascoltava la radio portatile del suo migliore amico, attento alla classifica dei dischi più venduti, perché la musica era importante come può esserlo solo quando si è adolescenti: era tutto quello che aveva sempre voluto sentire in una canzone...

  Una manciata di monete tintinnò sul cappotto di Lear.

  Il marchese abbassò il fischietto.

  «Allora sono in debito, vecchia canaglia» disse Lear, con un cenno del capo.

  «Si, lo sei.» Il Marchese gli prese il foglio - l'orario dei treni - e lo esaminò attentamente, quindi annui. «Ma a buon intenditor poche parole: non esagerare. Basta poco per avere molto.»

  E i quattro ripresero il cammino, lungo il corridoio, circondati da manifesti che
pubblicizzavano film e biancheria intima e dagli sporadici avvisi dall'aria ufficiale che consigliavano agli artisti di strada di allontanarsi dalla stazione. Li seguiva il lamento del sas­sofono e il suono del denaro che atterrava sul cappotto.

  Il Marchese li condusse a una banchina della Central Line.

  Richard si diresse verso il limitare della banchina e guardò in basso. Si chiese, come faceva sempre, quale fosse la rotaia sotto tensione, poi si scopri a sorridere, involontariamente, a un topolino grigio che si aggirava con coraggio sui binari, alla timida ricerca di panini abbandonati e patatine cadute dal sacchetto.

  «Attento allo Spazio Vuoto» gli disse Hunter, con tono pres­sante. «Resta qui dietro. Accanto al muro.»

  «Cosa?» chiese Richard.

  «Ho detto» ripeté Hunter «attento allo...»

  E in quell'istante fece irruzione sul lato della banchina. Era dia­fano, simile a un sogno, una cosa spettrale color fumo nero che prorompeva come seta sotto uno strato di acqua. Spostandosi a una velocità stupefacente pur dando l'impressione di muoversi al ral­lentatore, si avvinghiò con forza alla caviglia di Richard.

  Pungeva, anche attraverso la spessa stoffa dei Levi's. La cosa lo trascinava verso il bordo della banchina, e lui barcollò.

  Quasi con distacco si accorse che Hunter aveva estratto il ba­stone e con esso colpiva il tentacolo, ripetutamente e con forza.

  Si udì uno strillo lontano, sottile e stupido, come di un bambi­no idiota privato del suo giocattolo.

  Il tentacolo di fumo lasciò la caviglia di Richard, scivolò indie­tro oltre il bordo della banchina e spari.

  Hunter afferrò Richard per la collottola e lo tirò verso il muro.

  Richard ci crollò contro. Dove la cosa aveva toccato i jeans, il colore era stato succhiato via, e adesso sembravano un maldestro esempio di tintura a nodi. Sollevò la gamba dei pantaloni: sulla ca­viglia e sul polpaccio stavano spuntando minuscole vesciche rosse.

  «Cosa...» si provò a parlare ma non usci alcun suono. Deglutì e ritentò, «Cos'era quello?»

 

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