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Nessun Dove

Page 27

by Neil Gaiman


  Il labirinto in sé era follia pura. Era costruito di frammenti di­spersi di Londra Sopra: vicoli, strade, corridoi e fognature caduti nelle fenditure nel corso dei millenni e entrati a far parte del mon­do del perduto e del dimenticato.

  Camminavano sui ciottoli e nel fango, nello sterco (sterco di cavallo e non solo) e su assi di legno marcio. Era un luogo in pe­renne trasformazione, e ogni sentiero si divideva, girava e si ripiegava su se stesso.

  Mister Croup senti lo strattone del talismano e lasciò che lo portasse dove voleva.

  Stavano percorrendo un minuscolo passaggio che un tempo aveva fatto parte di una «rookery» vittoriana (dei bassifondi com­posti in parti uguali di furto e gin, squallore da due soldi e sesso da tre), quando la udirono tirar su col naso e sbuffare da qualche parte, vicino. Poi ruggì.

  Mister Croup esitò. In fondo al vicolo si fermò e si guardò in­torno di sottecchi, prima di fare strada agli altri scendendo qualche gradino che portava a un lungo tunnel di pietra che una volta, all'epoca dei Templari, correva attraverso delle paludi, le Fleet Marshes.

  «Hai paura, vero?» gli disse Porta.

  Lui la guardò in cagnesco. «Tieni la lingua a posto.»

  Lei sorrise, anche se di sorridere proprio non aveva voglia. «Hai il terrore che il tuo talismano salvacondotto non ti permetta di su­perare la Bestia. Cosa stai progettando? Di rapire Islington? Di venderci entrambi al migliore offerente?»

  «Zitta» disse mister Vandemar.

  Ma mister Croup si limitò a ridacchiare sotto i baffi, e in quel momento Porta seppe che l'Angelo Islington non era suo amico.

  Allora cominciò a gridare. «Ehi! Bestia! Siamo qui! Iuu-huu! Signora Bestia!»

  Mister Vandemar le diede uno schiaffo sulla testa e la sbatté contro il muro.

  «Ti avevo detto di stare zitta» disse, dolcemente.

  Sentiva in bocca il sapore del sangue e sputò rosso sul fango. Quindi apri la bocca per mettersi di nuovo a strillare. Mister Van­demar, anticipando la mossa, si era tolto di tasca un fazzoletto e glielo ficcò tra i denti. Lei cercò di mordergli un dito, ma la cosa non lo impressionò per niente.

  «Adesso starai zitta» le disse.

  Mister Vandemar era molto orgoglioso del suo fazzoletto, che era macchiato di verde, nero e marrone, e in origine, negli anni Venti, era appartenuto a un venditore di tabacco da fiuto alquanto sovrappeso morto di infarto e sepolto con il fazzoletto nel taschi­no. Ogni tanto mister Vandemar ci trovava ancora sopra qualche frammento di mercante di tabacco, ma ciò nonostante secondo mi­ster Vandemar era comunque un bel fazzoletto.

  Continuarono in silenzio.

  Nel suo salone alla fine del labirinto, che era la sua cittadella e la sua prigione, l'Angelo Islington stava facendo una cosa che non faceva da molte migliaia di anni.

  Ecco cosa stava facendo.

  Cantava.

  Aveva una voce bellissima, melodiosa e dolce. Come tutti gli angeli era perfettamente intonato.

  Islington stava cantando una canzone di Irving Berlin. E men­tre cantava, ballava, con movimenti e passi lenti e impeccabili, nel suo Gran Salone pieno di candele.

  Heaven, cantava l'angelo, I'm in Heaven

  son felice al punto che non lo so dir

  perché ciò che voglio riuscirò ad aver

  se ballando manterrò il mio savoir-faire.

  Heaven, I'm in Heaven,

  e i problemi spariranno tutti in fretta

  quando avrò ottenuto il posto che mi spetta...

  Smise di danzare quando raggiunse la porta nera nella sua stan­za, la porta fatta di silice e argento annerito. Con infinita lentezza fece scorrere le dita lungo la porta, appoggiando la guancia sulla superficie gelida.

  Poi continuò, più pacatamente, a cantare.

  Heaven...

  I'm in Heaven...

  I'm in Heaven...

  I'm in Heaven...

  Quindi sorrise, dolcemente e teneramente, e il sorriso dell'An­gelo Islington era una cosa terribile a vedersi.

  Pronunciò le parole, ripetendole tra sé e sé, le sillabe sospese nell'aria dell'oscurità della sua stanza illuminata dalle candele.

  «I'm in Heaven, sono in Paradiso» disse.

  Richard stava aggiungendo un'altra annotazione al suo diario mentale. Caro Diario, pensava. Oggi sono sopravvissuto alla passeggiata sulla passerella, al bacio della morte e a una lezione sui calci.

  Proprio in questo momento sto attraversando un labirinto con un pazzo bastardo che è risuscitato dalla morte e una guardia del corpo che si è rivelata essere una... qualunque cosa sia l'opposto di una guardia del corpo. Sono in acque talmente profonde per le mie possibilità che...

  Gli sfuggi la metafora.

  Stavano procedendo a fatica per uno stretto passaggio di terra bagnata e paludosa in mezzo a scuri muri di pietra.

  Il Marchese portava sia il lasciapassare sia la balestra, e cam­minava tre metri dietro a Hunter.

  Richard teneva la lancia e una torcia gialla che illuminava i muri e il fango. Camminava davanti a Hunter, ma a debita distan­za. La palude puzzava, e grosse zanzare avevano cominciato a mordere Richard sulle braccia, sulle gambe e sul viso. Fino a quel momento né Hunter né il Marchese avevano minimamente men­zionato le zanzare. Richard cominciava a sospettare che si fossero persi.

  E il suo umore non veniva per nulla risollevato dal fatto che qui e là nella palude ci fossero dei morti: corpi coriacei ben con­servati, ossa di scheletri e pallidi cadaveri. Si chiedeva da quanto fossero li, e se fossero stati uccisi dalla Bestia o dalle zanzare.

  Lasciò passare altri cinque minuti e nove punture di zanzara, poi gridò, «Credo che ci siamo persi. Da qui siamo già passati.»

  Il Marchese alzò il talismano. «No. Va tutto bene» disse. «Il pegno ci sta portando dritti alla meta. Cosetta intelligente.»

  «Già» disse Richard ben poco impressionato. «Molto intelli­gente.»

  Fu allora che il Marchese mise il piede nudo sulla gabbia toracica frantumata di un cadavere semi sepolto, che gli perforò il cal­cagno e lo fece inciampare. La statuina nera volò in aria e con un gran tonfo cadde nella palude. Il Marchese si rialzò e puntò la ba­lestra alla schiena di Hunter. Al tallone destro provava una doloro­sa sensazione di calore: si augurava di non essersi procurato un taglio profondo. Aveva già troppo poco sangue per potersi permet­tere di perderne altro.

  «Richard!» gridò. «Mi è caduta. Puoi tornare qui?»

  Richard tornò sui suoi passi, tenendo alta la torcia, sperando di scorgere il luccichio della fiamma sull'ossidiana ma non vedendo altro che fango bagnato.

  «Scendi a vedere» disse il Marchese.

  Richard emise un gemito.

  «Hai sognato la Bestia, Richard» disse il Marchese. «Vuoi dav­vero incontrarla?»

  Richard non dovette pensarci a lungo, quindi appoggiò la lan­cia di bronzo, infilò la torcia nel fango in modo che potesse rima­nere dritta e illuminare la superficie della palude di una disconti­nua luce ambrata, poi si mise carponi nel pantano a cercare la sta­tuetta.

  Faceva scorrere le mani in superficie, sperando di non incon­trare facce o mani morte.

  «E impossibile. Potrebbe essere ovunque.»

  «Continua a cercare» disse il Marchese.

  «L'ho vista!» urlò Richard.

  Si dibatté nel fango in direzione della statuina. La piccola be­stia lucida si trovava in una pozza di acqua scura. Forse il fango era stato disturbato dall'approssimarsi di Richard; più probabil­mente, secondo i suoi forti sospetti, si trattava solo della semplice predisposizione sanguinaria del mondo fisico. In ogni modo, era a poco più di un metro di distanza dalla statuetta quando la palude fece un rumore che pareva un gigantesco brontolio di stomaco, e un'enorme bolla di gas sali in superficie, scoppiando maleficamen­te e oscenamente accanto al talismano, che scomparve sottacqua.

  Richard raggiunse il punto dove era affondato il pegno e infilò le braccia nel fango cercando di ritrovarlo. Tutto inutile. Era sparito.

  «E adesso cosa facciamo?» domandò Richard.

&n
bsp; Il Marchese sospirò. «Torna qui, e vedremo di inventarci qual­cosa.»

  Con tono pacato Richard disse, «Troppo tardi.»

  Arrivava verso di loro cosi lentamente, cosi pesantemente. Que­sto fu il suo primo pensiero. Poi si accorse di quanto terreno riu­sciva a coprire, e comprese l'entità del suo errore nel considerarla lenta. A una decina di metri da loro la Bestia rallentò e si fermò. I suoi fianchi fumavano. Muggi, in segno di trionfo e di sfida.

  Sui fianchi e sulla schiena erano conficcate lance spezzate, spade in frantumi e coltelli arrugginiti.

  La gialla luce della torcia faceva scintillare gli occhi rossi, le zanne e le corna.

  Abbassò la testa massiccia. Una specie di cinghiale? pensò Ri­chard, poi si rese conto che era una sciocchezza: nessun cinghiale potrebbe essere cosi enorme. Aveva le dimensioni di un toro, di un elefante, di un sogno. Li fissava, fermandosi per un centinaio di anni, che si manifestarono in una decina di battiti del cuore.

  Hunter si inginocchiò e sollevò la lancia dalla palude, dalla Fleet Marsh. Con una voce che era gioia allo stato puro, disse, «Si! Finalmente!»

  Aveva dimenticato tutto e tutti; dimenticato Richard in mezzo al fango, e il Marchese con la sua stupida balestra, e il mondo. Era estasiata e rapita, in un luogo perfetto, il mondo per cui viveva. Il suo mondo conteneva due cose: Hunter e la Bestia.

  Anche la Bestia lo sapeva. Era l'incontro perfetto, il cacciatore e il cacciato. E chi fosse chi, cosa fosse cosa, solo il tempo avreb­be potuto dirlo; il tempo e la danza.

  La Bestia caricò.

  Hunter attese di poter vedere la saliva uscirle dalla bocca, e mentre andava verso di lei la colpi, dal basso verso l'alto, con la lancia; ma sentendo come entrava la lancia, capì di avere tardato una frazione di secondo di troppo, e la lancia le scivolò dalle mani intorpidite. Una zanna più affilata della più affilata lama di rasoio le penetrò il fianco.

  Cadendo sotto la bestia, ne senti gli zoccoli che le frantumava­no il braccio, l'anca e le costole. Ed ecco, se ne era andata, svanita di nuovo nell'oscurità, e la danza si era conclusa.

  Mister Croup si sentiva più sollevato di quanto avrebbe mai ammesso mentre si trovavano nel labirinto. Ma lui e mister Vandemar l'avevano attraversato indenni, e lo stesso sì poteva dire della loro preda.

  Di fronte avevano una parete di roccia, con una porta di quer­cia e uno specchio ovale incastonato nella porta.

  Mister Croup toccò lo specchio con una mano lurida.

  Al tocco la superficie dello specchio si appannò. L'Angelo Islington guardò fuori.

  Mister Croup si schiari la voce. «Buon giorno, signore. Siamo noi, e abbiamo la giovane signora che ci avete mandato a prendere.»

  «E la chiave?» La dolce voce dell'angelo sembrava provenire da tutto intorno a loro.

  «Pende dal suo collo di cigno» disse mister Croup, soddisfatto.

  «Entrate» disse l'angelo.

  Allora la porta si spalancò e entrarono.

  Era successo tutto cosi in fretta. La Bestia era uscita dall'oscu­rità, Hunter aveva afferrato la lancia, poi la Bestia l'aveva caricata ed era tornata a scomparire nel buio.

  Richard si sforzò di sentire la Bestia. Non riusciva a sentire nulla tranne, chissà dove, il lento plip, plip dell'acqua e l'acuto gemito delle zanzare.

  Hunter giaceva sulla schiena. Un braccio era piegato a formare un angolo improbabile. Strisciò verso di lei attraverso il pantano.

  «Hunter?» bisbigliò. «Mi senti?»

  Un momento di esitazione, poi un sussurro tanto flebile che per un attimo pensò di esserselo immaginato. «Si.»

  Il Marchese era ancora a qualche passo di distanza, in piedi ac­canto al muro. Gridò, «Richard - resta dove sei. Il mostro sta solo aspettando il momento buono. Tornerà.»

  Richard lo ignorò e parlò a Hunter.

  «Ti...» esitò. Gli sembrava una cosa tanto stupida da dire, ma la disse lo stesso. «Ti rimetterai presto?»

  Lei rise, poi, le labbra chiazzate di sangue, scosse il capo.

  «Non ci sono dei medici quaggiù?» domandò al Marchese.

  «Hmm. Non nel senso che intendi tu. Abbiamo dei guaritori, una manciata di flebotomi e cerusici...»

  In quel mentre Hunter tossì e sussultò. Una striscia di sangue rosso acceso le colava dall'angolo della bocca.

  Il Marchese si avvicinò. «Tieni la tua vita nascosta da qualche parte, Hunter?» domandò.

  «Sono un cacciatore» bisbigliò lei, sprezzante. «Non ci preoc­cupiamo di queste cose...» Con molto sforzo fece entrare aria nei polmoni, poi espirò, come se il semplice atto di respirare stesse diventando troppo faticoso. «Richard, hai mai usato una lancia?»

  «No.»

  «Prendila» bisbigliò.

  «Ma...»

  «Fallo!» La sua voce era bassa e pressante. «Sollevala. Tienila in mano dalla parte che non taglia.»

  Richard sollevò la lancia caduta, reggendola all'estremità non affilata. «Fino a li ci arrivavo» le disse.

  Il barlume di un sorriso le si diffuse sul volto. «Lo so.»

  «Ascolta,» disse Richard sentendosi, non per la prima volta, come l'unica persona sensata in una gabbia di matti, «proviamo a starcene molto tranquilli. Forse se ne andrà. Poi potremo cercare qualcuno che ti aiuti.»

  E, non per la prima volta, la persona a cui si rivolgeva lo ignorò completamente. «Ho fatto una brutta cosa, Richard Mayhew» sus­surrò tristemente Hunter. «Ho fatto proprio una brutta cosa. Perché volevo essere io a uccidere la Bestia. Perché mi serviva la lancia.»

  Poi, incredibilmente, cominciò a tirarsi su. Richard non si era accorto della gravità delle ferite, e ora non riusciva neppure a im­maginare il dolore che doveva provare. Il braccio destro penzola­va inerte, con un bianco frammento di osso che sporgeva orribil­mente dalla pelle. Dal taglio nel fianco perdeva molto sangue. La gabbia toracica sembrava storta.

  «Fermati!» sibilò inutilmente Richard. «Rimettiti giù!»

  Con la mano sinistra aveva estratto un pugnale dalla cinta, se lo era messo nella mano destra, serrando le dita intorno al manico.

  «Ho fatto una brutta cosa» ripeteva. «E ora faccio ammenda.»

  Cominciò a cantichiare a bocca chiusa. Canticchiava acuto e canticchiava basso, finché trovò la nota che faceva risuonare i muri, i condotti e le stanze, e la tenne finché sembrò che l'intero labirinto riecheggiasse della sua voce. Poi, succhiando l'aria nella gabbia toracica in frantumi, urlò, «Ehi, ragazzona! Dove sei?»

  Non accadde nulla. Nessun rumore tranne lo sgocciolio dell'ac­qua. Persino le zanzare facevano silenzio.

  «Forse... se ne è andata...» disse Richard, che teneva la lancia tanto stretta da farsi male alle mani.

  «Ne dubito» disse il Marchese.

  «Vieni qui, bastarda» gridò Hunter. «Hai paura?»

  Proprio davanti a loro si udì un ruggito sommesso, e la Bestia caricò di nuovo.

  Questa volta non erano ammessi errori. La danza, pensò Hunter. La danza non è ancora finita.

  E mentre la Bestia arrivava verso di lei, le corna abbassate, urlò, «Ora - Richard! Colpisci! Da sotto in su! Ora!» mentre la Bestia si abbatteva su di lei e le sue parole si tramutavano in un grido inesprimibile.

  Richard vedeva la Bestia uscire dall'oscurità per entrare nella luce della torcia. Tutto accadeva con estrema lentezza.

  Era come in un sogno.

  Era come in tutti i suoi sogni.

  La Bestia era cosi vicina che poteva sentirne la puzza animale­sca di merda-e-sangue, cosi vicina che poteva percepirne il calore.

  E allora colpi con la lancia, con tutta la forza che aveva, spin­gendo in su e spingendo in dentro.

  Quindi un muggito, o un ruggito, di angoscia, di odio e di do­lore. Poi, il silenzio.

  Poteva sentire il cuore che gli batteva nelle orecchie. Poteva sentire l'acqua sgocciolare. Le zanzare ripresero a gemere.

  Si rese conto di stare ancora tenendo stretta l'impugnatura del­la lancia, anche se la lama era profondamente sepolta nel corpo della Bestia. Lasciò la presa.
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  Cercò Hunter. Era rimasta intrappolata sotto la Bestia. Si mise a spingere più forte che poteva, per allontanare il caldo peso morto del mostro. Era come cercare di far partire a spinta un carro arma­to di cinquanta tonnellate, ma alla fine riuscì goffamente a toglier­glielo di dosso, almeno in parte.

  Hunter era sdraiata sulla schiena. Guardava in alto, il buio. Aveva gli occhi aperti ma in qualche modo Richard sapeva che non vedevano più.

  «Hunter?» disse.

  «Sono ancora qui, Richard Mayhew.» La sua voce pareva qua­si distaccata. Non provò neanche a cercarlo con gli occhi, a mette­re a fuoco. «È morta?»

  «Credo di si. Non si muove.»

  E allora Hunter scoppiò a ridere; era una risata strana - come se le avessero appena raccontato la barzelletta più divertente mai raccontata a un cacciatore. E tra una risata e un colpo di tosse, condivise la facezia anche con gli altri due. «Tu hai ucciso la Bestia» disse. «Quindi adesso sei il più grande cacciatore di Londra Sotto. Il Guerriero...» Poi smise di ridere. «Non mi sento le mani. Pren­dimi la mano destra.»

  Richard frugò sotto il corpo della Bestia e mise la sua mano intorno a quella di Hunter.

  «Ho ancora un pugnale tra le dita?» sussurrò.

  «Si.» Lo toccava, era freddo e appiccicoso.

  «Prendi il pugnale. È tuo.»

  «Non voglio il tuo...»

  «Prendilo.»

  Le tolse di mano il pugnale.

  «Ora è tuo» bisbigliò Hunter. Riusciva a muovere solo le lab­bra, mentre le si annebbiavano gli occhi. «Mi ha sempre protetta. Ripuliscilo dal mio sangue, però... La lama non deve arrugginire... Un cacciatore si prende cura delle sue armi.» Inghiottì un po' d'aria. «Adesso... tocca il sangue della Bestia... mettitelo sugli occhi e sulla lingua...»

  Richard non era certo di avere capito bene. «Cosa?»

  Il Marchese gli parlò all'orecchio. Non si era accorto che fosse sceso fino a li anche lui. «Fallo, Richard. Ha ragione. Ti permette­rà di attraversare il labirinto. Fallo.»

  Richard abbassò la mano sulla lancia, la fece scorrere lungo l'impugnatura finché incontrò la calda vischiosità del sangue della Bestia. Sentendosi un po' sciocco, si portò la mano sulla lingua e sugli occhi.

 

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