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Nessun Dove

Page 32

by Neil Gaiman

«Tanto lo farò comunque.»

  Richard lo fissò, poi Garry si senti sollevato vedendo che sorri­deva, e seppe che erano ancora amici. Garry lanciò un'occhiata verso il pub. Poi si ficcò le mani nelle tasche del cappotto.

  «Andiamo» disse. «Facciamo due passi. Liberati di questo peso. Poi riderò di te.»

  «Bastardo» disse Richard, e per la prima volta in parecchie set­timane aveva detto qualcosa da Richard.

  «È a questo che servono gli amici.»

  Cominciarono a camminare piano piano, alla luce dei lampioni.

  «Senti Garry,» iniziò Richard «ti sei mai chiesto se questo è tutto quello che c'è?»

  «Cosa?»

  Richard fece un gesto vago, che comprendeva ogni cosa. «La­voro. Casa. Il pub. Incontrare ragazze. Vivere in città. La vita. È tutto qui? Non c'è altro?»

  «Credo che questo riassuma tutto, sì» disse Garry.

  Richard sospirò. «Be',» disse «tanto per cominciare, non sono andato a Maiorca. Voglio dire che davvero non sono andato a Maiorca.»

  Mentre andavano su e giù per il dedalo di stradine tra Regent Street e Charing Cross Road, Richard continuava a parlare. E rac­contava, raccontava, iniziando con il ritrovamento di una ragazza ferita sul marciapiede, che aveva cercato di aiutare perché non po­teva certo lasciarla li, e quanto era accaduto dopo. Quando ebbero troppo freddo per seguitare a camminare, entrarono in un bar di quelli da poco, aperti tutta la notte. Era molto tipico, del tipo in cui tutto viene cotto nello strutto e si serve del té serio in grandi tazze alte e sbeccate, lucide di grasso di pancetta.

  Richard e Garry si misero a sedere, e Richard parlava mentre Garry ascoltava. Ordinarono uova fritte, fagioli e pane tostato e mangiarono il tutto, mentre Richard continuava a parlare e Garry continuava ad ascoltare. Trangugiarono anche l'ultimo pezzo di tuorlo e pane tostato. Bevvero altro té, finché Richard disse «... E poi Porta ha fatto qualcosa con la chiave, e io ero di nuovo qui. A Londra Sopra. Be', la Londra vera. E, be', il resto lo sai.»

  Cadde il silenzio.

  «Questo è quanto» disse Richard. Fini il té.

  Garry si grattò la testa. «Senti» disse dopo un bel po'. «È tutto vero? Non c'è un qualche orribile finale? Cioè, non c'è nessuno con la telecamera pronto a saltare fuori per dirmi che sono su Candid Camera!»

  «Spero sinceramente di no» disse Richard. «Tu... tu mi credi?»

  Garry diede un occhiata al conto sul tavolino, contò banconote e monete e le appoggiò sul piano di formica. «Credo che, be', qual­cosa deve esserti successo, è ovvio... ma per andare al punto, tu ci credi?»

  Richard lo guardava fisso. Sotto agli occhi aveva dei semicer­chi neri. «Se ci credo? Non lo so più. Ci credevo. Ero là. C'è stato un momento in cui c'eri anche tu, sai.»

  «Questo non me l'avevi detto.»

  «È stato un momento davvero terribile. Mi dicevi che ero di­ventato pazzo e che me ne andavo in giro per Londra in preda alle allucinazioni.»

  Uscirono dal bar e si diressero a sud, verso Piccadilly.

  «Be',» disse Garry «devi ammettere che sembra più plausibile della tua magica Londra sotterranea, dove va a finire la gente che cade nelle fenditure. Ne ho viste di persone cadute nelle fenditure, Richard: dormono nei vani delle vetrine dei negozi lungo tutto lo Strand. Non finiscono in una Londra speciale. Muoiono congelate dal freddo dell'inverno.»

  Richard non disse nulla.

  Garry continuò. «Penso che forse hai preso un colpo in testa. Oppure è stato una specie di shock, quando Jessica ti ha piantato. Per qualche tempo sei diventato un po' matto, poi sei rinsavito.»

  Richard rabbrividì. «Sai cosa mi fa davvero paura? Il pensiero che probabilmente hai ragione.»

  «Allora la vita non è eccitante?» continuò Garry. «Benissimo. A me la noia. Almeno so dove vado a mangiare e a dormire stasera. E lunedì avrò ancora un lavoro. Giusto?» Si voltò a fissare Richard.

  Lui annuì, esitante. «Giusto.»

  Garry guardò l'orologio. «Per la miseria!» esclamò. «Sono le due passate. Speriamo che in giro ci sia ancora qualche taxi.» Si diressero in Brewer Street. Garry stava dissertando sui taxi. Non diceva niente di originale o di interessante. Stava semplicemente adempiendo al suo dovere di londinese di brontolare riguardo ai taxi. «... Aveva la luce accesa e tutto quanto,» stava dicendo «gli ho detto dove volevo andare e mi ha risposto, mi dispiace, sto tornando a casa, e io gli ho detto, si può sapere dove abitate tutti voi taxisti? E perché neppure uno vive dalle mie parti? Il trucco consiste nel salire prima di dire che abiti a sud del fiume, cioè, cosa stava cercando di dirmi? Quando ho nominato Battersea ha reagito come se avessi detto Katmandu...»

  Richard aveva tolto l'audio. Fissava l'interno della vetrina di un negozio di periodici d'epoca, osservando i ritratti di star del ci­nema ormai dimenticate, i manifesti, i fumetti e i periodici in esposizione. Era come dare una sbirciatina a un mondo di avventura e immaginazione.

  Che non era reale. Continuava a ripeterselo.

  «Allora, tu cosa ne pensi?» domandò Garry.

  Richard tornò di colpo al presente. «Di cosa?»

  Garry si rese conto che Richard non aveva ascoltato una parola di quello che aveva detto. «Se non ci sono taxi possiamo prendere un autobus notturno.»

  «Giusto» disse Richard. «Benissimo. Perfetto.»

  Garry fece una smorfia. «Mi preoccupi.»

  «Scusa.»

  Procedettero per Windmill Street, verso Piccadilly.

  Richard affondò le mani nelle tasche. Per un attimo sembrò stu­pito, poi estrasse una penna di corvo alquanto malconcia, con un filo rosso legato al calamo.

  «Cos'è?» chiese Garry.

  «È un...» esitò. «È solo una penna. Hai ragione. È solo spazza­tura.»

  Lasciò cadere la penna nel bidone più vicino e non si voltò in­dietro. Garry indugiava, poi, scegliendo con cura le parole, disse, «Hai pensato di farti vedere da qualcuno?»

  «Farmi vedere? Guarda Garry che non sono pazzo.»

  «Ne sei certo?»

  Verso di loro stava arrivando un taxi, con la luce gialla accesa.

  «No» rispose Richard in tutta sincerità. «Ecco un taxi. Prendilo tu. Io prenderò il prossimo.»

  «Grazie.» Garry fece segno al taxista e sali nell'auto prima di dire che voleva andare a Battersea. Abbassò il finestrino e, mentre il taxi partiva, disse, «Richard - la realtà è questa. Cerca di abi­tuarti. Non c'è altro. Ci vediamo lunedì.»

  Richard lo salutò con la mano e guardò il taxi che si allontana­va. Quindi girò sui tacchi e invece di andare verso le luci di Picca­dilly ripercorse la strada in direzione di Brewer Street.

  Si fermò accanto a una vecchia signora che dormiva nel vano di entrata di un negozio. Si riparava dal freddo con una vecchia coperta strappata, e teneva accanto a sé le poche cose che possede­va - due piccole scatole di cartone piene di cianfrusaglie e un om­brello sporco che una volta doveva essere stato bianco - legate in­sieme con uno spago, a sua volta legato intorno al polso, per evita­re che qualcuno gliele rubasse mentre dormiva. Indossava un cappello di lana con pompon di colore indefinibile.

  Si tolse di tasca il portafogli, trovò una banconota da dieci ster­line, e si chinò per farla scivolare nella mano della donna.

  Lei apri gli occhi, subito sul chi va là. Guardò la banconota socchiudendo i vecchi occhi. «Cos'è?» disse, assonnata e dispia­ciuta di essere stata svegliata.

  «La tenga» disse Richard.

  Srotolò la banconota e se la infilò nella manica. «Che cosa vuoi?» chiese con sospetto.

  «Niente» rispose Richard. «Non voglio proprio niente. Assolu­tamente niente.» Si rese conto di quanto era vero, e di come tutto fosse diventato orribile. «Ha mai avuto tutto quello che desidera­va? Per poi accorgersi che in realtà non era per niente quello che voleva?»

  «Non credo di poterlo dire» rispose la donna, togliendosi un bruscolino dall'occhio.

  «Pensavo fosse questo che volevo» disse Richard. «Pensavo di volere una bella vita normale. Insomma, forse
sono pazzo. Voglio dire, forse. Ma se questo è tutto quello che c'è, allora non voglio essere savio. Capisce?» Lei scosse il capo.

  Cercò nella tasca interna.

  «Vede questo?» disse. Teneva in mano il pugnale. «Me l'ha dato Hunter prima di morire» spiegò.

  «Non farmi del male» disse la vecchia signora. «Non ho fatto niente.»

  Nella voce di Richard c'era una strana intensità. «Ho ripulito la lama dal suo sangue. Un cacciatore si prende cura delle sue armi. È con questo che il Conte mi ha nominato cavaliere. Mi ha dato la libertà del Mondo di Sotto.»

  «Io di queste cose non ne so niente» disse la donna. «Ti prego, mettilo via. Fa' il bravo ragazzo.»

  Richard soppesò il pugnale. Poi fece un affondo verso il muro di mattoni accanto al vano in cui la vecchia signora si era messa a dormire. Assestò tre fendenti, uno in orizzontale e due in verticale.

  «Cosa stai facendo?» chiese con circospezione la donna.

  «Sto facendo una porta» rispose.

  Lei tirò su col naso. «Dovresti metterlo via quell'affare. Ti manderanno dentro per possesso di armi.»

  Richard guardava il contorno di porta che aveva inciso sui mat­toni. Si rimise in tasca il pugnale e cominciò a tempestare il muro di pugni. «Ehi! C'è nessuno li? Mi sentite? Sono io - Richard! Porta? Ma non c'è proprio nessuno?»

  Si era ferito le mani, ma continuava a colpire e a battere contro il muro.

  Poi la pazzia lo abbandonò, e smise.

  «Mi scusi» disse alla vecchia signora.

  Lei non rispose. O si era riaddormentata oppure, con ogni pro­babilità, fingeva di averlo fatto. Dal vano dell'ingresso del nego­zio proveniva un anziano russare, vero o simulato che fosse.

  Richard si mise a sedere sul marciapiede, chiedendosi come fosse possibile riuscire a incasinarsi la vita come aveva fatto lui.

  Poi si voltò di nuovo a guardare la porta disegnata sul muro.

  Dove aveva inciso la sagoma, adesso c'era un'apertura a forma di porta. Sulla soglia c'era un uomo, le braccia incrociate in posa teatrale. Rimase in quella posizione finché fu certo che Richard l'avesse visto. Quindi si produsse in un grandioso sbadiglio, co­prendosi educatamente la bocca con una mano scura.

  Il Marchese de Carabas inarcò un sopracciglio. «Allora?» dis­se, con tono impaziente. «Vieni o no?»

  Richard lo fissò giusto il tempo di un battito del cuore.

  Poi annui, non fidandosi a proferire parola, e si alzò. Insieme, i due si allontanarono attraverso il buco nel muro, verso l'oscurità, senza lasciarsi nulla alle spalle. Neppure una porta.

  RINGRAZIAMENTI

  Questo libro, come la maggior parte dei libri, è stato scritto da una persona che ha messo una parola dietro l'altra fino alla parola fine.

  Tuttavia, dato che questo libro è stato scritto alla rovescia e per ultimo, le persone che devo ringraziare sono davvero moltissime.

  Per primo e soprattutto, Lenny Henry, intrattenitore, attore e ap­passionato di fumetti, per avermi chiesto se volevo scrivere una se­rie televisiva di fantasy contemporaneo, oltre cinque anni fa. La sto­ria è nata passeggiando nel suo giardino e mentre tenevo in braccio la sua cagnolina Delilah a cui Lenny doveva cambiare la fasciatu­ra. Il suo entusiasmo mi ha spinto a scrivere, ha fatto accettare l'idea e ha portato avanti il progetto anche nei giorni più foschi.

  Janet Street-Porter è stata di una forza più unica che rara durante la prima metà del processo di stesura. Clive Brill ha curato la sto­ria e prodotto la serie televisiva. Nessun dove non sarebbe ciò che è, senza Clive Brill. Abbiamo avuto un sacco di discussioni negli ultimi quattro anni, e quando non ci trovavamo d'accordo, ero ov­viamente sempre io ad avere ragione, mentre Clive aveva altret­tanto ovviamente sempre torto. Ma è stato stupefacente notare quanti suoi suggerimenti hanno finito per diventare parte integrante dello schema, e quanti suoi cambiamenti hanno migliorato le cose.

  Dewi Humphreys ha diretto la serie. In qualità di regista ha portato la sua visione personale. In ogni parte del libro gli ho ru­bato delle idee senza alcuna vergogna, e lo stesso ho fatto con Ja­mes Dillon, art director e curatore del set. Il mio grazie a entrambi.

  Ho un debito di riconoscenza con l'altro me stesso che, negli ultimi cinque anni, si è preoccupato e angosciato riguardo alla do­manda più terribile per uno scrittore: «E adesso, cosa succede?» Dato che è riuscito a trovare una risposta ogni volta, a me è spetta­to solo raccontare la storia.

  Ho avuto il grande privilegio di poter gironzolare nei luoghi scelti per le scene della serie Tv mentre venivano girate, riuscendo a stare tra i piedi a tutti. L'ho apprezzato molto: non capita spesso di vagabondare nei propri paesaggi interiori.

  I miei ringraziamenti agli attori, che hanno impersonificato le parole. Ho preso spunto dalle loro interpretazioni per migliorare il libro, quindi grazie a tutti.

  Grazie all'intera troupe (MaiCaldo, MaiPulito, MaiDetto, MaiLoStessoPostoDueGiorniDiFila), che mi ha sopportato, rispon­dendo volonterosamente alle mie domande senza smettere di lavo­rare. (MaiPiù).

  Kelli Bickman ha battuto a macchina i primi capitoli copiando gli appunti che avevo preso a mano sul set, impresa molto più ar­dua di quanto possa sembrare detto cosi. («Che parola è questa?» «Boh, non saprei.»)

  Le due persone senza cui: Polly McDonald, stupefacente am­ministratore delegato, e Beverly Gibson, che fa si che le cose ac­cadano. Hanno dovuto sopportare di tutto.

  Sheila Ableman, della sezione libri della BBC, è stata una sostenitrice di Nessun dove fin dall'inizio. Con il suo entusiasmo e i finanziamenti che ha procurato ha permesso che tutto andasse per il verso giusto. Questo libro esiste perché lei lo ha voluto.

  Merrilee Heifetz, Carole Blake e Conrad Williams hanno prati­cato le stregonerie in cui sono davvero bravissimi.

  Tori Amos mi ha prestato la sua casa per scrivere la parte rela­tiva ai Frati Neri, mentre Steve Jones mi ha ospitato da Earl's Court al British Museum.

  Infine, la mia famiglia - moglie, bambini, assistente e gatti - è stata incredibilmente comprensiva riguardo alle mie fughe a Lon­dra Sotto per lunghi periodi. A eccezione dei gatti, due dei quali se ne sono andati pieni di disgusto durante il penultimo viaggio, e non si sono più visti.

  Neil Gaiman

  30 maggio 1996

  POSTFAZIONE

  Diventato famoso con la serie a fumetti Sandman e le avventu­re del Signore dei Sogni, Neil Gaiman ha sorpreso tutti decidendo di porre fine alle sue avventure. Non dev'essere stato facile. Con quel personaggio è diventato famoso, ha vinto un'infinità di premi e ha affascinato molta gente che dei fumetti sapeva ben poco. For­se si è reso conto che non avrebbe potuto continuare a scrivere in eterno storie come quelle, rischiando prima o poi di rovinare tutto, oppure semplicemente ha deciso di cambiare aria in cerca di nuovi stimoli. In ogni modo è stata una decisione coraggiosa. In quanti, al suo posto, avrebbero rinunciato alla gallina dalle uova d'oro?

  Grazie al successo di Sandman, Karen Berger della DC Comi­cs ebbe la possibilità nel 1993 di dar vita a una splendida collana, la Vertigo. Gaiman aveva incontrato per la prima volta Berger in un bar di Londra nel 1987, dopo averla subissata di proposte più o meno valide per almeno due anni. All'epoca Gaiman lavorava come giornalista scrivendo articoli per Time Out, il Sunday Times, Punch e The Observer.

  L'anno prima Frank Miller e Bill Sienkiewicz avevano realiz­zato Elektra: Assassin, uno dei fumetti più belli di quel periodo. La fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta è stata una delle stagioni migliori per i supereroi, trasformati in personaggi a tre dimensioni pieni di dubbi e di ombre. Eroi per coloro che erano cresciuti leggendo le avventure di Batman, Daredevil e L'Uomo Ragno, ma che se ne erano allontanati una volta diventati adulti.

  Una lezione che Gaiman dimostra di aver appreso è proprio quella di Frank Miller, che a partire da Batman, stava rivoluzio­nando in quegli anni il mondo dei fumetti riuscendo a superare la cerchia degli appassionati. Il risultato fu qualcosa di completamen­te nuovo, che aveva poco in comune con le vecchie storie della Marvel e de
lla DC Comics. Basti pensare ai classici fumetti di Thor che si aprivano con il Dio del Tuono in posa plastica sul tetto di un palazzo: osserva New York immersa nella notte, i lunghi ca­pelli che si agitavano al vento, la posa da statua greca e il martello poggiato sulla coscia. È il momento di quiete che precede la batta­glia, terreno per considerazioni retoriche sul bene e sul male, o ancora sul suo ruolo di difensore dei deboli e degli oppressi. La puntata si sarebbe inevitabilmente conclusa con la cattura dei mal­viventi, raramente con una momentanea quanto apparente sconfit­ta di Thor, che nell'episodio successivo avrebbe sbaragliato gli avversari.

  I fumetti di Miller erano tutt'altra cosa, animati da persone più che da eroi. Memorabile il Batman vecchio e stanco di The Dark Knight Returns che si aggira per una Gotham City in preda alla follia e ai tumulti. E altrettanto memorabili sono i personaggi di Daredevil in Love & War, come lo schizofrenico Victor, il masto­dontico Kingpin e la bellissima moglie malata Vanessa. Quelle at­mosfere cinematografiche, profonde, oscure e metropolitane, han­no lasciato un segno indelebile.

  Della generazione di supereroi senza macchia e senza paura ri­mase ben poco. Troppo vecchi, troppo da guerra fredda, troppo ir­reali. La Marvel però, quella di L'Uomo Ragno, degli X-Man, di Capitan America e anche di Elektra, è tornata sui suoi passi e oggi è una casa editrice per ragazzini. Pubblica vicende che assomiglia­no sempre più a una telenovela, prive di inventiva e di forza, eccezion fatta per alcune storie parallele o marginali, sul genere di L'Era di Apocalisse, uscita in Italia nel 1996, ancora capaci di stu­pire.

  I primi anni Novanta sono stati contrassegnati anche da una nuova generazione di personaggi come Spawn, Cyberforce, Witchblade, The Tenth e Arcanum, di due case editrici fondate nel 1992, la Image Comics e la Top Cow. Spawn, creatura di Todd McFarlane (oltre un milione e settecentomila copie vendute), è un ex agente della governo di nome Al Simmons tornato dall'Inferno dopo aver concluso un patto con il diavolo. Il suo corpo, comple­tamente ustionato, è ricoperto da un'armatura vivente (il costume) e da un mantello. Avrebbe dovuto combattere per il male, ma decide di passare dall'altra parte anche se non è chiaro chi tragga più van­taggi dalle sue azioni. Tutt'intorno troviamo servizi segreti deviati, multinazionali senza scrupoli, magia pseudo medioevale e atmo­sfere piovose e gotiche. Appartiene allo stesso genere The Tenth, anche lui ex agente del governo poi trasformato in un colosso di muscoli e rabbia da un esperimento genetico della Darkklon Cor­poration, apparentemente una multinazionale filantropica, in realtà il male assoluto in versione capitalista guidata dal terribile Rhazes Darkk. Tenth è costretto a nutrirsi di sangue per rimanere in vita e il suo unico desiderio è uccidere Darkk per vendicarsi di quanto gli ha fatto. Alla base di queste storie c'è sempre un conflitto ulte­riore e sofferenza in quantità industriali: Tenth è un mostro a tutti gli effetti, è la parte bestiale dell'Uomo che cerca disperatamente di agire a fin di bene malgrado faccia a pezzi i cattivi e ne beva il sangue per sopravvivere. Ancora una volta il bene e il male si af­frontano in una battaglia eterna. Concetti come morte, paradiso, inferno, vengono adoperati con grande disinvoltura e inseriti in un universo tecnologico e fantasy allo stesso tempo, estremamente cupo, dove i capovolgimenti di fronte e i colpi di scena sono al­l'ordine del giorno. Benché meno monolitici di Thor, i protagoni­sti di queste storie adolescenziali rimangono eroi nel vero senso della parola, capaci di imprese epiche, gesti disinteressati ed enor­mi sacrifici.

 

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